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le prime relazioni con p. giordani | 75 |
sapeva la sua età. Quando l’ebbe saputa dal Mai, mandò subito, dietro alla prima, una seconda lettera calda d’ammirazione e d’affetto, che dovè far trasalire di gioia il giovine marchigiano mentre la leggeva.
Egli conosceva il suo valore, si sentiva capace di opere grandi; ma udirsi dire dal Giordani che il conte Giacomo Leopardi, com’era già un miracolo di Recanati, sarebbe ben presto un onore d’Italia; che il Monti e il Mai, coi quali egli parlava spesso di lui, erano stupiti del suo ingegno e del suo sapere, dovette procurargli una di quelle sodisfazioni che non si dimenticano; la maggiore, io credo, ch’egli avesse provata fino allora. E fuori di sé dalla contentezza, rispose: «Che io veda e legga i caratteri del Giordani, che egli scriva a me, che io possa sperare d’averlo d’ora innanzi maestro, sono cose che appena posso credere. Né Ella se ne meraviglierebbe, se sapesse per quanto tempo e con quanto amore io abbia vagheggiata questa idea, perché le cose desideratissime paiono impossibili quando sono presenti.»1 E seguita parlandogli di sé e de’ suoi studi con una effusione che gli era fino allora sconosciuta, la effusione di un cuore appassionato, che ha finalmente trovato un cuore che lo intenda. Gli confessa di avere «grandissimo, forse smoderato e insolente, desiderio di gloria»; lo accerta che «se vivrà, vivrà alle lettere, perché ad altro non vuole, né potrebbe vivere»; e in un luogo della lettera gli dice: «Di Recanati non mi parli. M’é tanto cara che mi somministrerebbe le belle idee per un trattato dell’odio della patria, per la quale se Cedro non fu timidus mori, io sarei timidissimus vivere. Ma mia patria é l’Italia: per la quale ardo d’ amore, ringraziando il cielo d’avermi fatto italiano.»2