Vita di Giacomo Leopardi/Capitolo II
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Capitolo II.
LA FANCIULLEZZA E L'ADOLESCENZA.
1798-1813.
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Sommario: Sotto il precettore Don Giuseppe Torres. — Giuochi fanciulleschi. — I piccoli Leopardi e la nonna. — Spirito d'osservazioue di Giacomo bambino. — Sua abilità nell'inventare novelle. — Veste l'abito di chierico. — Al Torres succede l'abate Sebastiano Sanchini. — Qualità e cultura del nuovo precettore. — Monaldo presiede egli stesso agli studi dei figliuoli. — Esperimenti pubblici. — Programma dell'accademia tenuta il 20 luglio 1812. — Esercizi scolastici di Giacomo. — La tragedia Pompeo in Egitto. — Giacomo comincia da sè lo studio del greco. — Suoi rapidi progressi. — Passione matta e disperata per lo studio, e primi dannosi effetti di essa nella salute. — Avvertimenti dello zio Carlo Antici per la salute di Giacomo. — Cocciutaggine di Monaldo.
La fanciullezza di Giacomo Leopardi non ebbe niente di straordinario, se ne togli la precocità dell’ingegno e la smania d’imparare e di primeggiare. Fu quella l’età sua veramente felice, la sola felice; passata, dice il fratello Carlo, «fra giuochi e capriole e studi; studi, per la sua straordinaria apprensiva, incredibili in quella età.»1 In certi suoi appunti manoscritti si legge questo ricordo: «Mi dicono che io da fanciullino di tre o quattro anni stava sempre dietro a questa o quella persona perchè mi raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor io che in poco maggior età, ero innamorato dei racconti e del maraviglioso che si percepisce coll’udito o colla lettura (giacché seppi leggere ed amai di leggere assai presto).»2
Nei primi rudimenti il piccolo Giacomo e i fratelli Carlo e Paolina ebbero maestro quel Don Giuseppe Torres stato già precettore di Monaldo. I tre fanciulli avevano una grande vivacità, Giacomo più di tutti. Nella sala di studio la presenza del maestro e dello staffile (il quale, secondo la contessa Teresa Teia Leopardi, era brandito soltanto per ispauracchio3) li teneva attenti e tranquilli. Ma appena finita la lezione, i loro salti e i loro gridi risuonavano per le stanze quasi vuote e lungo le scale, per andare a perdersi fra gli alberi nei viali del giardino. Il padre non solo tollerava, ma favoriva, dice la Teia, i giuochi romorosi dei figliuoli: li tollerava, pare, anche la madre; o forse il romore non giungeva fino a lei. Più tardi si aggiunse alla chiassosa brigata il fratello Luigi, nato nel 1804.
I giuochi che più spesso facevano in giardino, oltre le corse e gli altri esercizi ginnastici, pei quali il padre aveva fatto provvedere palle, manubri ed altri arnesi, erano i giuochi più cari a tutti i ragazzi dai sei ai dodici anni, le finte battaglie. Queste battaglie, secondo un ricordo di Giacomo in quelli appunti manoscritti che ho citati sopra, erano imitate dalle omeriche e dalle romane: i combattenti prendevano i nomi omerici, o romani della guerra civile, e usavano per armi le coccole, i sassi, i bastoni, ed anche i pugni. «Nelle finte battaglie romane, diceva Carlo al Viani, egli (Giacomo) si metteva sempre primo. Ricordo ancora i pugni sonori che mi dava.»4 Giacomo poi dice che egli sceglieva sempre la parte di Pompeo e dava quella di Cesare a suo fratello Carlo, che la prendeva con ripugnanza.5 Un giuoco preferito, oltre le battaglie, era quello del trionfo; il quale aveva luogo in special modo in due periodi dell’anno, quando si riponevano nelle serre, o si tiravano fuori, le piante degli agrumi. «Carlo, scrive la Teia, se ne ricordava sopra tutto nelle stagioni in cui ricorreva quella operazione, e ne parlava con alcuni degli stessi contadini che, giovani allora, erano invecchiati con lui. Mi faceva vedere come quelle carriole basse e piatte con le quali si trasportavano le piante servissero di carro al trionfatore. Il quale, s’intende, era sempre Giacomo. Carlo e Luigi erano i littori, o gli schiavi, secondo gli ordini che il fratello maggiore dava loro e ai ragazzi dei contadini introdottisi in giardino coi loro parenti. Carlo si vendicava della sua parte umiliante, gittando motti di scherno e lazzi al trionfatore, il quale, in segno di supremo disprezzo, rispondeva: «Olà, vile buffone!»6
Fra i giuochi che i ragazzi Leopardi facevano in casa c’era quello di dir messa, e celebrare altre funzioni religiose ad un altarino improvvisato. La Paolina, che come femmina prendeva probabilmente parte men viva, o non prendeva affatto parte alle battaglie e al giuoco del trionfo, nelle funzioni religiose faceva da cerimoniere, e serviva la messa. Di qui, secondo l’Antona-Traversi, le sarebbe venuto il nome di Don Paolo, che soleva poi per ischerzo darle il fratello Giacomo.7
A questi giuochi partecipavano talora i cugini Mazzagalli, figli di una sorella della contessa Adelaide, che rimasta vedova andava spesso coi figliuoli a trovare la famiglia Leopardi. E come allora accadeva che il frastuono nella sala delle funzioni religiose fosse maggiore, questo disturbava non di rado il buon Monaldo, il quale stava di sotto nella biblioteca a studiare; e seccato dava con un lungo bastone dei colpi nel soffitto per ammonire ch’era tempo che il chiasso cessasse o si facesse almeno più discreto.
Qualche volta erano essi i fanciulli Leopardi, che andavano in compagnia dei genitori a far visita ad altri parenti, dove trovavano un nuvolo di altri ragazzi, e intavolavano subito con loro qualche giuoco. In un appunto di Giacomo si accenna a questi giuochi e al dolore che egli provava quando sul più bello i genitori si levavano per andarsene e lo chiamavano. «Mi si stringeva il cuore, dice, ma bisognava partire, lasciando l’opera tal quale nè più nè meno a mezzo, e le sedie sparpagliate e i ragazzini afflitti.»8
Oltre i giuochi in casa e in giardino e le visite ai parenti, i piccoli Leopardi avevano un altro svago. La sera salivano spesso dalla nonna (la marchesa Virginia Mosca, madre di Monaldo), che abitava un quartierino sopra l’appartamento del figlio; ed entrati nel salotto, correndo all’impazzata, le saltavano al collo per abbracciarla e baciarla, con pericolo di rovesciare il lume sul tavolino; ciò che qualche volta accadeva. Ma guai se il vecchio cavaliere servente della dama (Volunnio Gentilucci) si attentava di sgridare i bambini! Essa la buona nonna non voleva assolutamente. E i nipotini, che trovavano in lei quella condiscendente bontà e tenerezza che mancava loro nella madre, adoravano la nonna e si sentivano felici quel po’ di tempo che potevano stare in sua compagnia.
La Teia, ch’è così larga di elogi alla contessa Adelaide, si lascia tuttavia sfuggire questa osservazione rispetto alle nonne, ch’erano, essa dice, assai più carezzevoli della madre. «Se quelle amorevoli matrone avessero sopravvissuto alla prima giovinezza dei nipoti, il destino di Giacomo sarebbe stato diverso: egli non avrebbe disertato sì spesso la casa paterna, per non più ritornarvi.»9
La Teia loda la contessa Adelaide per il suo contegno riservato ed austero, pur ammettendo cbe dalla esagerazione di esso potesse derivare l’apparente difetto di tenerezza. Quel contegno, secondo la Teia, tanto la contessa quanto il marito, ma la contessa in particolar modo, se lo erano imposto per riguardo alla educazione dei figliuoli. I genitori, scrive essa, erano «sempre intenti a vigilare sulle impressioni che si potevano destare in quelle piccole anime; e tutte le loro azioni e le parole erano regolate in guisa da non provocare in loro nessuna sinistra interpretazione. Essi non udirono mai dalla loro bocca una parola risentita, impaziente, collerica. Furono licenziate delle cameriere e dei domestici, ma non mai rimproverati in loro presenza.»10
Che la contessa fosse sempre calma e dignitosa, e che non si sgridassero mai i servitori in presenza dei figli, sono due fatti, il primo dei quali è smentito da Monaldo, il secondo da Giacomo. Riferii nel primo capitolo che Monaldo scrisse nella Autografia: «Mia moglie, se io le tacessi la causa di un sospiro, mi leverebbe le lettere dalle tasche, mi farebbe un processo, metterebbe a rumore tutto il paese.» E Giacomo, in quelli Appunti e ricordi, che ho più volte citati, dice che «sentendo fare qualche rimprovero o duro comando alla servitù, fuggiva.»
Vi sono nei detti Appunti altri accenni alla sua fanciullezza, che meritano di essere riferiti. Di cinque sei anni ebbe una malattia mortale, di cui non mi ricordo che sia stato fatto cenno altrove: la prima volta che da ragazzo andò al teatro, la musica gli fece tale impressione, che credettero gli fosse venuto male: si occupava di un fratellino più piccolo (Pietruccio), gli suonava (sono sue parole) quando era in fasce, lo ammaestrava, gli faceva spariente circa le tenebre: si entusiasmava per la uccisione di Cesare: studiando la geografia, concepì il desiderio di viaggiare: era compiacente e lezioso, ma terribile nell’ira, e per la rabbia andato in proverbio tra fratelli, più cattivi nel resto: piangeva e si rattristava d’esser uomo, perchè sua madre lo teneva per matto.
Una delle sue cugine, Ippolita Mazzagalli, maggiore a lui di un anno, raccontava, non più giovine, alla Tela che Giacomo mostrò fino da piccolo uno d’osservazione veramente singolare, adducendo in prova questo aneddoto. Una sera che la contessa Adelaide aveva conversazione, si trovarono per caso riunite nel suo salotto molte persone tutte di una bruttezza straordinaria. Giacomo avvicinandosi al fratello Carlo e alla cugina disse loro: «Qui non si sa ove riposare lo sguardo.» Questo fatto dimostra pure che il fanciullo era già un amante della bellezza: e con l’amore della bellezza andava congiunto in lui un naturale aborrimento di tutto ciò ch’era brutto, basso, volgare. I discorsi sciocchi e le allegrie triviali dei servitori, ch’egli talvolta udiva stando in una stanza attigua all’anticamera, lo facevano, attesta Carlo, ruggire come un piccolo leone. Al tempo dell’aneddoto narrato dalla Mazzagalli, Giacomo, dico essa, non aveva ancora otto anni.11
Aveva presso a poco la stessa età quando inventava le lunghe novelle dello quali parlano Carlo e la Teia. Carlo diceva a Prospero Viani: «Giacomo ebbo fino da fanciullo l’abilità straordinaria d’inventar solo novelle, e di seguitarne alcuna per più giorni, come un romanzo. Questo faceva la mattina a letto per mio spasso. Una volta n’inventò una che durò più settimane. L’assicuro che sarebbe ancor bella oggidì.»12 E la Teia scrive: «Il fanciullo autore se le componeva di soli uomini, e i tipi eran presi di fra la gente di casa, ma esagerati con un estro sì lepido e comico, che Carlo ne rideva ancora. Il tiranno Amostante rassomigliava molto, ahimè, al conte Monaldo, e la bizzarria inventrice di Giacomo lo rendeva terribile. L’eroe Filzero, il focoso Filzero, il bel parlatore che a tutto avea pronta una risposta, che batteva tutti, senza lasciarsi battere da nessuno, era Giacomo stesso. Veniva poi Lelio, la testa dura, l’imbecille ostinato, gretto, il motteggiatore spietato, che riceveva gli scapaccioni da Filzero con sublime indifferenza. Questi, diceva Carlo, era io; e se ne teneva. Il nome di Filzero restò proverbiale nella famiglia.»13
Se questi ricordi attestano la precocità dell’ingegno e una grande sensibilità, altri accennano al carattere dell’uomo futuro; questi, ad esempio, narrati da Carlo al Viani: «1° L’onorare i genitori non intendeva, esserne schiavo. Ne fu dichiarato empio dal prete. 2° Non poteva soffrire alcun disprezzo. Sdegnavasi fortemente e piangeva se alcuno della famiglia cedeva in cosa d’onore. 3° Mostrò fin da piccolo indole alle azioni grandi, amore di gloria e di libertà ardentissimo.»14
È noto che Giacomo vestì da ragazzo l’abito chiericale, ma non si sa il tempo preciso. Monaldo, però, ha lasciato memoria, che a sei anni e mezzo (il 5 gennaio 1805) Giacomo fece da padrino alla benedizione del fonte nella chiesa parrocchiale di Santa Maria in Monte Morello, portando la croce; che a dodici anni compiuti (il 19 agosto 1810) prese la tonsura, e che seguitò ancora per alcuni anni a vestire da chierico
ed usare alle funzioni di chiesa; il che lascia ragionevolmente supporre che in quelli anni fosse disposto a seguire la carriera ecclesiastica. Quando veramente gli venisse l’idea di abbandonarla e svestisse
l’abito, si ignora; ma è probabile che ciò avvenisse fra i diciotto ed i venti anni, allorché incominciò a sentire l’impero della bellezza.
Dopo l’ex-gesuita Giuseppe Torres, Monaldo diede per precettore ai figliuoli l’abate Sebastiano Sanchini, marchigiano, stato maestro in Pesaro del suo cugino conte Francesco Cassi.
Secondo il Mestica, il Sanchini sarebbe succeduto al Torres nel 1809. Io credo un po’ prima. Giacomo afferma d’aver cominciato i suoi studi, indipendentemente dai precettori, in età di dieci anni.15 Che il Sanchini era già in casa Leopardi ai primi del 1809, è attestato dal manoscritto della traduzione in versi del primo libro delle odi d’Orazio, che Giacomo fece nell’anno decimo dell’età sua, essendo precettore (cosi dice il manoscritto) D. Sebastiano Sanchini. Mi par dunque probabile che il Sanchini entrasse in casa Leopardi almeno nel 1808. E l’affermazione di Giacomo circa il cominciamento de’ suoi studi indipendentemente dai precettori, va intesa con una certa larghezza, poiché il Sanchini, come vedremo, restò presso la famiglia Leopardi fino al 1812.
Se non vogliamo ammettere un errore di memoria in Giacomo, dobbiamo intendere ch’egli a dieci anni, pur essendoci in casa il maestro, attendesse agli studi con una certa libertà, e indipendentemente anche dalla direzione di lui. Ma che questa direzione almeno in parto ci fu fino al 1812 è fuori di dubbio.
Mestica dice che il Sanchini, come il Torres, non diede al fanciullo più che una elementare e volgarissima istruzione; che verso il 1811 gli fece studiare un po’ di logica; e che poi, non sapendo che cosa più insegnargli, se ne andò di casa Leopardi, seguitando a dimorare in Recanati, dove morì nel 1835.16 Risulta invece che il buon prete marchigiano insegnò ai fanciulli Leopardi, sotto la direzione del padre, la grammatica latina, la retorica, la filosofia, gli elementi delle scienze fìsiche e naturali, e a Giacomo anche un po’ di teologia.
Il Sanchini, senza essere un’aquila, era un discreto insegnante di latino, quale portavano i tempi; ed aveva una certa larghezza di cultura, attestata dai programmi ch’egli stesso preparava pei saggi di studio dei suoi alunni.
Non è senza interesse leggere ciò che circa gli studi de’suoi figliuoli Monaldo scriveva al Brighenti nel 1820, quando cioè s’era accorto che Giacomo aveva rotto i cancelli della educazione paterna, che nei pensieri, nei sentimenti, nelle opinioni, non era più il figlio e l’allievo del padre suo, ma il figlio e l’allievo di sé stesso. «Lo sconvolgimento fatale della ragione umana, scriveva Monaldo, che ha disonorata la nostra età, mi fece ravvisare malcauto l’affidare i figliuoli ad estera educazione, e l’afletto mio sviscerato non mi permetteva allontanarli da me. Li ho educati io medesimo, e li ho fatti studiare in casa mia quanto meglio ho saputo e potuto, ho sacrificata per essi tutta la mia gioventù; mi sono fatto il compagno dei loro trastulli, l’emulo dei loro studi, e niente ho lasciato di quanto poteva renderli contenti e grati.»17 Pover uomo! Quest’ultima cosa se la credeva lui, ma ingannandosi oh quanto! E i germi di quello sconvolgimento fatale della ragione umana, contro il quale si studiava con tanta cura di premunire i figliuoli stavano un po’ da per tutto, stavano sopra tutto nei libri che l’incauto padre aveva raccolti nella sua biblioteca, stavano nella mente di Giacomo, dove madre natura li aveva posti senza ch’egli, pover uomo, lo sospettasse.
La casa del conte Monaldo era, rispetto agli studi dei figliuoli. Liceo insieme ed Accademia: tutto vi era regolato con perfetto ordine; i ragazzi avevano a quelle date ore le loro lezioni, a quelle date ore studiavano, e in certi determinati tempi davano saggio del loro profitto in presenza di parenti e d’amici. Per alcune di queste accademie più solenni si stampavano fino i programmi, composti dal prete Sanchini. Giacomo era, s’ intende, l’eroe di queste solennità; e Carlo ci fa sapere che scriveva di nascosto i componimenti anche per lui e per la sorella, e suggeriva loro (con segni o movimenti intesi delle dita) ciò che dovevano dire.18
L’Avoli stampa, nell’Appendice all’Autobiografia di Monaldo, il programma di una di cotesto accademie, tenuta il 20 luglio del 1812, che probabilmente fu l’ultima la più solenne. E probabilmente poco dopo di essa il Sanchini usci di casa Leopardi.
Il programma è diviso in quattro parti, ciascuna delle quali si compone di trenta numeri: la prima è scritta in latino, o comprende l’ontologia, la psicologia, la teologia naturale, la fisica generale o la fisica particolare; la seconda tratta della filosofia morale, la terza della chimica, la quarta della storia naturale: queste tre sono scritte in italiano. Nella accademia si esponevano soltanto i due fratelli Giacomo e Carlo a disputare sulle tesi del programma, accettando le contradizioni e rispondendo alle interrogazioni degl’intervenuti su qualunque punto di esso. I contradittori ed interrogatori potevano usare la lingua italiana anche nella parte del programma che dai giovani doveva essere esposta in latino. Probabilmente Carlo ci fu per figura: e probabilmente è questo il pubblico saggio di filosofia e di teologia ch’egli disse al Viani avere Giacomo dato a dodici anni.19 Se non che ne aveva quattordici; ma si capisce come a tanta distanza di tempo Carlo potesse sbagliare, confondendo forse l’anno 1812 coi dodici anni di Giacomo.
Chi getti gli occhi su quel programma, vede subito ch’ esso è fatto con le idee e coi metodi della istruzione clericale d’ allora, nelle quali e nei quali tutto era dogmatico, formale e accademico; ma non potrà non riconoscere che chi lo compilò dovè, come già accennai, avere una certa larghezza di cultura, larghezza che non fu, credo, senza qualche influenza negli studi prodigiosi che appunto intorno a quel tempo Giacomo incominciò veramente da sé.
Nella biblioteca della casa paterna si conservano fra i manoscritti di Giacomo i quinterni de’suoi lavori di scuola, lavori che sono documenti preziosi della precocità di quell’ingegno straordinario. Ci sono, dell’anno 1809, la traduzione in versi, già nominata,
del primo libro delle odi d’Orazio, fatta nel primo
semestre, quando Giacomo non aveva ancora compiti undici anni, e quella del secondo libro, fatta nel secondo semestre, a undici anni compiuti. C è, dell’anno 1810, un quinternetto sulla cui prima pagina è scritto: «Haec de meo ingenio primordia dicendi
Jacobus Leopardi exaravi;» e contiene venti componimenti latini, dei quali può essere curiosità non in tutto vana scorrere gli argomenti. Insieme alla illustrazione di questa sentenza di Giovenale: Nobilitas sola est atque unica virtiis, a un discorso imprecativo contro il perfido Sinone, ad una descrizione dell’inverno, c’è il lamento di Eva sulla morte d’Abele, una preghiera a Maria Vergine, e una Obsecratio, Divo Francisco Salesio, ut animam ab illecebris tueatur. Con le composizioni latine non mancano fra i manoscritti di quell’anno, anzi abbondano le italiane, in prosa ed in versi, versi di tutte le forme, sonetti, canzonette, canzoni, terzine, ottonari rimati, endecasillabi sciolti. C è un poemetto di tre canti, I Re Magi, in endecasillabi; un altro pure di tre canti in sestine, Il Balaamo; e una raccolta di poesie in vario metro su Catone in Affrica, che comincia con la Descrizione del campo di Farsaglia, e finisce con la
Morte di Catone (terzine) e Cesare vincitore (sonetto). Accanto ad una Dissertazione accademica sul quesito Se sia più nocevole all’uomo l’ozio o la fatica, ce n’è un’altra che ha questo titolo: Caesarcm Tyrannum fuisse raiionibus probatur. I quinternetti degli studi di Giacomo de’due anni 1809, 1810, sono non meno di venti, cinque del primo anno, quindici del secondo; e di ognuno è interessante vedere il contenuto.
Non tutti i manoscritti dei lavori scolastici del Leopardi si conservano nella biblioteca della famiglia: alcuni andarono certamente dispersi. Io ho veduto un catalogo delle produzioni di lui dall’anno 1801 in poi, compilato da lui stesso. È un quinternetto di pochi fogli con una copertina di carta a colori marmorizzata, nella prima pagina questo frontespizio: Indice|delle produzioni di me|Giacomo Leopardi|dall’anno 1809 in poi|Recanati. Nell’angolo in basso a destra è scritto d’altra mano l’anno 1812: e lo produzioni non vanno oltre questo anno. L’indice comprende quarantotto numeri: sotto uno stesso numero sono talora più componimenti. La maggior parte di essi si trovano descritti nel catalogo dei Manoscritti leopardiani esistenti a Recanati, pubblicato dal Piergili:20 ma alcuni ve ne sono che nel catalogo del Piergili mancano; questo fra gli altri, che porta il n. 39 e la data dell’anno 1811: «La virtù indiana, Tragedia.» In principio dell’indice l’autore avverte che i primi lavori in esso registrati sono difettosi; nelle altre pagine sono qua e là altre indicazioni curiose. E l’indice stesso è per sé una curiosa testimonianza che il giovinetto, il quale lo compilava fra i tredici e i quattordici anni, si considerava già uno scrittore.
Nei manoscritti degli anni 1811 e 1812, che si conservano nella biblioteca della famiglia, abbondano, fra gli studi letterari, le dissertazioni filosofiche e scientifiche: c’è un primo abbozzo dell’Istoria dell’astronomia; qualche ragionamento sacro; l’Arte poetica di Orazio travestita; e, con alcune poesie minori, la tragedia Pompeo in Egitto.
Le poesie minori sono un componimento burlesco, intitolato La dimenticanza, un polimetro Alla Signora contessa (la nonna Virginia Mosca Leopardi), cinque poesiole dedicate alla sorella Paolina, ed alcuni Epigrammi. Tutti questi componimenti, insieme con l’Arte poetica travestita e la tragedia Pompeo in Egitto, furono raccolti dal Piergili in un volumetto pubblicato dai Successori Le Monnier, ed hanno la loro importanza nella storia della vita e degli studi fanciulleschi del nostro autore.
Si vede, sopra tutto dalla tragedia, che in questo tempo egli era ancora sotto la direzione e l’influenza del padre. Monaldo aveva abituato i figliuoli fino dai primi anni ad offerire, in certe ricorrenze, a lui o ad altri parenti, qualche componimento scritto, o un saggio orale dei loro studi. Anche le feste sacre, come il Natale, la Pasqua ed altre, erano occasione ad esercizi e rappresentazioni, che avevano molta analogia con le accademie di cui s’è parlato. Pel Santo Natale del 1809 Giacomo, Carlo, Paolina e Luigi recitarono un’ egloga composta dal padre, i cui interlocutori erano Batillo, Tirso, Licori e Aminta.
Giacomo era in quelli anni, nonostante la sua passione agli studi già straordinaria, quasi sempre di buon umore e proclive agli scherzi. Tornando una volta coi fratelli da una scampagnata, in compagnia del pedagogo e del castaido, fece a quello una burla che poi descrisse lepidamente nella citata poesia La dimenticanza. Il pedagogo in campagna aveva alzato un po’ il gomito, ed i ragazzi, messi su da Giacomo, si divertirono a simulargli un agguato. La disposizione del nostro poeta agli scherzi nell’età giovanile appare anche da parecchie poesie burlesche citate in quell’Indice dell’anno 1812, di cui ho parlato, da qualche lettera e dalla traduzione dell’Arte poetica, la quale è pur notevole per certa scioltezza di linguaggio adattato all’ indole del componimento.
Ma di tutti gli scritti fanciulleschi che abbiamo nominati, il più importante sotto ogni rispetto è la tragedia Pompeo in Egitto. Essa è dedicata al padre con questa lettera: «Tres cher Pere, Encouragè par votre exemple je ai entrepris d’ecrire une Tragedie. Elle est cette queje vous present. Je ne ai pas moins profitè des vôtros œuvres que du vôtre exemple. En effet il paroit dans la premiere des vôtrcs Tragedies un Monarque des Indies occidentelles, et un Monarque des Indies orientelles paroit dans la mienne. Un Prince Roïal est le principal acteur du seconde entre les vôtres Tragedies, et un Prince Roïal sontient de le mêtne la partie plus interessant de la mienne. Une Trahison est particulierement l’objet de la troisieme, et elle est pareillenient le but de ma Tragedie. Si je sois bien, ou mal reussi en ce genre de poesie, ceci est cet, que vous devez juger. Contraire ou favorable que soit le jugement, je serais tousjours Vôtre treshumble fils Jacques.»
Questa dedicatoria non è davvero un pezzo di elegante, anzi nemmeno corretta, prosa francese; ma il prodigioso ragazzo, che già sognava la gloria letteraria, e non aveva allora altro pubblico che la famiglia e i parenti, altro giudice e maestro che il padre, ebbe l’ambizione di mostrare che, mentre provava le sue forze nell’arringo drammatico, poteva anche dar saggio della sua conoscenza di una lingua straniera. La scorretta dedicatoria prova anche che il giovinetto aveva una grande opinione del padre suo.
Egli aveva letto non solamente la tragedia di lui stampata, ma anche le altre due inedite, e da tutte e tre aveva, come ò detto nella dedicatoria, cavato profitto per la sua.
Perchè le tragedie di Monaldo valgano poco, non è da credere che quella del figlio valga drammaticamente molto di più: ma come lavoro di un ragazzo di tredici anni, che si chiama Giacomo Leopardi, è per più ragioni osservabile.
Per dar prova della sua indipendenza di giudizio, Monaldo aveva evitato di scegliere per le sue tragedie argomenti greci e romani; Giacomo forse, per dar prova della sua indipendenza dal giudizio del padre, o piuttosto per l’amor grande che aveva già preso alla storia e alla letteratura di Roma antica, scelse un soggetto romano.
La tragedia, come è stato già notato da altri, non è che un seguito di dialoghi e di monologhi, in istile fra melodrammatico ed oratorio, a proposito della sorte che si preparava a Pompeo, cercante riparo presso il re d’Egitto dopo la disfatta di Farsalia. Teodoto, confidente del re, ed Achilia, confidente di Teodoto, ben sapendo ch’esso il re avrebbe preso le parti di Pompeo, si accordano in segreto di ucciderlo a tradimento appena arrivi, per placare Cesare che lo inseguiva e per sottrarre all’ira di lui la città di Alessandria. Teodoto si prova inutilmente a dissuadere il re dal prendere le parti di Pompeo; il re non gli dà ascolto, accoglie onorevolmente il fuggitivo, pone a disposizione di lui la sua spada e i suoi soldati; ma mentre si prepara alla battaglia, i congiurati uccidono a tradimento Pompeo, e ne danno notizia a Cesare, che arriva in quel punto, e si mostra dolente della uccisione di lui.
La tragedia è tutta qui; cioè, come si vede, la tragedia non c’è, perchè manca il contrasto dei caratteri e il cozzo delle passioni, che dovrebbero produrla. I discorsi dei personaggi filano lisci lisci e scoloriti, senza produrre nessun movimento e preparare e spiegare l’azione. Il solo personaggio, nelle cui parole è qualche cosa di vivo e di caldo, è il giovine e generoso re Tolomeo, nel quale, come già osservò l’Avoli, che primo pubblicò la tragedia21, il piccolo poeta trasfuse qualche cosa del suo nobile cuore.
Ma è notevole in questo lavoro così giovanile la franchezza della verseggiatura o una certa padronanza del linguaggio poetico, che l’autore non aveva certo, imparato dal padre suo.
Nel giugno del 1813 Giacomo comimiò da sè, senza maestro, lo studio della lingua greca, è vi fece così rapidi progressi che dopo quattro mesi scrisse una lettera in greco allo zio marchese Carlo Antici, e
nella prima metà dell’anno appresso volgarizzò le
opere di Esicliio Milesio, ed illustrò latinamente il
Commentario di Porfirio sulla Vita di Plotino, emendandone la versione latina di Marsilio Ficino. Finito il lavoro e trascrittolo diligentemente in un volume di 352 pagine in quarto piccolo, lo fece legare in pergamena, e l’offrì al padre, il quale, ammirato degli straordinari progressi del figlio, scrisse sull’interno della copertina del volume questo ricordo: «Oggi 31 agosto 1814, questo suo lavoro mi donò Giacomo
mio primogenito figlio, che non ha avuto maestro di lingua greca, ed è in età di anni 16, piesi due, giorni
due.» Fino dagli ultimi del 1813 Giacomo aveva anche cominciato a studiare la lingua ebraica.
Egli era entrato oramai in quel fatale periodo di studio matto e disperatissimo che, come scrisse più tardi al Giordani, lo rovinò infelicemente e senza rimedio per tutta la vita. Non più giuochi coi fratelli, non più passeggiate, non più conversazioni, non più distrazioni di nessun genere; studiare, studiare, sempre studiare; col solo diversivo di assistere come chierico alle funzioni religiose in chiesa. Carlo, che dormiva nella stessa camera con lui, «svegliandosi nella notte tardissima, lo vedeva in ginocchio davanti il tavolino per potere scrivere fino all’ultimo momento col lume che si spegneva.»22 Era a dirittura una frenesia. Si sarebbe detto che egli sentisse fuggirsi la vita, e volesse dedicare tutti i momenti che gli restavano alla sua insaziabile avidità di sapere; si sarebbe detto che avesse paura di non fare a tempo a raggiungere il fantasma della gloria, che vedeva raggiargli dinanzi splendido, ma in lontananza.
E intanto non si accorgeva che l’immane fatica del cervello, e l’ozio forzato cui condannava i suoi muscoli gli logoravano e intristivano le delicate fibre del corpo; non si accorgeva che ogni dramma di sapere ch’ei veniva acquistando era un atomo di vita che gli fuggiva, che ogni suo passo verso l’immortalità era un passo verso la tomba. Come questo avvenisse è facile spiegare per molte ragioni, le quali possono compendiarsi tutte in quell’una, ch’egli disse una volta al padre: «Voglio essere piuttosto infelice che piccolo.»23
⁂
Ma è doloroso pensare che non se ne accorgesse il padre, e non facesse nulla per salvare dalla imminente rovina il figliuolo, che diceva di amare tanto. Fin verso i dodici anni Giacomo era cresciuto diritto della persona, come gli altri fratelli, senza nessun accenno d’imperfezione fisica. Solamente dopo il dodicesimo anno gli effetti della eccessiva applicazione allo studio e della mancanza assoluta degli esercizi del corpo cominciarono a mostrarsi nell’intristire di questo e nella incipiente gibbosità. Possibile che Monaldo non vedesse? e vedendo non sentisse la necessità e il dovere di cercarvi rimedio?
Quei marchese Carlo Antici, a cui Giacomo aveva mandato la sua lettera in greco, ora fratello della contessa Adelaide e, come sappiamo, amico di Monaldo fino dalla infanzia. Benchè, dopo il suo matrimonio con donna Marianna dei principi Mattai, si fosse stabilito a Roma, aveva mantenuto strette o cordiali relazioni con la sorella, col cognato e con la loro famiglia; e andando di tratto in tratto a passare qualche tempo a Recanati nella stagiono della villeggiatura, aveva occasione di trovarsi spesso con loro. Ammirando la precocità d’ingegno del piccolo nipote, s’interessava grandemente agli studi e ai progressi di lui, de’quali Monaldo, che andava orgoglioso di tal figliuolo, gli dava frequenti ragguagli.
Questi ragguagli fecero intravedere allo zio i pericoli ai quali la soverchia e non mai interrotta applicazione allo studio esponeva il nipote: e ne scrisse il 15 luglio 1813 a Monaldo per metterlo sull’avviso.
«Voi mi dite che il vostro impareggiabile Giacomo studia ora senza maestro la lingua greca, di cui spera di farsi padrone in un anno, e che in seguito vuol studiare l’ ebraica. Io mi rallegro con voi, con lui, col sacerdozio cui sembra sin da ora chiamato; ma permettetemi che io vi esterni la mia apprensione per la di lui salute. Il troppo assiduo studio è stato sempre fatale alla durata della vita, e specialmente quando si incomincia nell’adolescenza.... Se Giacomo interrompesse la sua logorante applicazione coll’esercizio delle arti cavalleresche, cesserebbero i miei timori. Ma quando veggo e so che il lungo e profondo studio non è interrotto che da qualche sedentaria applicazione di cerimonie ecclesiastiche, io mi sgomento col pensiero che voi avete un figlio ed io un nipote di animo forte e di corpo gracile e poco durevole. Gli antichi ed oggi i moderni ci davano l’esempio di non trascurare le forze del corpo per quelle dello spirito, ma di farle progredire di passo eguale, altrimenti le infermità fisiche opprimeranno la parte migliore dell’uomo, e converrà pur troppo applicare a tal caso il proverbio: Vale più un cane vivo che un leone morto.»24
Con questa medesima lettera l’Antici esortava il cognato a mandare Giacomo a Roma presso di lui, dove, pur distraendosi, avrebbe avuto più largo campo ai suoi studi; e con altra del mese appresso ripeteva la stessa preghiera e le stesse raccomandazioni: « scuotetelo, a suo dispetto, conservate, invigorite la sua salute con esercizi corporali.... invece di lasciarlo fra i libri, nelle prime due ore della sera portatelo a discutere nel crocchio di Gualandi....; mandatelo presto a Roma.... Se la separazione vi duole, il dovere di padre lo esige.»25
Qual genitore non si sarebbe arreso all’evidenza di queste ragioni, avendo tutti i giorni dinanzi agli occhi il figlio, che andava tutti i giorni deperendo e deformandosi? Monaldo rispose al cognato:
«Dite benissimo rapporto alla troppa applicazione del mio Giacomo. Io ne lo riprendo continuamente, ma egli si è fatto talmente allettare dallo studio che nulla gusta più fuori dei libri, e mi conviene prendere il tono serio per distaccamelo. Convengo ancora che qualche anno di Roma lo renderebbe quello che non può divenire in Recanati, anzi aggiungo che avendo con lo studio e col profitto prevenuta l’età, sarebbe quasi tempo già, di mandarvelo; ma questo è per me un tasto troppo sensibile. Privandomi di lui mi priverei nella mancanza vostra dell’unico amico che ho e posso sperare in Recanati, e non mi sento disposto a questo sacrificio.... Lasciamo al tempo suggerire le risoluzioni opportune.»26
Questa lettera, del 22 luglio 1813, è in risposta alla prima deirAntici: con altra, del 21 dicembre dello stesso anno, in risposta a nuove sollecitazioni di lui, soggiunge: «Non mi sento ancor disposto a mandare in Roma il mio amatissimo Giacomo. Lasciamo stare che il mio cuore no soffrirebbe indicibilmente, e che io rimarrei più desolato che mai, perchè alla fine se posso proprio necessario di mandarlo, dovrei russcgnarmi a qualunque sacrificio; ma io sono più che persuaso che la salute non gli permette troppo lunga assenza da sua casa, dove non gli manca un comodo, e può dare sfogo alla sua passione di studiare. Assicuratevi che la felicità di Giacomo è tutta nello studio, e qui può attenderci meglio che altrove.»27 Non c’è bisogno di esser severi nel giudicare la condotta di Monaldo in questo caso; si può anzi spingere la indulgenza fino all’estremo limite ed attribuire veramente all’amor paterno la sua cocciutaggine, ma conviene pur dire che quell’amore paterno offuscava al padre il lume della ragione. — Se fosse proprio necessario mi rassegnerei a mandarlo. — Che cosa aspettava ad accorgersi della necessità? Che il figliuolo gli morisse sotto gli occhi — Qui può dare sfogo alla sua passione di studiare meglio che altrove. — Ma non era appunto lo studio ciò che lo ammazzava?
Gli uomini pieni di contradizioni sono anche spesso pieni di incertezze, e ripongono il sommo della prudenza nel temporeggiare. — Lasciamo al tempo suggerire le risoluzioni opportune. — E il tempo fece inesorabilmente l’ufficio suo di distruttore, senza suggerir niente a chi non voleva suggerimenti. Il resultato fu che, Giacomo avendo seguitato per altri cinque anni quel suo studio matto e disperatissimo, arrivò ai venti anni con la mente piena di dottrina e col corpo miserabilmente disfatto; acquistò cioè la coscienza della sua grandezza, ed insieme quella della sua perpetua e irreparabile miseria.
E pure qualche anno innanzi, nel 1814 e nel 1815, egli si era sentito felice, aveva anzi provato quella che chiama la sua somma felicità. Poco innanzi al 1820 scriveva nei suoi Pensieri:
«La somma felicità possibile dell’uomo in questo mondo, ò quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore, che per esser certa, e lo stato in cui vive buono, non lo inquieti e non lo turbi con l’impazienza di goder di questo immaginato bellissimo futuro. Questo divino stato l’ho provato io di 16 e 17 anni per alcuni mesi ad intervalli, trovandomi quietamente occupato negli studi senz’altri disturbi, e con la certa e tranquilla speranza di un lietissimo avvenire. E non lo proverò mai più, perchè questa tale speranza che sola può render l’uomo contento del presente, non può cadere se non in un giovane di quella tale età, o almeno esperienza.»28
Quando il poeta trovavasi in questo divino stato, egli certamente non aveva ancora avuta la rivelazione intera e spietata della sua infelicità, benché il corpo di lui avesse incominciato già a deformarsi. Tutto infatuato dell’ amore della gloria, e non tocco ancora dal desiderio della bellezza, non pensava, non guardava al suo corpo. Quando poco appresso ci guardò, fu troppo tardi. E dire che se Monaldo nel 1813 avesse dato ascolto ai consigli del cognato, forse la sorte di Giacomo sarebbe stata diversa!
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Note
- ↑ Epistolario di Giacomo Leopardi, vol. III, pag. 424.
- ↑ Appunti e ricordi, nelle carte napoletane.
- ↑ Contessa Teresa Teia Leopardi, Note cit., pag. 27, in nota.
- ↑ Epistolario di Giacomo Leopardi, vol. III, pag. 424.
- ↑ Appunti e ricordi, nelle citate carte napoletane.
- ↑ Contessa Teresa Teia Leopardi, Note cit., pag. 34.
- ↑ Vedi Camillo Antosa-Traversi, Studi su Giacomo Leopardi; Napoli, Detken, pag. 96.
- ↑ Appunti e ricordi, nelle citate carte napoletane.
- ↑ Contessa Teresa Teia Leopardi, Note cit., pag. 28.
- ↑ Idem.; ibid., pag. 26.
- ↑ Vedi Contessa Teresa Teia Leopardi, Note citate, pag. 87 e 28 in nota.
- ↑ Epistolario di Giacomo Leopardi, vol. III, pag. 425.
- ↑ Contessa Teresa Teia Leopardi, Note citate, pag. 32, 33.
- ↑ Epistolario di Giacomo Leopardi, vol. III, pag. 424, 425.
- ↑ Epistolario di Giacomo Leopardi, vol. II, pag. 128.
- ↑ Mestica, Manuale della letteratura italiana del secolo decinonono, vol. II, parte I, pag. 2.
- ↑ Autobiografia di Monaldo Leopardi (Appendice), pag. 298.
- ↑ Epistolario, vol. III, pag. 425.
- ↑ Vedi Epistolario, vol. III, pag. 425.
- ↑ Nel volume Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, terza edizione; Firenze, Le Monnier, 1892, a pag. 165 e seg.
- ↑ Pompeo in Egitto, tragedia inedita di Giacomo Leopardi, pubblicata per cura di Alessandro Avoli; Roma, Tipografia A. Bofani, 1884. Vedi ivi., pag. 8.
- ↑ Vedi Epistolario, vol. III, pag. 421.
- ↑ Vedi Epistolario, vol. I, pag. 217.
- ↑ Appendice all’Autobiografia di Monaldo Leopardi; pag. 278 e 279, in nota.
- ↑ Appendice cit., pag. 280, in nota.
- ↑ Ivi, pag. 279.
- ↑ Appendice cit., pag. 280, 281.
- ↑ Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura di Giacomo Leopardi; Firenze, Le Monnier, 1898; voi. I, pag. 187.