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42 | capitolo ii. |
muscoli gli logoravano e intristivano le delicate fibre del corpo; non si accorgeva che ogni dramma di sapere ch’ei veniva acquistando era un atomo di vita che gli fuggiva, che ogni suo passo verso l’immortalità era un passo verso la tomba. Come questo avvenisse è facile spiegare per molte ragioni, le quali possono compendiarsi tutte in quell’una, ch’egli disse una volta al padre: «Voglio essere piuttosto infelice che piccolo.»1
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Ma è doloroso pensare che non se ne accorgesse il padre, e non facesse nulla per salvare dalla imminente rovina il figliuolo, che diceva di amare tanto. Fin verso i dodici anni Giacomo era cresciuto diritto della persona, come gli altri fratelli, senza nessun accenno d’imperfezione fisica. Solamente dopo il dodicesimo anno gli effetti della eccessiva applicazione allo studio e della mancanza assoluta degli esercizi del corpo cominciarono a mostrarsi nell’intristire di questo e nella incipiente gibbosità. Possibile che Monaldo non vedesse? e vedendo non sentisse la necessità e il dovere di cercarvi rimedio?
Quei marchese Carlo Antici, a cui Giacomo aveva mandato la sua lettera in greco, ora fratello della contessa Adelaide e, come sappiamo, amico di Monaldo fino dalla infanzia. Benchè, dopo il suo matrimonio con donna Marianna dei principi Mattai, si fosse stabilito a Roma, aveva mantenuto strette o cordiali relazioni con la sorella, col cognato e con la loro famiglia; e andando di tratto in tratto a passare qualche tempo a Recanati nella stagiono della villeggiatura, aveva occasione di trovarsi spesso con loro. Ammirando la precocità d’ingegno del piccolo
- ↑ Vedi Epistolario, vol. I, pag. 217.