Vae Victis/Parte seconda/IX
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IX.
Le placide giornate di settembre passarono; la tranquilla atmosfera inglese, il sano vitto inglese, e la saggia ospitalità inglese — che consiste nel non occuparsi dei propri ospiti, ostentando piuttosto un completo oblìo della loro esistenza — tutto concorse a compiere dei blandi miracoli su quelle tre anime sventurate.
Non già che Mirella ritrovasse la parola; ma Luisa, giorno per giorno, potè notare con palpitante cuore il rifiorire del color di rosa su quelle guancie diafane e vide gradatamente sparire da quegli occhi l’espressione straziante di terrore.
Mirella non piangeva mai, e non sorrideva mai. Sembrava vagare nell’ombra della vita, muta, inconscia e serena.
Ma la vita e la gioia ritornarono frementi e pulsanti nel giovane cuore di Chérie, rivelandosi in tremuli sorrisi, in qualche parola alata di gaiezza. Presto furono risate trillanti e un correre per il giardino con passo lesto e leggero....
Sovente accadeva a Luisa, seduta alla finestra dello studio accanto a Mirella, di lasciar cadere il lavoro sulle ginocchia per seguire cogli occhi stupiti la figuretta di sua cognata, che volava qua e là per il campo del tennis con una leggerezza di farfalla. Luisa si trovava ad ascoltarne, sorpresa, la voce dolce e gaia che si era così presto intonata alla favella inglese.
E l’animo suo si riempiva di meraviglia. Come.... come aveva fatto Chérie a scordare così presto? Non aveva dunque più pensiero per il fratello e per il fidanzato, combattenti laggiù nelle sanguinose pianure d’Ypres? Come, come poteva essa correre, distrarsi, ridere, mentre non si avevano notizie nè di Claudio nè di Florian? Mentre forse — ahimè! — giacevano entrambi in qualche lontana vallata del Belgio morti — morti — colle faccie rivolte al cielo. E come, ah! come mai poteva ella aver scordato ciò che avvenne in quella notte d’orrore — non più di qualche settimana fa?
Sovente allora — quasi che un tenero istinto le parlasse al cuore — Chérie si volgeva improvvisa e guardava su. Guardava quei due pallidi volti incorniciati dalla finestra, tra le foglie rosso-dorate d’un rampicante autunnale. Allora gettava via la racchetta e senza una parola ai compagni di gioco, correva in casa, e su nella stanza da studio, a gettarsi ai piedi di Luisa con singhiozzi e un diluvio di lagrime.
«Mirella!... Florian!... Claudio!...» i tre nomi diletti le sgorgavano dalle labbra in accenti disperati, e a stento Luisa poteva consolarla, baciandola, ravviandole i riccioli scomposti, carezzandole la fronte accaldata e le guancie lagrimose, e riaccompagnandola alfine ella stessa in giardino.
Mirella le seguiva, lieve e silenziosa, come un serafino che camminasse in sogno....
Infine non fu soltanto per consolare Chérie che Luisa ritrovò in quei primi giorni d’esilio il suo sorriso. Anche in cuore a lei entrava, timida ospite, la speranza.
V’erano notizie migliori dal Continente; tutta Europa era sorta in armi e combatteva con loro e per loro. Già erano giunte le prime gloriose nuove della battaglia della Marne. Poi, un giorno, arrivò un messaggio da Florian!
Apparve nella colonna degli annunci sulla prima pagina del «Times»; e il signor Whitaker stesso — seguìto solennemente dalla signora Whitaker, da Eva e da Giorgio — volle portarlo disopra alle loro ospiti.
Nelle brevi righe di quell’annuncio Florian diceva di essere sano e salvo, di aver veduto Claudio, che stava anch’egli bene. Dava un indirizzo al quale li pregava di voler scrivere se fortuna volesse che questo messaggio cadesse sotto i loro occhi.
Luisa e Chérie si abbracciarono, piangendo di gioia. Claudio e Florian erano salvi! Salvi! E un giorno sarebbero venuti in Inghilterra a prenderle. Forse, chissà! tra un mese o due la guerra sarebbe finita...
Da allora in poi tutte le notti Luisa sognò ad occhi aperti il ritorno di Claudio. Si figurava il suo arrivo, il suono dei suoi passi sulla ghiaia del giardino, la sua voce nell’atrio.... e poi — poi le sue forti braccia intorno a lei — Ah! mio Dio! con un sussulto essa ricordava Mirella!
Mirella!...
No — no! Con un grido Luisa si drizzava a sedere sul letto. No! No!
Mirella doveva guarire, guarire prima che Claudio la vedesse. Egli non dovrebbe sapere mai ciò che era accaduto. Non bisognava dirgli nulla. Nulla. — Mai.
Oppure?... Si doveva dire?...
Questo dubbio divenne un’ossessione, una tortura. Doveva essa dirgli tutto — o tacere?
Perchè, perchè, l’avrebbe dovuto dire? Per spezzargli il cuore?...
E allora tornava all’angoscia di prima. No, bisognava tacere. Bisognava far guarire Mirella, far guarire Mirella, prima che suo padre la rivedesse! Sì, sì! Il Dio di misericordia la farebbe guarire!
Mirella ritroverebbe quella sua voce striduletta e cara, quel suo riso acuto e gaio con cui sempre accoglieva il ritorno del babbo....
Il sorriso e la voce di Mirella! Dov’erano? Chi li teneva in serbo? Se li erano presi i Santi del Paradiso? Ma che se ne facevano loro della voce e del riso d’una povera bambinetta umana? E Luisa cadeva in ginocchio cento volte al giorno, pregava Dio, la Vergine e i Santi che rendessero a Mirella la sua voce e il suo sorriso.
Ah, Sant’Agnese certo l’avrebbe aiutata! o la piccola Santa Filomena — martirizzate entrambe a tredici anni....
E Luisa pregò. Pregò piena di fede e di speranza, per molti giorni; e poi pregò, piena d’angoscia e di disperazione, per molte settimane.... Poi, d’improvviso, non pregò più.
Da un giorno all’altro il suo viso si trasformò. Le morbide linee parvero improvvisamente scolpite nella pietra.
Ora quando sedeva, sola faccia a faccia con Mirella, i loro occhi s’incontravano ed avevano la stessa fissità tragica, lo stesso vacuo stupore; però, mentre dallo sguardo della bambina era svanita l’espressione di spavento, ecco il terrore era entrato negli occhi della madre.
Una paura nuova, una ossessione nuova, teneva l’anima smarrita di Luisa.
E coll’alba d’ogni novella giornata ingigantiva quel dubbio, cresceva quella certezza di sventura e d’orrore.
«Luisa! cara! Che cos’hai? Sei malata?» le chiese un giorno Chérie notandone lo stanco atteggiamento ed il pallore mortale.
«No, cara, no,» disse Luisa. «Non ho nulla. E — tu?»
Ella fece questa domanda all’improvviso, volgendosi e figgendo le pupille ardenti in viso alla fanciulla.
«Io?... Che strana idea! Perchè me lo domandi?»
«Ma rispondi! Ti senti bene?» insisteva Luisa. «Giorgio Whitaker.... mi disse...» Luisa riusciva appena a parlare «... che l’altro giorno ti eri sentita male.... che avevi avuto — non so — come uno svenimento...»
«Oh!» fece Chérie ridendo e scrollando le spalle. «Che stolto quel ragazzo a venirtelo a dire! Ma se non è stato nulla!» E come Luisa la fissava, stranamente, intensamente, ella spiegò: «Giorgio ed Eva m’insegnavano a giocare al hockey... e tutt’a un tratto mi venne come un abbaglio agli occhi.... uno stordimento — e caddi. Ma era niente, ti assicuro, proprio niente. Mi avviene spesso di provare un po’ di vertigine e di nausea.... Ma perchè diventi pallida? Se ti dico che non è nulla! Sono un poco anemica, e nient’altro. Davvero, davvero!» ripeteva ridendo, e abbracciando Luisa. «La prova migliore è che ho sempre una fame da lupo!»
E ribaciò Luisa, e se ne corse via a passo di danza, a cercare quel «Mister George» per sgridarlo d’aver raccontato delle storie.
Lo sguardo di Luisa la seguì — angosciato, profondo, scrutatore.