Vae Victis/Parte seconda/X
Questo testo è completo. |
◄ | Parte seconda - IX | Parte seconda - XI | ► |
X.
Il Reverendo Smyth aveva organizzato un concerto di beneficenza in favore dei profughi ospitati dalle varie famiglie di Pinner. Il concerto avrebbe luogo nel salone della scuola, l’ultima domenica di settembre.
Il ricavato sarebbe andato diviso tra i rifugiati belgi del vicinato, ai quali furono pure mandati dei biglietti d’invito.
Le due prime file di posti erano riservate esclusivamente per loro.
Già da qualche settimana ferveva intensa l’agitazione tra i dilettanti che avevano offerto il loro concorso. Miss Sophy Slepper, la vicina dei Whitaker, doveva cantare «Goodbye» di Tosti e «Il Bacio» di Arditi; essa passava le sue giornate in alterni gargarismi e gorgheggi; e sovente l’ascoltatore non riusciva a distinguere quale delle due cose ella stesse facendo.
Infine la gola le si irritò a tal segno che dovette rinunciare al concerto; e il Comitato si recò a pregare Madame Mellon di cantare in sua vece.
Madame Mellon, bruna, grassa ed amabile signora, dichiarò che era pronta a qualunque cosa: e così sul programma al «Goodbye» e al «Bacio» venne sostituita «la Habanera» della Carmen — ben noto pezzo di resistenza di Madame Mellon.
Questa sguernì per l’occasione il suo più bel capello — modello parigino — per averne la rosa di velluto rosso da mettere nei capelli.
«Ma come!» esclamò la povera Miss Slepper in un bisbiglio roco — ell’era andata generosamente a trovare la sua rivale per sentire un po’ come stava di gola — «Ma come! Avete forse idea di cantare la Carmen in costume?!»
Madame Mellon, ampia ed equanime davanti allo specchio, inarcò le folte sopracciglia «Ma... non precisamente,» disse provandosi la rosa prima sulla tempia sinistra, e poi accanto all’orecchio destro, «non precisamente in costume. Ma bisognerà pur dare, anche nell’abbigliamento, quel tocco spagnolo... quel non so che di folle e di felino che la romanza esige... Non vi pare, cara?»
Miss Slepper strinse le sottili labbra in un sorriso acidulo e beffardo.
«Ho fatto accorciare la mia veste di merletto nero,» continuò Madame Mellon: «e vi ho aggiunto una nota di colore audace qua e là....»
E accennava all’esuberante petto e ai poderosi fianchi.
«Metterò una cintura scarlatta, con un nodo qui. Quanto a questa rosa forse, come la Carmen di Merimée, la terrò fra i denti entrando. Sarà di molto effetto. Avevo anche pensato,» soggiunse, «di avere in mano una sigaretta accesa. Ma mio marito e il Reverendo Smyth me l’hanno sconsigliato.»
«L’amor, sel sappia il mio bel damo»
gorgheggiò giocosa nella ricca e pastosa voce di contralto. E la povera Miss Slepper si sentì contrarre in gola per l’invidia le sue note asprette di soprano, che le raschiavano l’ugola come tanti pezzetti di vetro rotto....
Giorgio Whitaker doveva eseguire qualche gioco di prestigio che aveva imparato in un libro intitolato: «La Magia in Famiglia.» Li aveva eseguiti varie volte in casa con grande destrezza e successo; ma il giorno del concerto sentì a un tratto mancargli la bella e balda sicurezza di sè. Girava per la casa dicendo a tutti: «Ho idea che stasera farò una figura barbina.» E nessuno aveva il tempo o la voglia di contraddirlo.
Circa mezz’ora prima che si dovesse partire egli si trovò con Chérie nell’atrio, aspettando gli altri che stavano ancora vestendosi.
Chérie indossava una veste prestatale da Eva, una veste di mussola bianca con nastri celesti che Giorgio conosceva bene, e gli faceva provare verso di lei un vago senso di fraterna tenerezza. Sua sorella e sua madre erano ancora disopra a fare toletta, ed anche Luisa non era ancora scesa, avendo dovuto mettere a letto Mirella e raccomandarla — in un inglese più febbrile che corretto — alle cure di Mary, la cameriera.
«Farò una figura da perfetto imbecille,» ripetè Giorgio per la millesima volta fissando con cupo sguardo Chérie. «Lo sento nelle ossa.»
«Ma no,» lo incoraggiò essa.
«Ma sì,» asserì Giorgio rabbiosamente. «Ho le mani umide e diaccie. Non potrò far niente.»
«Peccato!» sospirò Chérie scotendo la vezzosa testa.
«Sentite... sentite un po’ che mani,» disse Giorgio stendendogliele perchè essa le toccasse.
«Poveretto!» disse Chérie.
«Ma sentitele!» insistè Giorgio. «Sono gelide.»
E Chérie colla punta d’un dito gli toccò la mano.
«Gelide, davvero,» affermò con profonda commiserazione. E allora Giorgio rise, e rise anche lei.
«Vi assicuro,» confessò il prestigiatore, «che sono nervoso; straordinariamente nervoso. Ho anche il batticuore.»
«Possibile!» fece Chérie.
«Sì, sì, un terribile batticuore,» disse Giorgio; e sospirò profondamente. «Ricordatevi che ve l’ho detto. Farò una figura barbina.»
La fece.
Il primo numero del programma era il suo; e quando egli apparve fu salutato da applausi prolungati ed entusiastici. Ma appena la sala si fu accomodata in un silenzio pieno d’aspettativa, il panico lo colse.
Svariate cose gli scapparono subito dalle maniche; oggetti inattesi che non avrebbero dovuto ancora presentarsi gli facevano capolino dalle tasche; quando voltava le spalle gli si vedeva la schiena gonfia di oggetti nascosti; e per colmo di sventura delle bandierine apparvero e si spiegarono di moto proprio molto prima del tempo, e in certe parti della persona dove non è solito esporre bandiere.
Sua madre guardandolo, era tutta in un bagno di sudor freddo. Eva aveva chiuso gli occhi e pregava il cielo che la finisse presto.
Ma non finiva. Quelle bandiere che avrebbero dovuto essere la chiusa patriottica e trionfale della sua rappresentazione essendo apparse al bel principio, pareva ora all’angosciato Giorgio che non vi fosse più modo di finire. Tirò avanti, smarrito, colla gola arida, frugando qui, abbrancando là, trovandosi nelle mani un cappello a cilindro, un fazzoletto e un uovo, senza la più lontana idea di che cosa ne avrebbe fatto.
Chérie da principio lo aveva seguìto con serietà ed attenzione, ma quando egli, incontrando improvvisamente il suo sguardo, lasciò cadere l’uovo — le parve di dover ridere o morire.
Quando poi una palla da tennis gli cadde dalla manica ed egli andò carponi a cercarla sotto il pianoforte a coda, mentre la bandiera britannica gli scendeva lentamente da sotto alla marsina e si svolgeva solenne dietro a lui — Chérie si sentì mancare. E rise, rise nascondendo la faccia tra le mani, rossa la fronte, rosso il collo, colle sottili spalle sussultanti, mentre Luisa le dava bruscamente di gomito susurrando: «Sta ferma!... Non ridere!... Non ridere, che ti guarda!»
Difatti Giorgio uscendo di sotto il pianoforte vide subito quella figuretta scossa dalle risa in prima fila; e le mani gli divennero più umide e la gola più secca.
Finalmente il Reverendo Smyth nelle quinte, per porre fine alla prolungata angoscia di Giorgio e del pubblico, si diede ad applaudire rumorosamente; e l’umiliato prestigiatore se ne andò rapidamente, mentre dalla tasca posteriore della sua marsina sporgeva il capo, con occhio curioso e perturbato, un coniglio.
Dietro le quinte il Reverendo tentò di confortarlo:
«Ma via! Non disperarti così. Non c’è poi stato tanto male!» disse giovialmente battendogli sulle spalle. «Ti ha fatto confondere quella scioccherella che rideva in prima fila!»
«Ma no; ma niente affatto!» dichiarò Giorgio asciugandosi il sudore. «E’ stato quel maledetto uovo.»
«Ah, già! l’uovo,» disse il Reverendo coprendosi la bocca col programma.
«E quando mai m’è venuta l’idea del coniglio! Si dimenava come un ossesso, mi faceva un solletico insopportabile.... E’ stato lui che ha fatto venir giù la bandiera —»
«Già. La bandiera,» mormorò il Reverendo.
«Basta,» disse l’infelice Giorgio; «bisognerà spiegare che ho fatto così apposta. Che questo doveva essere un numero buffo....»
«Non occorre spiegarlo,» disse il crudele Reverendo.
Ma già cominciava il secondo numero. Madame Mellon era uscita sul palcoscenico colla rosa in bocca e la mano sull’anca. Il suo gomito rosso e possente appariva ignudo tra le brevi maniche e i guanti troppo corti.
Madame Mellon ricordandosi di dover essere folle e felina volgeva in giro gli occhi sfolgoranti d’appassionata vivacità spagnuola.
Al pianoforte il timido e miope signor Mellon, dopo molte aggiustature dello sgabello scricchiolante, prese il suo posto e cominciò. Ma aveva appena attaccato nervosamente le prime note delle battute d’introduzione, che la «Habanera» irruppe turbolenta dal petto di Madame Mellon. Con uno scoppio di voce ella informò l’uditorio che l’amore era un misterioso augello....
Il signor Mellon, che aveva ancora da suonare tre battute d’introduzione, si confuse, perse il segno, andò avanti un poco brancolando mollemente tra gli accordi sbagliati — poi si fermò e volse alla moglie un viso sbalordito.
Seguì una breve discussione a bassa voce, ciascuno rimproverando l’altro d’aver sbagliato — ella chiedendogli perchè non andava avanti, e lui spiegando che lei avrebbe dovuto aspettare ancora quattro battute.
Ricominciarono. E per la seconda volta Madame Mellon informò il suo uditorio che l’amore è un misterioso augello.
Con impeto latino, con molto ansar del seno e fiammeggiar delle pupille, ella dichiarò con selvaggia noncuranza:
«Se tu non m’ami — ebben io t’amo!»
e le parole: «E se mai t’amo dêi tremar per te!» sembrarono acquistare sulle sue labbra un significato di minaccia nuova e temibile.
E ancora una volta Chérie che aveva ascoltato seria e composta le prime battute, fu presa da un accesso d’irrefrenabile ilarità, e dovette nascondere il viso fra le mani, scossa da uno spasmodico accesso di riso.
Luisa guardò Chérie; poi guardò Madame Mellon; ed ecco che lei pure fu colta da una voglia di ridere quasi isterica. Le labbra serrate fra i denti, le narici frementi, ella si tenne rigida e dritta, cogli occhi fissi sul palcoscenico, ma le sue spalle susultavano, e le lagrime le scorrevano pel viso.
Certo Madame Mellon vide quelle due colpevoli in prima fila; ma ne distolse con disprezzo lo sguardo. Il suo canto si fece più forte, più impetuoso e più stonato. Le sue note si libravano crescenti di un semitono, in strida selvaggie sommergendo il timido accompagnamento del povero signor Mellon che arpeggiava querulo tre battute dietro di lei.
Gli altri profughi accorgendosi che Chérie e Luisa ridevano si volsero a guardarle; i ragazzi Pitou cominciarono a ridacchiare, ma furono rapidamente ricondotti alla serietà da qualche ben assestato pizzicotto materno.
Il numero che seguiva era una danza; una specie di danza di Salomé — modificata e moderata per uso inglese — ed eseguita da Miss Tilly Prim.
Quando Miss Prim mise fuori dalle quinte pudicamente i piedi e le gambe nude, e s’avanzò angolosa e arridente negli scarsi drappeggi, anche la signora Pitou fu presa da un irrefrenabile parossismo di risa, e dovette lasciare che i piccoli Pitou si torcessero dall’allegria, mentre ella nascondeva il viso paonazzo nel fazzoletto. In breve tutti i profughi furono presi dal contagio di un’insensata ilarità. Ogni gesto di Miss Prim, ogni suo passo di danza, ogni suo sorriso svenevole e promettitore evocava nuovi convulsivi accessi di risa. Ella danzava ignara e passionale; mentre ogni sua piroetta, ogni salto che scoteva con sordo tonfo il palcoscenico faceva ondeggiare dalle risa tutti gli occupanti delle due prime file.
Quelli immediatamente dietro a loro se ne avvidero. Poi altri. Si cominciò a sussurrare per la sala che i profughi ridevano.
In breve tutto l’uditorio allungò il collo per vedere questi indegni e ingrati stranieri, a beneficio dei quali il concerto veniva dato, e che stavano scioccamente ridendo come tanti mentecatti.
La inconsapevole Miss Prim stava appunto rialzandosi da un atteggiamento di genuflessione, con un sorriso estatico e due macchie nere sulle ginocchia, allorchè scorse il ragazzo Pitou che si torceva in silenziosa allegria all’estremità della prima fila. Gli occhi di lei vagarono allora lungo tutta la prima e la seconda fila, ed ella vide tutte quelle faccie sconvolte dalle risa, tutti quegli atteggiamenti spasmodici e quelle spalle in sussulto.
Lanciando su di loro una sguardo di sdegno ineffabile, ella rientrò altezzosa, colle sue gambe nude, nelle quinte.
Il signor Mellon seguitò ad arpeggiare un pochino, trepido, sul pianoforte, e poi egli pure si alzò e si affrettò a sparire dalla più vicina uscita.
Dietro le scene gli artisti erano riuniti in un congresso d’indignazione. Vi erano sul programma altri undici numeri, ma nessuno voleva più prodursi.
Qualcuno propose che il Reverendo Smyth si presentasse e facesse un discorso breve, ma tagliente; ed egli si avanzò infatti fino a metà del proscenio, ma tornò indietro non avendo nulla di pronto da dire; ed anche perchè la vista di quei profughi che si dimenavano nelle risa lo sconvolse.
Quanto a loro, il vederlo apparire e sparire non servì certo ad alleviare la loro condizione che ora rasentava l’isterismo collettivo.
Finalmente, dopo un rapido consulto dietro le quinte, la buona Miss Johnson si lasciò persuadere a uscir fuori a cantare i «Pifferi di Pan.»
Ripassò in fretta mentalmente le parole:
«Torna il Dio Pan
su questa terra in fiore...
E poi il ritornello:
«Quale mai suon di giubilo |
Intanto il signor Mellon, colla gola arida per il nervosismo e la paura di quanto Madame Mellon potesse avere a dirgli a concerto terminato, era andato a trangugiare un bicchiere di birra al buffet, nella sala di ginnastica.
Quando Miss Johnson si presentò alla ribalta vide che il signor Mellon non era al pianoforte per accompagnarla; lo attese qualche momento con dignitosa calma; indi rientrò nelle quinte da una parte, al momento stesso in cui il signor Mellon — asciugandosi la bocca — usciva frettoloso dall’altra.
Allora ci volle del bello e del buono per placare Miss Johnson, e persuaderla e spingerla fuori una seconda volta. E tutto ciò la confuse tanto che dimenticò tutte le parole e dovette contentarsi di fare dei suoni inarticolati finchè non arrivò al ritornello.
Qui si sentì salva.
«Ah! sono i polli fifferi...»
«I pieti polli fifferi —»
Miss Johnson girò intorno gli occhi stralunati, che cosa stava cantando?
«I polli —»
E la voce le mancò per il resto.
«Misericordia!» mormorò la afona Miss Slepper alla signora Whitaker che le sedeva vicino. «Che voce stridula!»
«Già,» assentì la signora Whitaker. «E che strana canzone! I polli fifferi — che cosa saranno mai?»
Inutile negarlo. Il concerto era un fiasco.
L’esecrabile contegno dei profughi e il contagio del loro ridere insensato aveva dato luogo ad una specie d’isterismo che si era propagato per tutta la sala. L’intero uditorio aveva finito col cedere ad una ilarità pazzesca e irrefrenabile.
Ogni numero del programma veniva accolto da risa soffocate, talvolta addirittura da strilli di risa frenetiche dalla parte più giovane del pubblico.
Il Reverendo — che anche lui a dire del signor Mellon era stato trovato convulso ed esausto su di una panca in un’aula vuota della scuola — fece, alla fine dello spettacolo un discorsetto breve ma caustico.
«Sarà colpa nostra e dei nostri troppo modesti talenti,» disse, «se non abbiamo saputo che destare le facoltà risive dei nostri ospiti forestieri... Ad ogni modo,» concluse, «ho il piacere di annunciare che la somma raccolta è di lire sterline 16, sette scellini, e sei pence.»
I profughi se la svignarono umiliati e vergognosi; e per molto tempo furono trattati come paria da tutta la contea di Surrey.
Quanto agli artisti, da quel funesto giorno in poi nessuno ha mai più osato pronunciare la parola «concerto» in presenza di Madame Mellon, di Miss Johnson o di Miss Prim.