Zvanòn

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Il vitello La casta Susanna
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ZVANÒN

Lo rivedo ancora bene — Svanòn — nella penombra della memoria: alto, massiccio, imponente quale un gigante a me bambino, e strano per gli occhi chiari cilestri in contrasto con il viso bruno e i baffi e i capelli neri. E ne ho precise in mente le parole, perspicue le attitudini di quando la mia anima e la sua ebbero dalla sorte una vicendevole tragica apprensione. Ma poco o nulla io ricordo dei suoi modi con gli altri; non so se agli altri apparisse temibile come a me, eppur buono; se con gli altri ridesse come con me quasi cedendo a una giocondità improvvisa; se la dolcezza del suo sguardo fosse turbata spesso, non fosse più di un fuggevole consenso alla debolezza e alla letizia delle piccole creature.

Era, nella famiglia patriarcale, il secondo o terzogenito. Dei cinque fratelli solo il più attempato aveva donna, con parecchi figliuoli giovani già fatti, allorchè s’ammogliò il quintogenito, di cui non rammento neppure il nome. Più che il nome — Adalgisa — rammento invece della novella sposa: il sorriso che pareva splendere da tutta la sua [p. 194 modifica] persona; un’imagine di luce nella oscura casa campestre, tra la reggitora vecchia cadente, la cognata oppressa dalle faccende famigliari, gli uomini rozzi. E nel campo, tra il verde...: così: la scorgo, la Gisa, venir dal rio per la costa recando sul capo il cesto della biancheria lavata e tenendolo con le braccia nude; la gonna rossa sostenuta da un lato, alla cintola, per aver libero il passo, e una gamba fin quasi a mezzo scoperta; i capelli biondi scomposti, e il sole che pareva tutto per lei.

Quanto tempo era trascorso dal dì delle sue nozze a quello che lei s’impresse così vivamente nella mia memoria puerile?

Forse non più di un anno.

***

Quel giorno avevo ottenuto il permesso d’andar con la Gisa al rio. Lavando, cantava ad alta voce; ma nessuno udendola avrebbe dubitato cantasse a voce tant’alta per essere udita lontano — era lieta, era bella — ; nè a me bastava l’età della discrezione, a cui ero appena giunto, per concepire tal dubbio allorchè, con un rumore di frondi rimosse a un impeto, vidi arrivar Tito: Tito del Mulinetto, che veniva qualche volta alla villa a giuocare alle bocce coi contadini.

Egli si adagiò su la riva mentre la donna sciacquava, in ginocchio su la pietra, e io, al solito, lavoravo a scavar nella sabbia. [p. 195 modifica]

Discorrevano, ridevano. E mi stancavano. Mi spiacevano.

Forse antipatia di quel giovine ben diverso da Zvanòn, che se mi aveva seco e non aveva altro da fare consentiva ai miei capricci? Per colui invece era come io non esistessi. O me lo rendeva antipatico un arcano presentimento?

Stanco, dissi alla donna:

— Vado a casa.

Lei non voleva. Mi aveva in consegna, e dovevo restare. Minacciò, pregò.

Otto o nove mesi dopo, costretto a ripensare e a rievocare quanto mi avvenne quel giorno (e ritenni in mente e in cuore per sempre) sentivo un accento quasi di pianto nella sua preghiera di restar con lei, quasi temesse, dal mio allontanarmi, un pericolo. Ma Tito non mi fè parola.

— Sono stanco di star qui — ripetei.

E scappai.

Oh non per correre a casa, come la donna credette! A mezza costa c’era la pozza del vincheto; e mi venne voglia di un vincastro dalla rossa scorza. Tra i vinchi d’intorno all’acqua componevano un folto le vitalbe, i pruni, i biodi, le carici, si che a penetrarvi non s’era visti nemmeno da chi saliva per il sentiero alla volta della casa.

Entrai nel folto; girai alla parte opposta, dove m’invitava con belle aste un vinco vecchio ma basso; mi arrampicai su quello. Raggiunto che ebbi l’inforcatura del tronco, vi fermai i piedi e [p. 196 modifica] prima di staccare il virgulto ambito mi volsi a guardare di là, arditamente pago della mia prodezza. Vedevo lì giù, tra i pioppi, il rio; e la Gisa con l’uomo.

Essa, in piedi ora, porgeva a Tito, disceso a lei, i pannolini; e li torcevano tenendoli l’una a una estremità e l’altro all’altra. Poi egli li gettava indietro, su l’erba.

Infine, salirono alla riva.

Ed egli accostò il viso al bel viso.

E poco dopo, mentre stavo appiattato e seduto a sfogliare il virgulto, scorsi tra il folto la donna che avanzava sola per il sentiero declive. Aveva sul capo il cesto della biancheria lavata e lo reggeva con le braccia nude: la gonna sollevata a un fianco, una gamba scoperta sin quasi a mezza gamba; i capelli scomposti.

E il sole pareva tutto per lei.

Rimasi alla pozza perchè, mentre percuotevo l’acqua con l’asta e sollevar spruzzi sfavillanti, ci avevo fatta una scoperta: di certi pesciolini mai visti, a due zampe che parevano terminare in manine; col capo tozzo, gli occhietti spalancati, con tutto il corpo tutto coda, grosso e corto; la pelle scura, a macchie più scure. Brutti. Oh prenderne almeno uno!...

Quand’ecco un rumore, una voce grossa.

— Cosa fate qui?

Sobbalzai, mi volsi. Cedetti a Zvanòn, che mi afferrò un braccio e mi scostò dall’acqua. [p. 197 modifica]

— A rischio d’annegarvi! Allora sì, i vostri! — sgridava, Per scusarmi gli dissi:

— Voglio uno di quei pesciolini.

E lui, severo:

— Pesciolini? Ranocchini, sono; ranocchi non ancora fatti. Andiamo!

Tagliò i vimini per cui era venuto; si sospese dietro, alla stringa, il pennato; mi prese, con la mano libera, la mano, e ripetè:

— Andiamo!

E soggiunse, mentre andavamo: — Lo dirò a vostra madre il rischio che avete corso: di annegarvi nella pozza!

Cominciavo a persuadermi di aver commesso una marachella più grave delle solite; e se di mia madre temevo più il dolore che i rimproveri, di mio padre temevo il rimprovero più di qualsiasi castigo. Bisognava che Zvanòn non dicesse nulla alla mamma; bisognava che egli dimenticasse il mio fallo prima di giungere a casa. Ebbi, nell’ingenua scaltrezza di un fanciullo settenne, l’idea di distrarlo dal pensiero di me con ciò che vagamente sospettavo dovesse stupirlo; e gli dissi: — Sai? Ho visto che Tito del Mulinello ha dato un bacio alla Gisa.

Egli si fermò, di colpo; mi guardò negli occhi per sorprendervi la verità. Un istante. Sentii, nell’istante, la sua anima apprendersi alla mia; e [p. 198 modifica] n’ebbi tal pena che, non interrogato, confermai in fretta.

— Sì sì: è vero!

Allora lui rise. Disse, come a darmi subito ragione del suo stupore enorme:

— Oh dunque non lo sapete, voi, che Tito è fratello della Gisa?

E riprendemmo la via.

— Povero Tito! — aggiunse Zvanòn dopo un tratto — . Deve tornar soldato, fra poco. Non verrà più a giuocare alle bocce con noi.

Eravamo al sommo della costa; oramai a casa.

E io dubitavo ancora; temevo che Zvanòn mi conducesse dalla mamma. Ma un’altra idea mi soccorse.

— E le boccine di terra creta quando me le fai? Fammele, Zvanòn!

Tacque. Poi rispose:

— Adesso adesso... Io lego i fasci di sterpaglia. Voi intanto ammolirete la terra creta, e dopo faremo la fornacetta da cuocer le palline.

Così io ottenni ch’egli dimenticasse d’accusarmi, ed egli dovè sperare che non parlerei a nessuno di Tito e della Gisa, e di quel che avevo visto.

***

Otto o nove mesi dopo, a Bologna, al pomeriggio di un giorno invernale, una scampanellata mi fece correre prima della domestica ad aprir l’uscio. [p. 199 modifica]

Zvanòn!

Non mi sorrise; non mi salutò; mi guardò. Un istante.

Ed ebbi di nuovo quell’impressione di pena, indefinibile, per me, se non dicendo che l’anima sua si apprese, nell’istante, alla mia. Questa volta però non era stupore in lui: angoscia. Ed era Zvanòn ed era un altro.

— Cosa m’hai portato? — gli chiesi timidamente.

Non rispose. Mi chiese:

— Dov’è vostro padre?

La domestica lo condusse nello studio.

Indi a poco, da uno spiraglio, scorsi che mio padre usciva con il contadino. E giacchè Zvanòn non era più lui, io intuii una sventura.

Infatti quando mio padre tornò... — Ascoltavo palpitante dietro l’uscio quel che diceva con la mamma — ...Zvanòn aveva ammazzato con un colpo della vanga dal lato del taglio, in litigio, per una cinquantina di franchi che gli doveva — perduti nel giuoco da Tito — Tito del Mulinetto!

Per una cinquantina di franchi che Tito aveva perduti al giuoco?

— No no! — fui per gridare in uno scoppio di pianto, e precipitarmi di là, dai miei, e dire: — Io lo so il vero perchè Zvanòn ha ammazzato Tito!

Ero certo. Il lampo della verità aveva illuminata la mia mente non più ingenua, come otto e [p. 200 modifica] nove mesi prima. Entrai in cucina. Dissi alla donna:

— Zvànon ha ammazzato Tito, con la vanga!

La vecchia domestica allibì. Non poteva credere. Conosceva da tanti anni quella famiglia: galantuomini: gente di fede: cristiani. Impossibile!

— Per una cinquantina di lire. Tito non gliele voleva dare... — E chiesi:

— Tito non è il fratello della Gisa?

— Ma che! — fece la donna. Soggiunse: — Povera Gisa! Avere per cognato un assassino!

La vecchia non sospettava d’altro. Ma io sapevo perchè Zvanòn aveva ammazzato Tito: Zvanòn che mio padre aveva accompagnato a costituirsi. Ne ero certo. Quelle occhiate...

***

Ed io tacqui il mio segreto. Non ero forse complice del delitto?

Questa paura mi occupò tremenda. Pensavo: se io non mi fossi fermato alla pozza dove c’erano i ranocchini non ancora fatti, e non avessi voluto prenderne uno, e per prenderlo non avessi corso il rischio d’annegare, Zvanòn non mi avrebbe minacciato d’un castigo e io non avrei detto nulla a Zvanòn.

Zvanòn, no, non avrebbe ammazzato Tito! Certissimo. Quelle occhiate... Di chi dunque la prima colpa? [p. 201 modifica]

Se io svelassi il mio segreto non metterebbero in prigione anche me: me che avevo la mia mamma sempre malata, e non potevo darle tanto dolore, e non potevo abbandonarla senza che io morissi? No, non dovevo dirglielo il mio segreto, dirle la paura che mi occupava tremenda, senza che lei patisse della mia stessa paura. In prigione il suo figliuolo, compagno di un assassino!

Con tutti dovevo tacere. Con tutti!

Ma quel segreto era troppo più grande di me.

A scuola, chinavo improvvisamente il capo sul banco e piangevo.

— Perchè piangi? — mi domandavano i compagni, il maestro.

Rispondevo:

— Non lo so.

E mi canzonavano perchè piangevo senza sapere il perchè.

***

Al processo Zvanòn ripetè quel che aveva detto a mio padre il dì che era venuto per consiglio, e quel che aveva detto al procuratore del Re e a tutti.

In litigio, acciecato dall’ira, aveva colpito, senza intenzione di uccidere. Voleva essere pagato del debito; dei cinquanta franchi vinti al giuoco.

Alla dimanda se fra lui e Tito del Mulinetto fossero stati precedenti rancori o ci fossero altre cause di rancore, rispose: — No. [p. 202 modifica]

I testimoni confermarono che erano amici.

Nessun sospetto, in nessuno, della tresca fra Tito e la Gisa. E Zvanòn parve ricevere impassibile la condanna.

Mio padre, riferendo in casa del processo, conchiudeva:

— Si direbbe quasi che ha voluto essere condannato lui, a trent’anni.

E io capii. Zvanòn aveva voluto salvare l’onore della sua famiglia; l’aveva salvato.

Ma aveva salvato anche me — pensavo; e la gratitudine che sentivo per lui era così grande da rendermi pradevole, ora, il segreto più grande di me. Avrei sfidato la morte piuttosto che rivelarlo. Povero Zvanòn! Mi era ben menifesto ora il signicato di quelle sue occhiate che mi prendevan l’anima! Che colpa avrei commessa, per lui; che tradimento d’amico; che infamia se avessi detto a qualcuno, pur a mia madre: — Vidi che Tito baciava la Gisa!

E con che cuore ascoltavo le notizie che a intervalli — a lunghi intervalli — ci davano i parenti del prigioniero! Ci mandava a salutare.

Poi ci mandò dei regalucci: d’opera sua. Una volta fu un vasetto in forma d’anfora; un’altra volta un cestello; un’altra volta una scatola col coperchio.

L’opera era abbellita da rilievi, fregi, piccole frutta, fiori a tinta color mattone; e tutto composto [p. 203 modifica] di polvere di mattone e di pane ammollito ed essiccato, che stecchi contenevano saldo.

E avvenne che guardando entro la scatola ci leggemmo scritto nel fondo, a tinta più rossa (sangue?): — per Dolfo. — Allora guardammo nel fondo esterno del cestello e dell’anfora, e ci vedemmo le stesse rosse parole: — per Dolfo.

***

Scontati soli cinque anni di pena Zvanòn moriva, a Portolongone.

Io ero sui dodici anni. Non temevo più. E rivelai finalmente perchè Zvanòn fu omicida. Allora si comprese chiaramente come, non giuocatore, egli avesse attirato l’altro, che era scarso a quattrini, a giuocar di molto: per conseguire un pretesto da finir la tresca in un litigio.

E a me dissero:

— Facesti male a tacere. Parlando avresti mitigata la pena di quel disgraziato; non sarebbe forse morto in carcere.

Ma anche adesso non so persuadermi che feci male. Zvanòn al disonore della sua famiglia preferì Portolongone.

E col pane del suo nutrimento componeva le cose che rammentassero a chi lo aveva aiutato a salvar l’onore dei suoi, la sua gratitudine, l’affetto imperituro, l’anima sua. Per Dolfo.