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198 | Adolfo Albertazzi |
n’ebbi tal pena che, non interrogato, confermai in fretta.
— Sì sì: è vero!
Allora lui rise. Disse, come a darmi subito ragione del suo stupore enorme:
— Oh dunque non lo sapete, voi, che Tito è fratello della Gisa?
E riprendemmo la via.
— Povero Tito! — aggiunse Zvanòn dopo un tratto — . Deve tornar soldato, fra poco. Non verrà più a giuocare alle bocce con noi.
Eravamo al sommo della costa; oramai a casa.
E io dubitavo ancora; temevo che Zvanòn mi conducesse dalla mamma. Ma un’altra idea mi soccorse.
— E le boccine di terra creta quando me le fai? Fammele, Zvanòn!
Tacque. Poi rispose:
— Adesso adesso... Io lego i fasci di sterpaglia. Voi intanto ammolirete la terra creta, e dopo faremo la fornacetta da cuocer le palline.
Così io ottenni ch’egli dimenticasse d’accusarmi, ed egli dovè sperare che non parlerei a nessuno di Tito e della Gisa, e di quel che avevo visto.
***
Otto o nove mesi dopo, a Bologna, al pomeriggio di un giorno invernale, una scampanellata mi fece correre prima della domestica ad aprir l’uscio.