Pagina:Chiarini - Vita di Giacomo Leopardi.djvu/102

74 capitolo iv.

piamo, la traduzione del secondo libro dell‘Eneide; e ci aveva messo tutta la cura e l’impegno possibili. Rimasto preso dalle bellezze di quella poesia, bellezze che non ritrovava nella traduzione del Caro, per quanto gli paresse ammirabile, si mise in testa di riprodurle lui, proponendosi, per riuscirvi, quello che non era il miglior modo, una gran fedeltà. E, finito il lavoro, gli parve di aver fatto opera migliore di tutte le altre sue traduzioni anteriori.

Quando aveva pubblicato il saggio dell‘Odissea, s’era inginocchiato (sono sue parole) innanzi a tutti i letterati d’Italia supplicandoli a comunicargli il loro parere. Nessuno si fece vivo: né le lodi generiche comunicategli dallo Stella potevano sodisfarlo. Egli aveva un gran desiderio di farsi conoscere dai letterati più famosi del tempo. Perciò, invece di pubblicare la sua nuova traduzione nello Spettatore, come aveva fatto di tutte le altre, la mandò allo Stella, perchè gliela facesse stampare in un opuscolo a parte. Il manoscritto fu spedito il 4 ottobre 1816 da Monaldo, e il 6 dicembre Giacomo, sollecitandone la stampa, scriveva all’editore: «Sono impaziente di veder l’esito di quella mia traduzione, sopra la quale le confido così a quattr’occhi che io fondo molto speranze.»1 Finalmente l’opuscolo ai primi di febbraio del 1817 fu stampato, e con lettere del 21 l’autore ne presentava un esemplare al Mai, uno al Monti e uno al Giordani. Le lettere erano umili come di suddito a principi. Il Monti e il Mai risposero subito ringraziando, lodando e facendo qualche appunto; il Giordani risposo anche lui una lettera cortese, ma cerimoniosa; rispose prima d’aver ricevuto il libro, che doveva essere consegnato a tutti dallo Stella. Il piacentino sapeva che il Leopardi era un Signore d’ingegno e di studi raro, come poi gli scrisse, ma non

  1. Epistolario, vol. I, pag. 80.