Vita di Dante/Libro I/Capitolo I

Capo Primo - I Comuni italiani nei secoli XII e XIII

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Capo Primo - I Comuni italiani nei secoli XII e XIII
L'Autore Libro I - Capitolo II


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CAPO PRIMO.




i comuni italiani nei secoli xii e xii.



                 . . . . Italia di dolore ostello!76
        . . . . . . . . . . . . . . .
E, se licito m’è, o sommo Giove,113
     Che fosti ’n terra per noi crocifisso,
     Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion, che nell’abisso121
     Del tuo consiglio fai per alcun bene
     In tutto dall’accorger nostro ascisso?



Se Dante non fosse stato altro che poeta o letterato, io lascerei l’assunto di scriverne a tanti, meglio di me esercitati nell’arte divina della poesia, o in quella così ardua della critica. Ma Dante è gran parte della storia d’Italia; quella storia a cui ho dedicati i miei studi, che ho tentata in più guise, ma che non ispero guari di poter compiere oramai. Quindi è che non avendo potuto o saputo ritrarre la vita di tutta la nazione italiana, tento ritrarre quella almeno dell’Italiano che più di niun altro raccolse [p. 8 modifica]in sè l’ingegno, le virtù, i vizi, le fortune della patria. Egli ad un tempo uomo d’azioni e di lettere, come furono i migliori nostri; egli uomo di parte; egli esule, ramingo, povero, traente dall’avversità nuove forze e nuova gloria; egli portato dalle ardenti passioni meridionali fuori di quella moderazione che era nella sua altissima mente; egli, più che da niun altro pensiero, accompagnato lungo tutta la vita sua dall’amore; egli in somma l’Italiano più italiano che sia stato mai. S’aggiugne, che l’età di Dante è, rispetto all’insegnamento morale, la più importante forse della storia d’Italia; quella in che si passò dalle brevi virtù ai lunghi vizi repubblicani. E s’aggiugne, che colle opere e collo scritto ei tentò di rattener la patria in su quel precipizio; e che cadutovi egli stesso più o meno, rimase pure in tutto lo scrittore più virtuoso che abbiamo; ond’è, che il nome di Dante tanto più risplendette sempre tra le generazioni successive, quanto più elle tornarono a virtù; e che non ultima fra le ragioni di patrie speranze, è il veder redivivo il culto e lo studio di lui. Questi furono i pensieri che mi fecero prendere amore [p. 9 modifica]all’opera; questi mi danno fiducia, che, anche adempiuta con forze troncate, ella possa riuscir non inutile nè ingrata a’ miei compatrioti. E se ella giugnesse ad alcuno di quegli stranieri, i quali ci restan benevoli per memoria de’ nostri maggiori, spero appresso di loro qualche favore dal nome di Dante, il primo grande scrittore della prima lingua moderna, il quale aprì così all’Europa tutta quella carriera di lettere e civiltà che ella corse d’allora in poi. Del resto, io scrivo per gli uomini colti sì e curiosi di particolari, ma non propriamente per gli eruditi. A questi hanno già soddisfatto parecchi altri, e principalmente il Pelli e l’autor del Veltro; ma parmi che sia pur da servire a que’ tanti che amano legger disteso, e trovar raccolto ciò che altrove si accenna.

Or prima d’incominciare la narrazione d’una vita così continuamente frammista alle condizioni della propria età, sarà utile accennar le origini di esse. Nè mi saran d’uopo molte parole. La patria nostra s’è fatta felicemente studiosa delle sue memorie del medio evo; le quali se non sono le più liete, sono certo delle più gloriose; e se talora vengono a fastidio, [p. 10 modifica]perchè risuscitate troppo sovente nelle opere d’immaginazione, sono pur fondamento di tutta la storia nostra, ondechè elle dovrebbero essere forse meno cantate che studiate. Quindi sarebbe opera perduta pe’ leggitori s’io attendessi ad insegnare loro ciò che i più hanno imparato già dal Muratori, dal Sismondi, dal Leo o da altri; e che speriamo impareranno in breve da tale, il quale seguendo con animo e fortuna maggiore la via contraria alla mia, salì già dallo studio de’ tempi di Dante alla storia generale d’Italia. Ad ogni modo giova negli assunti speciali ricordare ciò, che li riannoda alle cognizioni generali.

Già allo sfasciarsi dell’antico imperio Romano, l’Italia più infelice che non le sue provincie, era soggiaciuta non ad una, ma a tre conquiste di barbari; prima i raccogliticci di Odoacre, poi i Goti, in ultimo i Longobardi. Cagione di questa sua privilegiata infelicità, fu l’essere stata antica sede dell’imperio; l’aver mirato gli Italiani alla restaurazione di quello; e l’averla tentata gli Imperatori orientali. Secondo tristo effetto della medesima causa fu la divisione d’Italia in Greca e Longobarda [p. 11 modifica]fin dal 568; dal quale in poi la penisola non fu riunita più mai. Così mentre le altre nazioni europee conquistate una o due volte al più, ebbero agio d’immedesimarsi coi conquistatori per crescere in que’ bei reami or ammirati di Francia, Spagna od Inghilterra; all’Italia non fermatasi in niuna conquista, in niuna sventura mai, toccò la peggiore di tutte, quella di mutar sempre sventura.

Succeduta la quarta conquista de’ Franchi sotto Carlomagno, e stabilito un regno Italico, se non indipendente, almen separato sotto un figliuolo di lui, parve l’Italia entrare nella condizione delle altre nazioni europee. Ma non seguì il fatto, impedito che fu dalla restaurazione dell’imperio operata da Carlomagno il dì di Natale dell’anno 800. Fu salutata probabilmente dalle speranze degli ingannevoli Italiani, e fatta forse con intenzioni d’ordine e civiltà; quasi i regni cristiani avessero quindi a raccogliersi intorno al maggior trono imperiale, e quasi il nome preso da Roma avesse a far risorgere la lingua, gli usi, e l’antica civiltà di essa. Ma le restaurazioni delle cose troppo anticamente cadute non sogliono riuscire a gran [p. 12 modifica]prò; e tutto quell’ordinamento sognato a lunga durata, non esistè in fatti se non pochi anni. I regni Franchi se ne separarono in breve, e la Germania e l’Italia ne furono impacciate lunghi secoli; quella d’un principe incoronato, acclamato fuori di essa; questa d’un principe di schiatta, nascita, elezione, ed interessi a lei stranieri. Fra le nazioni, come tra gli uomini, chi fa infelice altrui fa tale sè stesso.

Ma entrano nelle vie della provvidenza anche le infelicità delle nazioni; e convien talora che soffra una per tutte. Così pensò già, così previde meravigliosamente Dante in que’ primi versi da noi citati, che si potrebbon dire la spiegazione filosofica e religiosa di tutta la storia d’Italia. Imperciocchè tra i dolori di questa, nacque la indipendenza delle sue città, da cui poi la civiltà universale. Già fin dall’età dei Longobardi, causa il mal governo degli imperadori Greci, occasione la loro eresia Iconoclasta, promotori i Papi, eransi liberate Roma, Venezia, Ravenna e parecchie altre città con governo proprio e sotto i consoli. E durata variamente tale indipendenza sotto il manto pontificio, ma non estesasi di molto nella [p. 13 modifica]penisola dal secolo VIII all’XI, quando poi l’immortal Gregorio VII (l’Ildebrando tanto stoltamente vituperato!) si rivolse, in occasione non dissimile dalla prima, contro gli imperadori Franconi o Wibelini, usurpatori delle libertà della Chiesa, protettori d’ogni scandalo che si facesse in essa; allora anche le altre città italiane, quasi tutte si sollevarono, si liberarono, si costituirono in Comuni, e sotto ai Consoli. Fu compiuta tal rivoluzione in pochi anni, dopo la morte del santo e sommo Papa tra l’ultimo decennio del secolo XI, e i due primi del XII. Pisa, Lucca, Milano, Asti, Genova sembrano essere state delle più precoci a costituirsi da sè in Comune. Altre rimaste fedeli nel parteggiar per gli imperatori, furon liberate per concessioni varie, o lasciate liberarsi. E così divise le città in parte della Chiesa, ed Imperiale, erano libere tutte, queste non men che quelle, con poca differenza.

Naturalmente, il primo Imperadore che sorse di gran animo non volle sopportare siffatte novità. E Federico I era tal Imperadore. Guerreggiò a lungo; vinse, fu vinto, ed alla pace di Costanza sancita l’anno 1183, i Comuni della [p. 14 modifica]lega di Lombardia serbarono sotto il nome di regalie la realtà dell’indipendenza, e a governo di essi i loro Consoli. Delle città che erano state per l’Imperadore, molte, perchè non fossero in peggior condizione, ebber le regalie da lui; altre se le acquistarono con altre leghe, poco appresso. E tra tutta questa conquista d’indipendenza, un’altra erasi fatta: i dialetti popolari delle città eran diventati lingua nazionale. Dicevasi lingua volgare, ed era la lingua italiana.

Della nascente ed operante indipendenza fu natural compagna la virtù; sia che da quella questa, o che da questa quella venisse; o meglio, che l’una e l’altra s’ajutassero e crescessero a vicenda. Certo le tre immortali difese di Milano, la ricostruzione di lei pe’ vicini allora non invidiosi, la concorde fondazione e poi la difesa di Alessandria, gli altri assedi non meno fortemente sostenuti, la lega di Pontida, e quella vera battaglia da eroi combattuta e vinta a Lignano, sono fatti che dovettero a un tempo e procedere da virtù, e generarla. Questa è senza contrasto l’età più bella della storia d’Italia; quantunque per la decadenza della lingua antica [p. 15 modifica]e l’infanzia della nuova, ella rimanga men celebrata delle altre posteriori e minori. Sia poi per quel difetto di storici, o perchè quando è universale la virtù non si fa pompa di virtuosi, o perchè in una nazione concorde non risplende niuno qual duce, certo niun gran nome di condottiero o gran cittadino ci rimane di quei tempi, oltre a quello di papa Alessandro III; ma restano invece immortali i nomi di quelle città.

Del resto la maggior parte degli storici moderni chiaman Repubbliche quelli, che noi abbiam quì chiamati Comuni. Ma comuni o città elle chiamavan sè stesse per lo più; e se repubbliche talvolta, elle non intendevan per tal nome ciò, che ora, cioè un popolo che si regga senza principe. Riconoscevano la supremazia dell’imperadore e re Tedesco in ogni cosa non compresa nelle regalie conquistate od ottenute; in queste sole erano lor libertà, lor diritti, lor vanto. Bensì poi, queste s’interpretavano in modo più o meno largo; e non solo diversamente tra l’Imperadore e le città, ma tra una città e l’altra, e tra i cittadini della stessa. Quindi continuavano la parte dell’Imperio, e [p. 16 modifica]la contraria; e questa continuava a trovar per lo più sostegno e nome dalla Chiesa. Morti poi Federigo Barbarossa e il figlio di lui Arrigo VI, e disputandosi l’Imperio tra Filippo di Svevia altro figlio di lui, ed Ottone di Baviera, perchè i partigiani delle case di Franconia e di Svevia dal nome primitivo di quella dicevansi ab antico in Germania Weiblingen o Ghibellini, ed i partigiani de’ Bavari dal nome di molti di essi diceansi Guelfi, incominciarono i due nomi ad usarsi in Italia allo stesso modo tra i partigiani dei due Imperadori. Poscia, rimanendo indisputato imperadore Federigo II svevo, ed incominciando egli nuove contese colle città e coi Papi, il nome di Ghibellino divenne quello della parte imperiale; e perciò il nome di Guelfo quello della parte contraria delle città, della libertà più larga, del popolo e dei papi. Vedesi così che Guelfi e Ghibellini non furon altro che nomi nuovi di parti vecchie già di due secoli, contandole non più che dal sorger della Chiesa e delle città contro l’Imperio. E Federigo II, uomo di poco o nulla inferiore all’avo, ed a malgrado la cessione delle regalie, potentissimo in Italia per aver redato dalla [p. 17 modifica]madre, ultima dei Normanni, il bel regno di Puglia e Sicilia; Federigo II, durante un regno di mezzo il secolo XIII, tentò invano sì di restaurar l’antica potenza imperiale, ma tenne alta la parte d’imperio contro i Guelfi, le città e i due gran papi Innocenzi III e IV. Finalmente morto Federigo II, e prima disputandosi l’imperio fuor d’Italia tra Corrado IV figlio di lui, e Guglielmo d’Olanda, poi succedendo un lungo interregno ed abbandonata così Italia a sè stessa, s’inasprirono ed estesero più che mai le parti; prendendo vigore, la Guelfa da tale vacanza d’imperio, la Ghibellina dall’essere retta da Manfredi bastardo di Federigo II ed usurpator del regno di Puglia, ma gran guerriero, gran principe. Allora più che mai a parteggiare i cittadini in ogni città, le città tra esse, ad appoggiarsi i cittadini men forti di ognuna ai più forti di qualche vicina; a rifuggire i cacciati dall’una all’altra; a tornare ricacciando i nemici; a dividersi e suddiversi l’intera penisola, le provincie, le città, le famiglie; ed a posporsi così, a dimenticarsi quella che avrebbe dovuto essere la principal opera delle città, il compimento della indipendenza [p. 18 modifica]e l’ordinamento difensivo di essa con leghe o confederazioni durevoli. Fecersene bensì alcune anche dopo quella di Pontida, ma patteggiate tutte per poco tempo, e non serbate nemmeno per il tempo patteggiato. Che se tal contesa si paragoni a quella che cominciò poco dopo in Svizzera, tanto minore ne’ suoi principii, ma tanto più costante ne’ suoi progressi, e più compiuta nel suo termine, ovvero a quelle molto posteriori delle città dei Paesi Bassi, o degli Stati Americani, tutte più compiute; o convien dire che ai nostri maggiori mancasse l’arte e fin l’idea delle confederazioni perenni; o che da quel funesto nome, da quella potenza dell’imperio, e dallo spirito ghibellino, fossero eglino trattenuti dal progredire in quella via così chiara dell’indipendenza perfetta.

Nè bastarono tante cause ed occasioni di discordie; un’altra in breve vi s’aggiunse. Tutti que’ Comuni, da principio e durante la loro lotta d’indipendenza, furono retti da’ loro nobili. Questo pare indubitabile. Ma si disputa quali essi fossero e di quali schiatte; volendo gli uni, che discendessero molto dagli antichi Italiani o [p. 19 modifica]Romani, altri, che distrutti o spossessati questi dai Longobardi, Longobarde fossero, o Franche o Tedesche tutte le famiglie rimaste potenti nelle città; e che nobili o de’ militi non si chiamassero se non le famiglie de’ Vassalli, o Valvassori, o Valvassini, che aveano da’ Carolingi in qua ricevuti benefizi o feudi. Io m’accosterei a questa ultima opinione; pur aggiungendovi, che molte famiglie Longobarde, e forse alcune residue Romane, furon lasciate salire a quei gradi di vassallanza o nobiltà. Ad ogni modo par certo, che come gli Scabini anteriori, così i Consoli del secolo XII non si prendessero se non ne’ diversi ordini di tali Vassalli, o tutt’al più fra gli Arimanni, che era il resto de’ Longobardi. Il grosso della popolazione romana antica, gli artieri delle città erano sì ammessi personalmente al grado di militi (con grave scandalo degli stranieri tramandatoci dai loro scrittori); ma come plebe in complesso, come artieri non erano dapprima ammessi al governo del Comune. Ma tra il fine del XII e il principio del XIII, cioè quando troppo presto si finì di combattere per l’indipendenza, vi fu quasi in tutte le città come una [p. 20 modifica]contemporanea sollevazione della plebe contro i nobili, e del grosso della schiatta antica nazionale contro le schiatte straniere. Nè perciò mutarono il governo delle città; ma, a quel modo che le città conservando la sudditanza all’Imperio aveano opposto a questo il Comune, così ora il popolo opponeva al governo comunale un governo particolare. E siccome il consiglio dei nobili reggenti il Comune chiamavansi Credenza, cioè consiglio segreto del Comune, così le società popolari fecero pur Credenze, che denominarono per lo più da un santo preso da loro a protettore. Tal fu la Credenza di San Giorgio in Milano, e molte altre città. Ma come succede, che il popolo appena ordinato signoreggia, le Credenze popolari divenner sovente governo delle città. Allora i Nobili si raccolsero fra essi, e fecero società contrarie, unendosi ora tutti i consorti come chiamavansi quei del medesimo sangue, ora per confederazioni chiamate alberghi od ospizi in vari modi. Altrove, invece di far Credenze generali del popolo, fecero società divise per arti, e ciò avvenne poi in Firenze. In somma e per ogni dove, nobili e plebei disputarono il governo [p. 21 modifica]de’ nuovi comuni durante quasi tutto il secolo XIII. E combinandosi queste parti con quelle de’ Ghibellini e de’ Guelfi, furono per lo più Ghibellini i nobili più fedeli per tradizione e per interesse all’Imperadore; Guelfi i plebei per indole, e per ulteriore amore di libertà.

Finalmente dal medesimo ceppo d’ogni male, l’indipendenza incompiuta, venne l’ultimo e pessimo danno de’ tiranni, o principi di fatto senza diritti fermi. I più erano discendenti degli antichi conti e marchesi delle città, che spogli d’ogni autorità entro le mura, potenti fuori in lor terre e castella, rientrarono poi a guerreggiarle e signoreggiarle. Altri, feudatari nuovi venuti d’oltremonte fecero il medesimo; ed altri poi sorgendo dalla plebe erano da qualche aura popolare portati a tirannia. Chiamavansi al solito non più che capitani del popolo, o podestà, o l’uno e l’altro insieme; quello nome antico, ma diventato più importante per essere ora un solo in luogo di parecchi; questa istituzione nuova introdotta principalmente dai due Federighi I e II, invece de’ consoli da essi odiati. Ma appena introdotti [p. 22 modifica]si mostrarono più addetti alla città, che li pagava, che non al principe, che gli istituiva; ondechè in breve anche le città più amanti di libertà accolsero la istituzione, meno pericolosa oramai per l’origine nemica, che comoda per sua unità. Ma capitani e podestà, d’origine imperiale o comunale, di schiatte antiche o nuove, straniere o italiane, tutti, quando potevano e fin che potevano, affettavano la suprema potenza. Pochi Comuni furono così prudenti da tenersi sempre illesi di siffatte tirannie.

Ed ora si vede quale dovess’essere la condizione d’Italia, quale la testè sorta e già depravata virtù. La compiuta indipendenza è la prima necessità di uno Stato, qualunque sieno le forme di esso, le quali poco importano al paragone. Ad ogni forma è necessaria quella definizione e stabilità, che gli uni chiamano legalità, e gli altri con poca differenza legittimità; alla quale quanto più toccano le parti, tanto più sono pervertitrici. Le incertezze de’ diritti, le infedeltà, i tradimenti, i pronti innalzamenti, le frequenti cadute, le ricchezze e le povertà subitane sono cause irresistibili di pervertimenti. E così è, [p. 23 modifica]che la misera Italia, sorta alle virtù cittadine e private nelle virtuose lotte del secolo XII, cadeva ora nei vizi cittadini e privati tra le viziose del XIII. Nè sia chi ne accusi la sorgente civiltà. Obsoleto, e direi quasi pagano modo di pensare: credere inevitabil compagna della civiltà la corruzione, e predestinati noi ad essere alternatamente barbari o corrotti. Tal fosse o no la necessità della civiltà antica, tal non può essere nè è della Cristiana. E senza parlar d’altri secoli, non fu nel XIII la civiltà quella, che corruppe; ma fu corrotta essa con ogni virtù dalla incompiuta indipendenza.

E siffatta differenza di virtù tra i due secoli XII e XIII, dimostrata da tutti i fatti della storia, e notata dagli storici che si venivano dirozzando, è descritta poi e vituperata principalmente in tutto il poema di Dante; tanto che se non fosse questo la più magnifica tra le poesie delle lettere risorte, ei sarebbe ancora il più importante tra i documenti della nostra storia moderna. Tra i molti luoghi di Dante, che accennano a tal mutazione, è solenne quello ove dice:

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15In sul paese ch’Adice e Po riga
Solea valore e cortesia trovarsi
Prima che Federigo avesse briga.1
Purg. xvi

Ma più solenne ancora è quel paragone dei costumi dei due secoli di Firenze; il quale, non essendo, come in altri poeti, amplificazione su un secolo d’oro immaginario, nè come in altri moralisti vano lamento dell’età peggiorate, ma descrizione piena di storici particolari, parmi quindi che possa essere opportuna introduzione ad intendere il secolo e la vita di Dante. Epperciò, quantunque notissimo, lo pongo qui; come porrò poi altri luoghi del mio autore, ad uso di quelli fra i miei leggitori, che su un semplice cenno non ricorrerebbono forse al loro Dante, e lascerebbero così le presenti narrazioni spoglie della necessaria evidenza.

La descrizione è fatta a Dante in Paradiso da uno de’ suoi antenati vivuto tra il 1100 [p. 25 modifica]e il 1150, e morto alla crociata di Corrado III, ed è questa:2

97Fiorenza, dentro dalla cerchia antica
Ond’ella toglie ancora e terza e nona,3
Si stava in pace, sobria e pudica.
100Non avea catenella, non corona,
Non donne contigiate,4 non cintura
Che fosse a veder più che la persona.
103Non faceva nascendo ancor paura
La figlia al padre, chè il tempo e la dote
Non fuggian quinci e quindi la misura.5
106Non avea case di famiglia vote;6

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Non v’era giunto ancor Sardanapalo
A mostrar ciò che ’n camera si puote.
109Non era vinto ancora Montemalo
Dal vostro Uccellatojo,7 che, com’è vinto
Nel montar su, così sarà nel calo.
112Bellincion Berti8 vid’io andar cinto
Di cuojo e d’osso, e venir dallo specchio
La donna sua senza ’l viso dipinto;
115E vidi quel di Nerli e quel del Vecchio
Esser contenti alla pelle scoverta,9
E le sue donne al fuso ed al pennecchio.
118O fortunate! e ciascuna era certa
Della sua sepoltura, ed ancor nulla
Era per Francia10 nel letto deserta.
121L’una vegghiava a studio della culla,
E consolando usava l’idioma
Che pria li padri, e le madri trastulla;
124L’altra, traendo alla rocca la chioma,
Favoleggiava con la sua famiglia
De’ Trojani, e di Fiesole, e di Roma11

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127Saria12 tenuta allor tal maraviglia
Una Cianghella, 13, un Lapo Salterello,14
Qual or saria Cincinnato e Corniglia.15
Parad. xv

Note

  1. Contendesi tra gli interpreti, se debba intendersi di Federico I o II. Potrebbe credersi del I, perchè questi fu che ebbe più briga tra l’Adige e il Po: ma ad ogni modo, Dante desidera quì la cortesia antica, o del fine del secolo XII, o del principio del XIII.
  2. Chi mi abbia conceduto l’arrecar i passi di Dante, forza è mi conceda alcune note ad uso de’ medesimi leggitori, che non amino d’aver più libri alle mani. Ma mi ridurrò alle interpretazioni indispensabili, rimandando chi non si contenti agli interpreti; i migliori dei quali sono raccolti nell’edizione della Minerva, Padova 1822, vol. 5 in 8°, da me seguita.
  3. In mezzo alla città, e così nella cerchia antica di Firenze era la Badia, e sulla torre di essa la campana che sonava le ore.
  4. «Contigie si chiamano calze solate col cuojo, stampate intorno al piè» (Crusca). Ma si usa anche per ogni ornamento… dal latino comptus (Ed. Min.)
  5. Cioè scostandosi dalla giusta misura il matrimonio in anni troppo verdi; e la dote con l’eccesso. (Ed. Min.).
  6. Qui mi scosterei dagli espositori da me veduti; parendomi che s’accennino non case vuote di servi, o abitatori in generale, ma di figliuolanza per vizio. È più d’accordo con quanto precede e segue, e più amaro contro il mal costume dei tempi.
  7. Montemario allor detto Montemalo, per cui allora si giungeva a Roma, e l’Uccellatojo per cui anch’oggi si giunge a Firenze; dai quali l’una e l’altra si veggono, e sui quali erano le villeggiature dei Romani e de’ Fiorentini.
  8. Potente cittadino de’ tempi virtuosi, e così altri nomati più giù.
  9. Peliccie semplici senz’ornati.
  10. A mercanteggiare ovvero ad esulare come il poeta.
  11. Nota come in questo favoleggiava delle origini supposte di Firenze il poeta si mostri più storico che non gli storici contemporanei suoi, i quali ne narravano da senno. Ma così succede de’ grandi ingegni, che veggono le verità quasi per intuizione; mentre gli altri se ne scostano tra la farraggine de’ particolari accumulati per iscoprirla o descriverla
  12. Manca per elisione uno stata.
  13. Nobile fiorentina molto lasciva de’ tempi di Dante (Ed. Min.).
  14. Giudice fiorentino carico di vizi da Dante, quantunque, o appunto perchè compagno mal gradito di Dante nell’esilio. (Ed. Min.).
  15. Per Cornelia, madre de’ Gracchi.