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la fanciullezza e l'adolescenza | 41 |
una lettera in greco allo zio marchese Carlo Antici, e nella prima metà dell’anno appresso volgarizzò le opere di Esicliio Milesio, ed illustrò latinamente il Commentario di Porfirio sulla Vita di Plotino, emendandone la versione latina di Marsilio Ficino. Finito il lavoro e trascrittolo diligentemente in un volume di 352 pagine in quarto piccolo, lo fece legare in pergamena, e l’offrì al padre, il quale, ammirato degli straordinari progressi del figlio, scrisse sull’interno della copertina del volume questo ricordo: «Oggi 31 agosto 1814, questo suo lavoro mi donò Giacomo mio primogenito figlio, che non ha avuto maestro di lingua greca, ed è in età di anni 16, piesi due, giorni due.» Fino dagli ultimi del 1813 Giacomo aveva anche cominciato a studiare la lingua ebraica.
Egli era entrato oramai in quel fatale periodo di studio matto e disperatissimo che, come scrisse più tardi al Giordani, lo rovinò infelicemente e senza rimedio per tutta la vita. Non più giuochi coi fratelli, non più passeggiate, non più conversazioni, non più distrazioni di nessun genere; studiare, studiare, sempre studiare; col solo diversivo di assistere come chierico alle funzioni religiose in chiesa. Carlo, che dormiva nella stessa camera con lui, «svegliandosi nella notte tardissima, lo vedeva in ginocchio davanti il tavolino per potere scrivere fino all’ultimo momento col lume che si spegneva.»1 Era a dirittura una frenesia. Si sarebbe detto che egli sentisse fuggirsi la vita, e volesse dedicare tutti i momenti che gli restavano alla sua insaziabile avidità di sapere; si sarebbe detto che avesse paura di non fare a tempo a raggiungere il fantasma della gloria, che vedeva raggiargli dinanzi splendido, ma in lontananza.
E intanto non si accorgeva che l’immane fatica del cervello, e l’ozio forzato cui condannava i suoi
- ↑ Vedi Epistolario, vol. III, pag. 421.