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82 | capitolo iv. |
mi dite più niente, e risparmiatemi questa pungentissima afflizione.»1 E poi, portandogli ad esempio sé stesso: «Non vi avviliscano le malinconie, le languidezze presenti, i martirìi del pensiero: io le ho provate tutte nella vostra età; e sono sopravvissuto.... Dunque confidatevi, amatevi, curatevi. Conservate la vostra vita, come se l’ aveste in deposito dall’ Italia, e come se nel deposito si conservassero grandissime speranze di gloria e di felicità nazionale.»2
Queste parole del Giordani dovevano essere un balsamo all’ animo del Leopardi; ma l’ animo, come il corpo, era oramai troppo gravemente malato, sì che il balsamo potesse avere maggior virtù di un calmante, il quale tempera il dolore per il momento, ma non ha alcuna efficacia sul male. La malattia morale e la fisica, strettamente connesse, potevano forse essere curate, e se non vinte, attenuate negli effetti, quattro o cinque anni innanzi. Ora ogni rimedio era inutile. E da ora appunto cominciò quella terribile alternativa nella quale il poeta trascinò gli altri venti anni della sua esistenza, di desiderare la morte quando la credeva lontana, di averne paura quando la credeva vicina.
Alle raccomandazioni del Giordani, di moderare lo studio, di divertirsi, di cacciare la malinconia, Giacomo rispondeva: «Che parla ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio; unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia. So che la noia può farmi manco male che la fatica, e però spesso mi piglio noia, ma questa mi cresce, coin’ ò naturale, la malinconia. Non m’è possibile rimediare a questo, nè faro che la mia salute debolissima non si rovini, senza uscire di un luogo che ha dato origino al male, e lo fomenta e l’accresce ogni dì più.»3 Poi con altre lettere lo assicura