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LA CASTA SUSANNA
L'orrida bellezza dei «calanchi»! Dalla parte ove il monte dirupa nella Landa sino al limpido rio quella rovina par l’opera d’una gran fantasia turbolenta e ansiosa che la morte abbia interrotta, improvvisamente freddata quasi a castigo d’orgoglio; e l’anima che ammanta di verde i dorsi al di sopra e riempie la valle di colori e di voci lì sembra tenuta in un lungo stupore, sembra attonita e stanca in un sogno che fu e non è più pauroso.
Diroccate muraglie, quali tramezzi disposti con regola e sostenuti da irti sproni, protendono guglie e cuspidi, estendono creste, si aprono a tagli, a frastagli, a crepe, a solchi, a strappi, a lacerazioni, a incavi tra cui le ombre e le luci mutano lente; e i tronchi vertici, e le sottili lame dentate, e i corrosi ricami — quando un soffio di vento si direbbe bastasse ad abbatterli, confonderli, disperderli — rimangono in vista, fuori degli sconvolgimenti massicci e su le profondità opache, come fortunati avanzi di un infantile capriccio o di una sublime audacia. Il sole accende la sabbia gialla che ricopre le balze argillose ma non un filo di erba erompe dalla inerte materia. È una squallida uguale tristezza. Eppure così bella!
***
I calanchi — a cercarvi conchiglie fossili — furon la méta dei primi giuochi per me e Adriana: compagni d’infanzia.
E forse quell’asprezza del luogo nativo ci aveva come d’istinto allevati a una fiera puerizia, che contrastava all’educazione familiare.
Ma con l’aumentar dell’età preferimmo scendere per i campi nella Landa e là raccoglier fiori con lo spettacolo della montagna di fronte, così vario di tinte e di luci nel seguir delle ore. Giorni beati dell’anima ancor candida! giorni felici delle prime ingenue e pure tentazioni d’amore!
S’intende però che, con tutto il bene che ci volevamo, Adriana ed io ci accapigliavamo spesso; a volte più che lo sfogo di una bizza improvvisa era quasi una prova di ribellione. Avevamo l’arcana coscienza di esser legati dall’affetto per sempre, e ci bisognava anche la coscienza di poter divincolarci.
A volte diveniva fin necessario l’intervento di qualche amico per rimetterci in pace: a fatica sembravamo far grazia l’uno all’altra; e ne avevamo tanta voglia di sorriderci e di correr via insieme, incontro alla gioia, incontro a un non dubbioso avvenire!***
I nostri prediletti amici erano due uomini attempati: Isidoro Lamandini, il vignarolo; e Paolo Querzè, il falegname, che aveva la bottega su la strada maestra.
Il primo, di solito in giacca alla cacciatora e lo schioppo a tracolla, c’incuteva un rispetto affettuoso perchè, forte e temuto, a noi si dimostrava servizievole e carezzevole. Possedeva un’arte meravigliosa. Balzava vestito nei borroni della Landa e, intorpidata l’acqua, acchiappava i pesci con la disinvoltura d’uno che cogliesse cose inerti, e ce li gettava splendidi e boccheggianti su l’erba.
Il secondo — Paolone — sapeva tagliar il vetro di lato col diamante, e preparar vernici di ogni colore, e raccontarci lunghe storie che s’inventava lui spacciandole come vere. Quando non aveva voglia di fole, cantava, a squarciagola, del brigante Mastrilli e di «Erminia fra l’ombrose piante». Ma il divertimento più grande quei due ce lo davano a contendere per scherzo fra loro. Se ne dicevan di cotte e di crude; se ne facevan di tutte le sorta. Non di rado Paolone restava senza pialla e Isidoro senza schioppo, e spendevan ore e ore a cercar quella o questo minacciandosi di legnate e finendo all’osteria a bere un litro.
***
A sedici anni Adriana era una ragazza come ce ne sono tante, se cresciute fuor del mondo. Timida che arrossiva per nulla, si vergognava della sua timidezza e per rifarsi s’avventava a dispetti e a impertinenze. Vanitosa fino al capriccio, sdegnava le lodi alla sua bellezza quasi fossero canzonature. Buona, godeva a parer cattiva. E se la dicevano innamorata, protestava offesa. S’intratteneva più volontieri con me che con le amiche perchè io le piacevo di più: che c’era di strano?
D’inverno quando, giù a Castello, lei passava i giorni tediosi in casa e in chiesa, e io in città sospiravo le vacanze per rivederla, mi scriveva lunghe lettere in presenza della madre e gliele leggeva: notizie; motti; confidenze; insolenze, magari: parole d’amore nessuna. E guai se mancavo alla consegna di far lo stesso!
Come ebbe da riferirmi la disgrazia capitata all’amico Lamandini cominciò la lettera così:
«Ho da raccontarti una storia da ridere...».
Isidoro e Paolone l’ultima notte di carnevale si eran presa una sbornia solenne. Rincasando sopra la neve, l’uno aveva piegato a destra, l’altro a sinistra con la pretensione d’indirizzarsi l’un l’altro per la via buona. E Isidoro era precipitato nella pozza piena d’acqua gelata, presso la chiesa.
Ma Paolone, che non stava diritto e non aveva forza di trarlo fuori, chiamava aiuto invano. Nessuno gli credeva; gli davan dell’ubbriaco; dubitavano d’una burla.
E la lettera finiva:
«Isidoro s’è ammalato, e forse morirà. Non ci mancava che questo per farmi piangere!».
***
Quell’anno gli esami di licenza liceale ritardarono il mio ritorno in campagna. Il giorno che finalmente vi giunsi non trovai Adriana in casa. — Sarà nella Landa a cucire — mi disse la madre.
Era là, infatti, all’ombra delle querce e dei pioppi, ove il rio più affondava tra le sponde folte di acacie e di vinchi. Ma non riuscii a sorprenderla con un grido: — Adriana!
Mi prevenne, incontro. Era pallida.
— Gli esami? — chiese.
— Bene!
Allora si sfogò in rimproveri. Tenerla in pena! Non telegrafarle! Esagerava l’inquietudine per dissimulare il suo desiderio — e frenar il mio — di consolarci più che con una stretta di mano dopo così lunga assenza.
— Mi vuoi ancora bene, mi ami! — esclamai.
Confermò con la luce degli occhi e del sorriso. E dimandò:
— Perchè dici ancora?
— Perchè sei diventata più bella!
Scosse le spalle mormorando: — Lo dicon tutti. Ma — aggiunse seria — è ora di metter giudizio!
E a dar insieme prova i giudizio m’impose di raccoglierle fiori e mentastro, come quando eravamo bambini.
Intanto lei cuciva e discorreva.
— Che paradiso, qui! Ci starei da mattina a sera!
Indi, col tono di chi dice la cosa più semplice, più naturale, più innocente del mondo:
— Che brividi di delizia in quest’acqua così fresca, all’ombra! Ci fo il bagno ogni giorno.
Io ebbi un senso di disgusto, quasi di panico. E dissi:
— Se qualcuno ti vede?
— A mezzodì, quando tutti sono a desinare? Chi temi che ci venga quaggiù?
Fui per gridarle: — Non voglio! — ; se non che sapevo che per piegarla al mio volere non era quello il modo. E tacqui. Un silenzio — speravo — ammonitore.
Tacere quando avevamo tante cose da dirci!
— Ah! — esclamò lei d’improvviso. — Mi dimenticavo di darti una brutta nuova, Paolone sta male. È a letto da tre giorni con una polmonite.
E Lamandini?
Indovinò la mia dimanda.
— Isidoro se ne andrà alla caduta delle foglie. Tisi senile.
***
Il giorno dopo andammo a trovar Paolo Querzè.
Era infuocato dalla febbre e di tratto in tratto delirava. Ma a udir le nostre voci volle sollevarsi; e ci sorrise dicendo:
— Ah la gioventù! Siete contenti, voi due!
E raccogliendo lo sguardo in me solo:
— Com’è bella Adriana!
Poi socchiusi gli occhi e spento il sorriso, mormorò:
— E io muoio.
In quel punto udimmo tossire, da basso.
Lamandini.
Saliva a stento la breve scala. Quando fu su, dovè sedere per ricuperar il poco di fiato che gli avanzi dei polmoni gli concedevano ancora. Ma aveva ancora tant’animo!
Si accostò al letto dell’amico, a scherzare con tutta la rudezza di un tempo.
— Fai proprio viaggio, Paolone?
— No — l’amico rispose. — Aspetto che te ne vada tu, prima.
— Prima io? Non credo. A ogni modo, hai regolati i tuoi conti, per non aver noie, di là?
— È presto! — ribattè l’altro. — Tu, piuttosto, l’hai avuto il permesso di transito? il passaporto?
— Non ne ho bisogno. Non ho ammazzato nessuno.
— Nemmeno io.
— Non ho rubato.
— Nemmeno io. Ma e il resto, Paolone?
— Niente!
— Ah niente? Ti par niente aver mancato fin all’ultimo?
— Mancato?
— Sì: con quelle ispezioni... — e Isidoro strizzò l’occhio a Adriana sorridendo: il sorriso di un cadavere — ; le ispezioni tra l’acaciaia, mentre una bella ragazza faceva il bagno...
— Anche tu, con me — conchiuse l’altro, mesto e affannoso.
Adriana, ch’era avvampata all’oltraggio ignorante, diventò così pallida che temei svenisse.
— Andiamo! — affrettò.
***
Appena fummo su la strada si fermò affrontandomi. E con voce sicura, con sguardo fisso, con anima imperiosa disse:
— Tutto è finito tra noi due! Lasciami. Io ti lascio!
Impazziva? Tremai a dimandarle che cosa le avevo fatto, io, di male; che colpa avevo io se coloro l’avevano offesa. Voleva pigliassi a schiaffi due moribondi?
Oh non questo voleva!
— Non capisci? — insistè stupita, più addolorata, pareva, dalla mia incoscienza. — C’è da spiegarle certe cose? Non capisci la mia ripugnanza? Non capisci che mi sarà intollerabile, per sempre, questo pensiero? il ricordo di quello che tu hai udito oggi, di me?
Non capivo: non potevo capire il pericolo in cui per colpa non mia correva il nostro amore. Esperto del mondo e della donna avrei risposto: sì. Concedere per forse ricuperare.
Invece, con gli occhi pieni di lagrime, l’invocavo: — Adriana! Adriana! — La scongiuravo: — Non farmi soffrire!
— Non soffro anch’io? — gridò irritata dalla mia debolezza, muovendosi per avviarsi. E ad ultima difesa io ebbi un sorriso amaro e dissi: — Un pudore esagerato! — Schifiltoso, volevo dire; assurdo a pensarlo!
Lei, senza ribattere, si avviò.
Mi mordevo le labbra per non rompere in pianto. Pensavo e non sapevo che pensare. Perduta! Tutto sarebbe stato inutile... Perduta!
Tutto inutile?
Ah costringerla a voltarsi, a insolentire, a schiaffeggiarmi! Forse era, col pentimento di lei, la salvezza, dopo!
Sghignazzai; gridai:
— La casta Susanna!
Ma Adriana non si voltò.
Era finita.
***
Laggiù, nel praticello della Landa, dove lei non sarebbe tornata mai più, io piansi. Eppoi inveii come l’avessi presente; la accusai di crudeltà, di demenza, di ogni cattiveria, di perfidia.
Ma a poco a poco, nel mentre stesso che l’accusavo, la difendevo.
Innamorata d’un altro aveva colto quel pretesto per liberarsi di me? No. Amava me: ne ero certo. Da che cosa dunque attingeva la forza per vincere e respingere il nostro amore? Perchè? Perchè? Per una impressione morbosa? Nulla sapevo io, povero ragazzo ignaro, di isterismo e di psicopatia femminile; ma no: non poteva essere un male dei nervi o del sangue la causa di tanto dolore! E nemmeno il pregiudizio religioso che l’incolpasse dell’aver condotti a peccato mortale quei due vecchi prossimi a morire. No: doveva esser stato l’orgoglio! l’orgoglio ferito! Ma quale? Ma perchè? Ecco. L’orgoglio, era stato, che aveva una radice profonda nell’indole della donna, nel sesso: l’orgoglio della verginità che si sentiva contaminata; l’orgoglio come della sanità che avesse patito il contatto della brutalità in dissoluzione, della corruzione, della morte; l’orgoglio di un amore puro, alto, nobile che era stato macchiato, abbassato, avvilito da sguardi, pensieri osceni, da schifose voglie; l’orgoglio di un’anima profanata che si comprendeva diminuita dinanzi al suo stesso amore.
Più tardi però, agli anni dell’esperienza, quando ci pare d’avere conosciute bene le donne, mi chiesi più d’una volta: Adriana avrebbe tanto sofferto di quella profanazione se invece che vista dai due vecchi, di cui l’uno era preso alle spalle dalla morte e l’altro le andava incontro, fosse stata vista dai miei occhi innamorati e avidi d’amore sano e forte?
Ma anche adesso non so che cosa rispondermi.