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28 | capitolo ii. |
maggiore, questo disturbava non di rado il buon Monaldo, il quale stava di sotto nella biblioteca a studiare; e seccato dava con un lungo bastone dei colpi nel soffitto per ammonire ch’era tempo che il chiasso cessasse o si facesse almeno più discreto.
Qualche volta erano essi i fanciulli Leopardi, che andavano in compagnia dei genitori a far visita ad altri parenti, dove trovavano un nuvolo di altri ragazzi, e intavolavano subito con loro qualche giuoco. In un appunto di Giacomo si accenna a questi giuochi e al dolore che egli provava quando sul più bello i genitori si levavano per andarsene e lo chiamavano. «Mi si stringeva il cuore, dice, ma bisognava partire, lasciando l’opera tal quale nè più nè meno a mezzo, e le sedie sparpagliate e i ragazzini afflitti.»1
Oltre i giuochi in casa e in giardino e le visite ai parenti, i piccoli Leopardi avevano un altro svago. La sera salivano spesso dalla nonna (la marchesa Virginia Mosca, madre di Monaldo), che abitava un quartierino sopra l’appartamento del figlio; ed entrati nel salotto, correndo all’impazzata, le saltavano al collo per abbracciarla e baciarla, con pericolo di rovesciare il lume sul tavolino; ciò che qualche volta accadeva. Ma guai se il vecchio cavaliere servente della dama (Volunnio Gentilucci) si attentava di sgridare i bambini! Essa la buona nonna non voleva assolutamente. E i nipotini, che trovavano in lei quella condiscendente bontà e tenerezza che mancava loro nella madre, adoravano la nonna e si sentivano felici quel po’ di tempo che potevano stare in sua compagnia.
La Teia, ch’è così larga di elogi alla contessa Adelaide, si lascia tuttavia sfuggire questa osservazione rispetto alle nonne, ch’erano, essa dice, assai più carezzevoli della madre. «Se quelle amorevoli matrone avessero sopravvissuto alla prima giovinezza
- ↑ Appunti e ricordi, nelle citate carte napoletane.