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Zvanòn 195


Discorrevano, ridevano. E mi stancavano. Mi spiacevano.

Forse antipatia di quel giovine ben diverso da Zvanòn, che se mi aveva seco e non aveva altro da fare consentiva ai miei capricci? Per colui invece era come io non esistessi. O me lo rendeva antipatico un arcano presentimento?

Stanco, dissi alla donna:

— Vado a casa.

Lei non voleva. Mi aveva in consegna, e dovevo restare. Minacciò, pregò.

Otto o nove mesi dopo, costretto a ripensare e a rievocare quanto mi avvenne quel giorno (e ritenni in mente e in cuore per sempre) sentivo un accento quasi di pianto nella sua preghiera di restar con lei, quasi temesse, dal mio allontanarmi, un pericolo. Ma Tito non mi fè parola.

— Sono stanco di star qui — ripetei.

E scappai.

Oh non per correre a casa, come la donna credette! A mezza costa c’era la pozza del vincheto; e mi venne voglia di un vincastro dalla rossa scorza. Tra i vinchi d’intorno all’acqua componevano un folto le vitalbe, i pruni, i biodi, le carici, si che a penetrarvi non s’era visti nemmeno da chi saliva per il sentiero alla volta della casa.

Entrai nel folto; girai alla parte opposta, dove m’invitava con belle aste un vinco vecchio ma basso; mi arrampicai su quello. Raggiunto che ebbi l’inforcatura del tronco, vi fermai i piedi e