Tre croci/Capitolo VIII
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VIII.
Enrico era stato uno di quei ragazzi impertinenti e sfacciati, dei quali si dice che non sie ne ricaverà mai nulla. Ma i fratelli, minacciando che lo avrebbero mandato fuori di casa, riescirono a mettergli un poco di giudizio. Egli, però, doventava sempre più intrattabile. In casa ci s’era trovato bene, specie dopo il matrimonio di Niccolò; e così cercava di andare d’accordo più ch’era possibile. Egli, qualche volta, aveva tentato di comandare e d’imporsi agli altri; ma, essendo meno intelligente, specie di Giulio, aveva dovuto sempre sottomettersi. Dentro di sè, è vero, glie ne era rimasta la presunzione; e non avrebbe mai voluto essere nè disapprovato e nè biasimato. Ma egli aveva la convinzione che i fratelli parlassero male di lui anche con gli altri; e, perciò, si vantava d’essere sempre diffidente.
Ora che s’avvicinava la scadenza di un’altra cambiale, piuttosto grossa, anch’egli sapeva com’era difficile trovare il denaro per scontarla, o almeno, com’erano soliti, per scemarla d’un quinto. Egli disse:
— Giulio, tu che hai fatto sempre bene e con prudenza, bisogna che anche questa volta suggerisca il mezzo di toglierci d’imbarazzo! È proprio indispensabile!
Egli sapeva che non aveva niente da proporgli, e fingeva di aver fiducia in lui.
— Questa volta bisognerà raccomandarsi a Dio!
— Che c’entra Dio? Bada di non scherzare.
Egli, indispettito, piantò il fratello nell’intrigo; pensando con disprezzo che non sarebbe stato capace ad escirne. E incontrato Niccolò nella strada, gli disse:
— Lo sapevo che quel menno lì avrebbe compromesso anche noi!
Niccolò, allora, difese il fratello, e rispose:
— È meglio che tu non me ne parli!
Enrico borbottò le sue solite ingiurie, e andò in una bettola a giuocare a briscola. Egli giuocava anche dopo cena, fino alla mezzanotte. E disse ai suoi amici:
— È una bella sfortuna avere un micco di fratello, che non capisce niente.
Gli amici non badavano se aveva ragione o torto; ed egli poteva dirne quante voleva. Perciò, quasi tutte le volte che aveva messo la sua carta, domandava a qualcuno, senza che nessuno gli rispondesse mai:
— Che gli faresti se tu avessi un fratello come il mio? Non sarebbe meglio nascere soli? Non dovrei trovare il modo, magari per mezzo di tribunale, di farmi rispettare?
Alla fine di parecchie partite, toccava a lui scozzare le carte. Ma egli tenne il mazzo chiuso in mano; e disse:
— Voi credete che io faccia una bella vita. Non è mica vero! Vi giuro, sul mio onore, che io non ho mai un giorno di bene. Ma come dovrei fare a separarmi dai fratelli? Ormai da tanti anni stiamo insieme, e sono già troppo anziano. Ma Dio mi scortichi se nessuno di voi ci resisterebbe. Non ci credete? Ci resisto io, perchè li lascio fare come vogliono, e sono remissivo; anzi, dolce. Fanno di me come se fossi un ragazzo! È sempre stato il mio torto.
Egli aveva un’aria sincera e afflitta come quando si lamentava dei tormenti della gotta.
— Vedete: io vengo qui a giocare e a sorsellare un gocciolo di vino, perchè ho bisogno di distrarmi! Non ho altra consolazione. Dalla mattina alla sera, non ho altro svago. Mi si può rimproverare, dunque? E pare, secondo loro, che io sia un essere spregevole; uno che non è buono a niente. Come se fossi incastronito. Ma io l’ho specie con Giulio, che è responsabile di tutti i nostri affari. Non dovrebbe essermi riconoscente se io, di mia volontà, mi son tirato in disparte?
Ma gli amici non volevano ascoltarlo, e gli gridavano che desse le carte.
— No, oggi, non gioco più; perchè sono troppo stordito.
Posò le carte, e andò a dire le stesse cose al padrone della bettola; che, per fargli piacere, gli dette ragione. Egli, allora, aggiunse:
— Tutti sanno che io, per esempio, ai teatri non mi ci reco; perchè non mi ci diverto; anche alla banda, la domenica, mi annoierei. Faccio qualche passeggiata, sempre solo; e non cerco mai di nessuno.
— Ma con la cognata va d’accordo?
— Perchè è merito mio. Io non le rivolgo mai la parola, altro che quando siamo a tavola; per convenienza. E, così, evito qualunque diverbio. E pure non me ne dolgo! Io, anzi, non dico mai male di lei; e mi rimetto sempre a quel che fanno gli altri! E, pure, trovano da ridire anche sul mio carattere e sul mio contegno, che meglio non potrebbe essere.
— Ma Niccolò è tanto allegro! Lo giudico anche simpatico!
— Quando pare a lui! Ma non mica con me! Le giuro che non mi può vedere! Giulio, poi, è un testardo e basta. Non dice mai niente di quello che fa, e pretende che io ne sia contento. Se non ci fosse lui in mezzo, forse con Niccolò mi potrei affiatare. Ci sono io che penso a tutto. La spesa la faccio io, per il mangiare dò l’ordine io.... Io, lo so, ho finito con il sacrificarmi e con il doventare ingiusto anche verso me stesso! È la mia disgrazia. Avrei dovuto prendere moglie, e stare per conto mio. Vedrà che, un giorno, dovranno chiudere la libreria e anche la legatoria. Anzi, bisogna che vada a farmi vedere; se no, montano in bestia tutti e due.
Ma il padrone della bettola stava, ora, attento a tre che bestemmiavano per un litro di vino; perchè s’erano scordati di portarglielo, e non lo salutò nè meno; quantunque si fosse affissato di gusto ad ascoltare quel grumolo di bestemmie.
Enrico non entrò in bottega e si appoggiò, invece, al muro; vicino alla porta. Era deciso a dire le sue ragioni; quantunque, pensandoci meglio, dentro di sè non ne trovasse nè meno una. In fondo, riconosceva che aveva forse torto, e che non doveva lagnarsi di niente. E, scontento di sentirsi solo, entrò in bottega; dove doveva esserci il Nisard e anche il Corsali. Egli sapeva che quei due erano piuttosto amici dei suoi fratelli; ma gli era venuto voglia di farseli amici anche lui. E, siccome c’erano appunto tutti e due, cercò di dire subito qualche cosa che attirasse la loro attenzione.
Quand’egli voleva mostrarsi affabile, dava ragione a qualunque cosa che uno dicesse; e, sentendo che il Nisard sosteneva che il Pinturicchio gli piaceva meno del Perugino, egli disse:
— Io sono del suo parere! Bravo! Ci voleva proprio un forestiero a dire la verità.
Ma Niccolò, per deriderlo, gli gridò:
— Tu di che t’intendi?
— Io me ne intendo quanto te e più di te.
Niccolò dette in una di quelle sue risate, che non si dimenticavano più per un giorno intero; e facevano divertire anche a ripensarci dopo un pezzo. Anche il Nisard rise, come un flauto stonato. Giulio gli disse:
— Che ti salta in testa?
Enrico lo guardò con risentimento e gli rispose:
— Lo vedremo chi di noi due ha più cervello! Per cosa molto più seria di questa. Che questa è una buffonata e basta! Io ti voglio vedere alla prova, da qui a qualche giorno! Non c’è mica molto! Del resto, il Nisard è più competente di voi, e io ho approvato lui.
Giulio doventò pallido e si senti pieno di dolore.
— Io me ne lavo le mani di tutto: te lo fischio davanti a testimoni. Io e tu sappiamo a quel che voglio alludere.
Il Corsali disse.
— Ho capito! È una delle vostre bazzecole di famiglia! E, per così poco, siete vicini a leticare?
— Tu stai zitto, perchè non sai quel che snàcchero. Ma, chi mi deve intendere, non è sordo! A buon intenditore, poche parole.
Giulio era anche convulso e non riesciva a rimpiattare niente. Il suo dolore gli faceva girare la testa; e non sentiva più quel che dicevano; benchè alzassero tutti la voce.
Niccolò stringeva i pugni nelle tasche della giubba, per nascondere la sua ira.
Il Corsali disse:
— Ho capito! C’è qualche cosa di grosso, che vorrebbe trapelare da sè. Ma allora, aspettate di essere soli.
Il Nisard, vedendo Giulio così pallido che le chiazze rosse delle guance gli eran doventate livide, si fece serio pur senza capire di che si trattava. Egli, appoggiato alla scrivania, chinò la testa, aspettando che tornasse la giovialità di prima. Il Corsali credendo di fare bene, disse:
— Ormai nella vostra bottega non ci si viene più volentieri! Rizzate sempre qualche chiassata che disturba. Dite quel che avete e non vi adirate l’uno con l’altro.
Il Nisard non se ne andava per non essere maleducato con Giulio. Egli sentiva che aveva ragione lui; ed era irritato d’Enrico; ma non se ne fece accorgere.
Enrico ricominciò, volgendosi a Giulio:
— Perchè non dici chiaramente qual’è la ragione della mia arrabbiatura? Se lo dici, a me, ormai non importa più nulla.
— Vuoi dare a me la colpa di tutto?
Enrico non s’arrischiò a rispondere. Ma Giulio proseguì:
— La prendo io! Tu che ne pensi, Niccolò? Voglio conoscere anche il tuo sentimento.
Niccolò si storse tutto; e, raccattando il sigaro acceso che gli era caduto di bocca, disse al fratello:
— Io vorrei soffrire come te. Mi pare giusto! Ma tutti non si può soffrire. Uno, soffrendo, piange; e io, invece, rido.
Allora Giulio, avendo bisogno di una parola buona, chiese:
— E di lui che ne pensi?
— Stasera non gli parrà vero di parlarti come deve!
Ma Enrico rimbeccò:
— Sbagliate tutti e due.
Niccolò disse al Nisard:
— Mi faccia la cortesia lei: lo porti fuori di bottega!
Il Nisard si accostò ad Enrico, tirandolo per una spalla:
— Venga con me.
Enrico, quasi lusingato che il Nisard s’intromettesse, si fece portare fuori. Da principio, voleva stare zitto; ma, poi, disse:
— Lo vede come mi trattano? Se non c’era lei mi sbattevano la porta in faccia.
Il Nisard non gradiva ascoltare quelle confidenze, e non gli rispondeva. Allora Enrico, sentendosi troppo sotto a lui, gli disse, con uno sgarbo che non riuscì a velare:
— Non s’incomodi per me. Io vado nella bettola, dove sono stato dianzi. Là ci sono i miei amici.
Il Nisard voleva sgridarlo, ma torse la bocca e lasciò che facesse il suo comodo. Poi, affrettandosi, tornò nella libreria.
Il Corsali diceva cose sciocche e senza senso; credendo fosse suo dovere a mettere bocca. Nè Giulio nè Niccolò lo ascoltavano: Niccolò guardava per tutti i versi la cassapanca e la roba che c’era sopra, come se mancasse qualche cosa. Giulio cercava d’inghiottire la sua amarezza; che gli pareva inverosimile. Il Nisard disse con sdegno affettuoso:
— È andato a giocare.
Soltanto il Corsali gli rispose:
— Quello è il suo posto!
Allora il Nisard dette la mano ai due fratelli, si tolse il cappello al sensale; e se la svignò. I tre rimasti non si parlarono più, per parecchio tempo; alla fine si salutarono e basta.
Enrico tornò al tavolino dove i suoi amici giocavano ancora. Ma, essendo incominciata la partita, egli dovette sedersi in disparte. Pensava ai fratelli, e gli pareva di aver agito bene. Ora finalmente, s’era fatto intendere! Gli pareva di essere stato bravo come a giocare a briscola! E loro non conoscevano nè meno le carte! Loro non avevano il coraggio di venire a giocare, con lui! Egli non voleva avere più nessun affetto per Niccolò, comportandosi come se Giulio non esistesse nè meno! Stette così fino a buio, su uno sgabello; con una gamba accavalciata sopra l’altra; avvinazzandosi. Ma quando fu in casa, benchè avesse giurato che non ce lo avrebbero più visto, domandò premuroso a Modesta:
— Sono venuti i fratelli?
— Stanno già a tavola.
— Ora vengo subito anch’io.
Ed, entrato dov’erano a mangiare, si scusò d’aver fatto più tardi del solito.