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200 Adolfo Albertazzi


nove mesi prima. Entrai in cucina. Dissi alla donna:

— Zvànon ha ammazzato Tito, con la vanga!

La vecchia domestica allibì. Non poteva credere. Conosceva da tanti anni quella famiglia: galantuomini: gente di fede: cristiani. Impossibile!

— Per una cinquantina di lire. Tito non gliele voleva dare... — E chiesi:

— Tito non è il fratello della Gisa?

— Ma che! — fece la donna. Soggiunse: — Povera Gisa! Avere per cognato un assassino!

La vecchia non sospettava d’altro. Ma io sapevo perchè Zvanòn aveva ammazzato Tito: Zvanòn che mio padre aveva accompagnato a costituirsi. Ne ero certo. Quelle occhiate...

***

Ed io tacqui il mio segreto. Non ero forse complice del delitto?

Questa paura mi occupò tremenda. Pensavo: se io non mi fossi fermato alla pozza dove c’erano i ranocchini non ancora fatti, e non avessi voluto prenderne uno, e per prenderlo non avessi corso il rischio d’annegare, Zvanòn non mi avrebbe minacciato d’un castigo e io non avrei detto nulla a Zvanòn.

Zvanòn, no, non avrebbe ammazzato Tito! Certissimo. Quelle occhiate... Di chi dunque la prima colpa?