Canto terzo

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Omero - Versione dell’Iliade d’Omero (Antichità)
Traduzione dal greco di Scipione Maffei (XVIII secolo)
Canto terzo
Canto secondo Canto quarto

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CANTO TERZO

     Ma posciaché co’ duci lor ciascuno
schierati fur, con grida quasi augelli
e con alto rumor giansi i troiani,
qual s’ode in aria delle gru il clamore,
quando le piogge immense e ’l freddo verno
fuggendo, a l’Ocean drizzano il volo
schiamazzando e a’ Pigmei morte ed atroce
aeree portan guerra. Ma spirando
bravura, taciturni ivano i greci,
fra sé disposti di recarsi aita.
Come quando a le cime alte del monte
nòto nebbia diffonde ai guidarmenti
non amica, ma piú di notte oscura,
utile ai rapitor, né piú di quanto
può trarre un sasso uom vede; fatta polve
de’ marciami dai piè cosí s’alzava
mentre passar celeremente il piano.
     Quando appressarsi, de’ troiani in fronte
stava Alessandro deiforme, avendo
curvi archi e brando e di pantera spoglia
su gli omeri; ma due con ferrea punta
aste stringendo, de’ miglior tra i Greci
provocava il valor a fiera pugna.
Venendo ei dunque a gran passo dinanzi

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agli altri, riconobbelo il marziale
Menelao e rallegrossi; qual leone
che affamato in gran corpo o di cornuto
cervo s’avviene o di silvestre capra
e’l divora, se ben fremon d’intorno
giovan, gagliardi e rapidi mastini;
tal senti gioia Menelao, scorgendo
il deiforme Alessandro e far pensando
de l’ingiuria vendetta. Però tosto
balzò dal cocchio con tutt’armi a terra.
Quando dunque apparir videi fra’ primi,
Alessandro ferir sentissi il core
e per morte fuggir si trasse addietro
fra le torme de’ suoi. Come allor quando
uomo, in serpe incontrandosi, s’arretra,
dal monte scende, treman le ginocchia,
e impallidisce il volto, così appunto
il deiforme Alessandro ne la turba
de’ superbi troiani d’Atreo il figlio
paventando appartossi. Ben lo vide
Ettore e sua viltá con aspri detti
rimproverò: — Sgraziato Pari e solo
per l’aspetto lodabil, furioso
de le donne amator, ingannatore,
deh che nato non fossi o fossi estinto
celibe! Ciò vorrei, ciò miglior fòra
di molto ch’esser qui di tutti a vista
con tal vergogna. Ridonsi per certo
di te i greci che pria prode guerriero
ti stimar dal sembiante, ma né forza
né virtude è nel cor. Cotale essendo,
compagni osasti congregar conformi,
misto a stranieri e con veloci legni
varcando il mare, a bellicosa gente
vaga donna involar nell’apio suolo,
al padre a Troia al popolo ruina,

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gioia a’ minici e somma a te vergogna.
Il marzial Menelao che non attendi?
T’accorgeresti di qual uom leggiadra
tu ti trattenga la consorte. Nulla
65ti varrebbe la cetra e nulla i doni
di Venere e la chioma e il bel sembiante,
se con lui su la polve ti mischiassi.
Ben rispettosi in ver sono i troiani;
senza questo t’avrian co’ sassi intorno
70fatta una veste, tanti mali oprasti. —
     Il deiforme Alessandro allor rispose:
— A ragione e per certo non a torto,
Ettore, tu mi sgridi. È il tuo cor sempre
come scure che, in man di chi con arte
75fende travi per nave, entra nel legno
insuperata e forza al fabro accresce:
indomabil cosí nel petto hai l’alma.
Da la bella Ciprigna i cari doni
non rinfacciar, ché i doni aurei de’ numi,
80qual siasi ch’essi dar vogliano, e scerre
non c’è chi possa a suo talento, al certo
rigettar non si denno. Ma se adesso
vuoi ch’io guerreggi e pugni, fa che i greci
tutti e i troian posino e nel mezzo
85Menelao caro a Marte ed io siam posti
per Elena a combattere e per tutte
le sue ricchezze. Qual di noi, la palma
riportando, miglior si mostri, il tutto
abbiasi e donna e averi a casa porti;
90talché questi, amistá sacra giurando,
restino nell’opima Troia e quelli
in Argo cavallifera e in Acaia
donnibella spedito abbian ritorno. —
     Si disse, ed oltremodo rallegrossi
95ciò udendo Ettore e, in mezzo andando, i suoi
trattenne, presa l’asta a mezzo. Allora

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tutti arrestarsi, ma i chiomati achei
vèr lui saette e pietre a lanciar presero,
onde Agamennon re gridò: — Fermatevi
100o greci, non tirate, ché rassembra
parlar ci voglia il galeato Ettorre. —
     Disse, ed essi trattenersi e tantosto
stetter cheti, onde Ettor fra gli uni e gli altri
cosi parlò: — Troiani e greci, udite
105da me ciò ch’Alessandro, per cui tanto
contrasto nacque, ha detto: ei vuol che tutti
troiani ed achei sul fertil campo
posino l’armi e ch’egli e il caro a Marte
Menelao soli per Elena e per le
110sue ricchezze combattano. Qual d’essi
vittoria avrá, la donna e gli aver suoi
prenda e seco trasporti, ma noi altri
sacri patti e amistá giuriamei insieme. —
     A questi detti gli uni e gli altri tacquero,
115ma a tutti ragionò il buon Menelao.
— Ora me ancora udite, poiché me
sopra tutti ferisce il duro caso.
Spero che ormai si spartiranno argivi
e troiani, da poi che tanti mali
120per mia cagion e d’Alessandro autore
soffriste. A qual di noi s’appresti morte,
muoia, e voi separatevi ben tosto.
Ora agnelli arrecate, un bianco ed una
nera al sole e a la terra; a Giove noi
125ne recheremo un altro: ma si chiami
Priamo re che ferisca e i giuramenti
convalidi — poiché di poca fede
sono i suoi figli — accioché i sacri patti
da qualcuno non sian violati. Instabile
130de’giovani è la mente ognor, ma dove
vecchio interviene, innanzi e indietro a un tempo
riguarda e agli uni e agli altri insiem provede. —

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     Cosí disse; allegrarsi iliaci e greci,
de la guerra sperando infausta il fine.
1351 cavalli ritrassero a le file
e scesero e spogliarsi Tanni, in terra
l’une posando presso Taltre; breve
spazio correa tra questi e quelli. Ettorre
due mandò araldi a la cittá che tosto
140recassero gli agnelli e Priamo ancora
chiamassero. Agamennone a le cave
navi mandò Taltibio, che un agnello
recasse; né a ubbidire ei fu restio.
     Ma Iride in quel punto nunzia venne
145a Eléna bianchibraccia, avendo preso
di Laodice la forma, tra le figlie di
Priamo la piú bella, a la consorte
d’Antenore cognata, qual teneasi
TAntenoride re Elicaone.
150Trovolla in casa ch’ampio padiglione
lavorava splendente, duplicato
e molti figuravavi disastri
de’ troian cavalieri e de’ ferrati
achivi da le mani aspre di Marte
155per lei sofferti. Appressossi e in tal modo
Iride piéveloce a parlar prese:
— Su, cara sposa, vien mirabil cose
de’ troian cavalieri e de’ ferrati
achivi a rimirar. Quei che poc’anzi
160si faceano aspra guerra e che nel campo
di pugne atroci avidi furon tanto,
ora seggon tranquilli; ogn’ira cessa,
agli scudi s’appoggiano ed in terra
le lunghe aste stan fisse. Ma Alessandro
165e il guerrier Menelao con le lungh’aste
parte combatteranno e tu sarai
moglie di quel che avrá vittoria, detta. —
     Dolce con tai parole inspirò brama

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la dèa del primo sposo e de la patria
170e de’ suoi genitor. Di quella stanza
in bianchi lini avvolta usci tantosto
lagrimando; non sola, ché seguirla
due damigelle, Etra di Pitteo figlia
e Ciimene occhiampia. A le Scee porte
175giunser ben presto. Priamo con Pantòo
Timete, Lampo, Clizio e il marziale
Icetaone, Ucalego ed Antenore
savi ambedue sedeano a le Scee porte
come vecchi del popolo, lasciato
180per l’etá grave il guerreggiar; ma in vece
arringavan con lode, somiglianti
a cicale che in selva sopra i rami
stanno e soave mandan fuori la voce.
Cosí sedeano de’ troiani i capi
185ne la torre, ed allor che ad essi videro
Elena approssimarsi, con sommessa
voce tra lor cotai disser parole:
— Sdegnar non denno in ver troiani e greci
per tal donna soffrir cotanti affanni;
190a le immortali dèe somiglia in volto.
Ma benché tal pur sia, sen vada e a noi
e ai figli nostri un di l’eccidio estremo
non arrechi. — li re Priamo allor chiamolla:
— Vieni, diletta figlia, a me da presso
195t’assidi e mira il primo tuo consorte
e i congiunti e gli amici; di tai mali
non tu mi sei cagion, gli dèi di tutto
autori sono, essi l’infausta guerra
mandaronmi. Or di quel si grande il nome
200dimmi: chi è quel greco ampio ed eccelso?
Certo altri v’ha di piú ampia persona,
ma un così ben fatto e d’onor degno
non vidi mai; supremo re rassembra. —
Elena allora, infra le donne diva,

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205rispose: — Amato suocero, a me sempre
venerabil tu sei. Deh, morte avessi
piú tosto eletta allor che, il figlio tuo
seguendo, il letto ed i fratelli e l’unica
figlia e l’amiche amabili lasciai;
210ma non feci cosi; d’amaro pianto
però sempre mi spargo. A quanto chiedi
ora farò risposta: Atride è quegli
Againennon che impera, a un tempo stesso
re saggio e guerrier prode; egli è il cognato
215di me impudica, se pur mai ne fui. —
     Sí disse, e il vecchio l’ammirò, dicendo:
— Felice Atride e sotto lieta stella
venuto al mondo, cui tante de’ greci
schiere soggette sono! lo giá men venni
220ne la Frigia vitifera, ove molti
vidi cavallerizzi e d’Otreo torme
e di Migdone, quali aveano il campo
presso le rive del Sangario; io fui
tra i venuti in soccorso e mio luogo ebbi,
225quando arrivar le amazzoni virili.
Ma tanti non fur mai coloro, quanti
son gli occhinegri achei. — Dipoi vedendo
Ulisse, interrogava il vecchio: — Dimmi,
figlia, in grazia chi è colui, minore
230in altezza d’Atride, ma piú largo
negli omeri e nel petto? L’armi sue
giaccion nel suol moltipascente, ed egli
attorno va d’uomin file ordinando:
a velluto montone io l’assomiglio
235che per bianca trascorre ed ampia greggia. —
     Elena allor di Giove nata disse:
— È quegli di Laerte il figlio, Ulisse
astuto e saggio. Nel popol nodrito
d’Itaca fu, se bene aspra e scogliosa;
240pronto d’inganni e di ripieghi fabbro. —

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     Antenore il prudente allor riprese:
— Dicesti il vero, o donna, poiché venne
una volta qua ancora il divo Ulisse
col guerrier Menelao, per tua cagione
245mandato ambasciator. Io gli alloggiai
ed in mia casa, amicamente usando,
l’indole d’ambi ed i pensier conobbi.
Quando ne radunanze de’ troiani
stavano ritti, con le larghe spalle
250sopravanzar vedeasi Menelao;
ma, sedendo amendue, piú venerando
apparia Ulisse. Allor che discorsi
o parer proponevano a la turba,
concionar Menelao solea succinto;
255era breve, ma acuto, né punto era
loquace, né parlando errava, d’anni
benché fosse minore. Ma se il prudente
a dir sorgeva Ulisse, stava ritto
e fissi gli occhi al suol guardava basso,
260il baston non spingeva innanzi o indietro,
ma immobile il tenea, quasi inesperto:
detto l’avresti astratto e fuor di senno.
Ma quando poi voce maggior dal petto
uscir faceva e detti molti, a guisa
265di folta neve che d’inverno fiocca,
allor nessun contra di lui mortale
star a fronte potea; così d’Ulisse
non l’apparenza fu che si ammirasse. —
     Per terzo poi vedendo il vecchio Aiace,
270interrogò: — Chi è quell’altro grande
che col capo e con gli ampi omeri a tutti
sovrasta i greci? — Ripigliò la diva
fra le donne, di lunga adorna veste
Elena: — È quegli Aiace, alto de’ greci
275riparo; a l’altra parte Idomeneo
si sta qual dio fra’eretici, d’intorno

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raccolti sono i duci lor. Sovente
il guerrier Menelao nei nostri tetti
lui pur da Creta ritornante accolse.
280Ma tutti io veggo gli occhibruni achei
a ine ben noti e potrei dirne i nomi;
ina due veder non so prenci: Polluce
pugile invitto e il franco de’ destrieri
Castore domator, gemelli e della
285mia stessa madre nati: gli altri forse
non seguitar, Sparta lasciando? O pure
venner bensí ne’ legni ondi vaganti,
ma negati or virile imprender pugna
e gli trattien vergogna ed il mio scorno?
     290Cosí dicea, ma giá la vivimadre
terra color nel patrio suol di Sparta
chiudea. Gli araldi ivan portando i fidi
per la cittá dei dii giurati patti,
due agnelli ed in caprino otre viri lieto,
295che de la terra è frutto. Ideo l’araldo
rilucente portò vaso ed aurate
tazze, eccitando con tai detti il vecchio:
— Sorgi, di Laomedonte figlio, i capi
de’ troian cavalieri e de’ ferrati
300greci a scender t’invitano nel campo,
accioché gli agni feriti e giurati
sieno i patti. Alessandro e Menelao
pugnerai! per la donna con le lunghe
lancie, ed al vincitor donna ed averi
305darannosi: amistá gli altri giurando
l’opima noi Troia terremo e quelli
ad Argo equestre e ne l’Acaia andranno
donnibella. — A tal dir commosso, il vecchio
ordinò si attaccassero i corsieri.
310Ubbidirò i compagni e Priamo ascese,
tirò indietro le briglie e appresso lui
montò il cocchio bellissimo Antenore.

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I veloci destrieri per le Scee
spinsero al campo. Giunti ove i troiani
315erano e’ greci, sceser tosto a terra
e se n’andaro agli uni e agli altri in mezzo.
Agamennone re levossi tosto
e così l’assennato Ulisse. Araldi
splendenti ragunar quanto fa d’uopo
320a’ giuramenti; dal bel vaso vino
mesceano e a’ regi acqua a le mani diero.
Atride trasse il suo coltello fuori,
qual de la spada presso a la vagina
pendeva sempre, e degli agnei dal capo
325peli tagliò, quali ai maggior dei greci
e de’ troiani araldi compartirò.
Levando al ciel le mani, in alta voce
Atride a lor tal fece udir preghiera:
— Giove padre che in noi da l’Ida imperi,
330glorioso, oltragrande, e tu che tutto
vedi et odi, almo sole e terra e fiumi,
e voi che tutti colá giú sotterra
quei che spergiuri furono, punite,
siatemi testimoni e i sacri giuri
335custodite: se dar morte Alessandro
a Menelao vedrassi, abbia egli Elena
con sue ricchezze; ne le marpassanti
navi noi ce n’andrem. Se ad Alessandro
torrá la vita il biondo Menelao,
340renderanno i troiani Elena e tutti
gli averi suoi; anzi decente ancora
a’ greci e tale pagheranno ammenda
che ne resti memoria ai di futuri.
Che se, ucciso Alessandro, negheranno
345Priamo e i suoi figli di pagar tal pena,
io di pugnar non resterò per essa,
finché si vegga de la guerra il fine. — •
Disse e tagliò degli agnelli le gole

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col duro ferro, indi posegli in terra
350palpitanti e giá spenti, che il coltello
tolto avea loro il fiato. Dal cratere
attignean vino e con patere al suolo
il versavano, i numi supplicando
immortali. Ci fu de’ troici e greci
355chi favellò cosi: — Giove supremo,
glorioso e altri dèi sempreviventi,
chi prima i patti violerá sen vada,
come ora questo vino, a terra sparso
il lor cervello e de’ figli, e le mogli
360d’altri sien preda. — In modo tal parlaro,
ma il lor desio Giove adempir non volle.
     Poscia il Dardanio Priamo questi detti
proferí: — Udite me, troiani e voi
ben gambierati achivi, a la ventosa
365Troia io ritorno, ché veder con gli occhi
propri il diletto figlio col guerriero
Menelao far battaglia io mal potrei
a quel di lor morte destini il fato
Giove sa e gl’immortali numi il sanno. —
     370Ciò detto, gli agni dentro il cocchio pose
l’uomo divino, poi sali e le briglie
a sé trasse; sul cocchio ornato e vago
presso lui montò Antenore e amendue
senza ritardo ad Ilio fèr ritorno.
375Ettor di Priamo figlio e ’l divo Ulisse
pria misuraro il campo e poi le sorti
in ferreo elmo gittar, cercando a quale
di lor vibrar l’asta ferrata in prima
toccasse. Intanto a supplicar gli dèi
380le torme si volgean, le mani alzando.
E ben ci fu tra lor chi così disse:
     — Giove padre, che in noi da l’Ida imperi
glorioso, oltragrande, qual di loro
che primo fu di tanti mali autore

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385fa che trafitto a la magion di Fiuto
sen vada e sia fra noi giurata pace. —
     Diceva, ma il grand’Ettore crestato
la celata scotea rivolto indietro.
E ben tosto di Paride usci fuori
390la sorte. Essi di poi presso le file
stettero ove i destrieri alto sorgenti
e di ciascun Farmi giaceano ornate.
Vaga d’intorno agli omeri armatura
d’Elena ben crinita il divo sposo
395Alessandro vesti, ma le gambiere
prima si mise con argentee fibbie
adattate; sul petto del fratello
suo carnai Licaon pose l’usbergo,
che gli tornava appunto; ferrea spada
400a le spalle, d’argento ornata, appese
e l’ampio prese poscia e grave scudo;
elmo ben lavorato al forte capo
impose; tremolar terribilmente
la cavallina cresta alto si vede,
405e valid’asta scelse che a sue mani
ben si adattava. In simil modo armossi
il marzial Menelao. Di parte e d’altra,
poiché fur dunque in punto, in mezzo a’ greci
e a’ troiani n’andár, torvo mirando.
410I riguardanti ammiravan, troiani
cavalcatori e gambierati achei.
Nel misurato suol si stetter presso
crollando Faste, l’un vèr l’altro irati.
La lungh’asta lanciò prima Alessandro,
415la qual lo scudo in ogni parte uguale
colpi d’Atride; né forò l’acciaio,
ché il duro scudo rintuzzò la punta.
Atride Menelao secondo mosse
col ferro, il padre supplicando Giove:
420 — Giove re, d’Alessandro, che primiero

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ingiuria fe’, dammi di far vendetta,
perch’altri in avvenir tenia e all’amico
ospite che benigno accoglie alcuno
non ci sia piú ch’osi di fare oltraggio. —
     425Disse e l’asta lanciò lunga vibrando
e ne lo scudo in ogni parte uguale
del Priaineo feri. L’asta robusta
lo scudo trapassò lucido e dentro
l’usbergo di lavor ricco s’infisse;
430la tunica stracciò presso del fianco:
ei ripiegossi e si sottrasse a morte.
Sguainato allora l’argentato brando,
alzollo Atride e l’elmo in su la cima
percosse, ma in tre pezzi e quattro a lui
435d’intorno rotto caddegli di mano.
Sospirò Atride, l’ampio ciel mirando:
— Giove padre, di te piú pernizioso
nume non c’è. Del perfido Alessandro
vendicarmi sperai, ma ne le mani
440mi s’è spezzato il ferro e l’asta a vuoto
volò, né feci in lui colpo. S’avventa
in questo e lui per l’elmo equicrinito
afferra e verso i greci il trae rivolto.
Lo soffocava il trapuntato cuoio,
445che la gola stringea sotto del mento
la celata allacciando, e ben l’avrebbe
tratto ed onore conseguito immenso,
se Venere di Giove figlia avvista
non se ne fosse col suo acuto sguardo.
450Ella il cinto di toro a forza ucciso
talmente ruppe che a la forte destra
l’elmo vacuo restò, quale a’ suoi Greci
l’eroe gittò lanciando, e dagli amici
fu ricolto compagni. Egli di nuovo
455scagliossi, di portar coll’asta morte
avido, ma il sottrasse agevolmente

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Vener qual dèa, perché in caligin folta
l’involse e collocollo in profumato
talamo. A Eléna se n’andò da poi
460e la trovò ne l’alta torre: intorno
molte stavan troiane. Con la mano
tirò la bella veste e la riscosse,
poi favellò, d’antica vecchia preso
il sembiante lanifica che in Sparta
465oprar lane solea, molto a lei cara.
Simile a quella favellò la dèa.
— Vieni, Alessandro che tu torni chiede.
In stanza e nel ben lavorato letto
egli è e per beltá splende e per veste.
470Non si direbbe da battaglia ei venga,
ma vada al ballo o dal danzar tornato
stia sedendo. — Si disse e il cor le mosse.
Ma de la dèa la bella gola e gli occhi
splendenti ravvisando ella ed il petto
475da desiarsi, da stupor fu presa;
poi queste voci proferi e nomolla:
— Diva, perché cosí brami ingannarmi?
In quale ancor di Frigia o di Meonia
frequentata cittá mi condurrai?
480Se quivi alcun tra i popoli diversi
a te amico si trova. Ora che, vinto
Alessandro, me misera a la patria
ricondur vuole Atride, qualche nuova
frode venuta qua mediti forse?
485Vanne a star seco, oblia le vie de’ numi,
né far ritorno al ciel; presso di lui
disastri soffri e guardalo fin tanto
che sua moglie ovver serva un di ti faccia.
Io colá non andrò — vergogna fòra —
490per far suo letto; le troiane biasmo
darianmi tutte, immenso duol m’affanna. —
     Sdegnata a lei cosí parlò la dèa:

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— Non m’irritar, infelice, e non fare
ch’irata io t’abbandoni e t’odii tanto
495quanto frnor t’amai; talché crudele
ne’ troiani e ne’ greci odio inspirando,
tu con misera sorte a perir venga. —
     Cosí diceva, e la di Giove nata
Elena paventò; perciò avviossi
500tacita, a tutte occulta, in bianco avvolta
lustrato drappo; innanzi iva la dèa:
a la nobil magion giungendo entrambe,
tornavan tosto ai lor lavor le serve.
Sali ne l’alta stanza la divina
505donna; per lei presa una sedia, incontra
posela a lui la risamica dèa.
S’assise dell’Egioco Giove figlia
Elena e, gli occhi abbassando, in tal modo
il consorte sgridò: — Tu da la pugna
510ritornasti; ben meglio era che in essa
perito fossi da Tuoni forte ucciso
mio primiero consorte; esser piú prode
per armi e per valor del caro a Marte
ti davi vanto Atride. Or va, lo sfida
515a pugnar teco ancora. A starti cheto
io t’esorto e col biondo Menelao
a non prender da stolto altro combatto,
se per Tasta di lui cader non vuoi. —
     Paride a lei cosí rispose: — Donna,
520co’ detti tuoi non mi ferir pungenti.
Ora me vinse per Minerva Atride,
in altro io lui vincere incontro spero,
ché anco per me numi ci son. Ma ora
nel talamo d’amor prendiam piacere,
525ché non m’ottenebrò la mente amore
con tanta forza mai, né pure allora
che te in Sparta rapita a Cranae trassi
con marpassanti navi e il primo frutto

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colsi nel letto, tanto fu il desio. —
530Quinci andò su le piume, e la consorte
segui e negli adorni letti giacquero.
     Ma Atride, quasi fera, per la turba
cercando andava se veder potesse
il deiforme Alessandro; ma nessuno
535de’ troian, né de’ greci in aiuto accorsi
additar il potea: celato al certo
per l’amicizia non l’avrian, ch’egli era
non meno de la morte in odio a tutti.
     Agamennone re lor disse allora:
540 — Uditemi troian, dardani e quanti
in soccorso veniste del guerriero
Menelao, la vittoria è manifesta:
l’argiva Elena e ciò ch’ella possiede
rendete e onesta insiem pagate ammenda,
545tal che n’abbian memoria i di futuri. —
D’Atride al dir tutti acclamar gli achei.