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le prime relazioni con p. giordani | 77 |
namorato della bellezza e dell’arte; anche lui disgraziato nei genitori.
Il padre suo non aveva in casa autorità nessuna; la madre, divota, avarissima, dura e fredda coi figliuoli (una specie di contessa Adelaide), governava tirannicamente tutto e tutti, sotto la direzione del prete confessore. Quando, mortogli il padre (appunto nel marzo del 1817), il Giordani divenne padrone di sé, scriveva all’amico: «Mi diverto ad esercitare pazienza colla mia buona madre, che è la più sublime e la più incomoda santa della terra: mi diverte il potermi vantare di sopportare una santità che impazientirebbe gli apostoli e i profeti.»1 Questa osservazione fa il paio con quella della buona Paolina che, come vedemmo nel primo capitolo, chiamava sua madre un vero eccesso di perfezione cristiana, una donna ottima ed esemplarissima, la quale si è imposti dei doveri verso i figli che non riescono loro punto comodi.
Con una madre e un padre sì fatti è facile immaginare quale fosse la vita di Pietro Giordani giovinetto, nell’età cioè che ha bisogno di godere, di amare, di espandersi. A lui mancò anche il conforto che a troppo caro prezzo fu largito al Leopardi, di avere negli studi l’aiuto, l’incoraggiamento e la lode del padre. A lui l’amore alle lettere fu apposto a colpa, e dovè, per volontà della madre, laurearsi avvocato. Aveva passati i venti anni, e perchè non gli piaceva esercitare quella professione, era tenuto schiavo come un fanciullo; non aveva alcun assegnamento dalla famiglia, doveva vestire come voleva la madre, trattare con chi voleva la madre, trovarsi in casa all’ora che voleva la madre; la quale, sospettosa ed inquieta, faceva spiare ogni suo passo, e voleva conoscere ogni suo pensiero, massimamente nelle cose di religione.
- ↑ Epistolario, vol. III, pag. 107.