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196 | Adolfo Albertazzi |
prima di staccare il virgulto ambito mi volsi a guardare di là, arditamente pago della mia prodezza.
Vedevo lì giù, tra i pioppi, il rio; e la Gisa con l’uomo.
Essa, in piedi ora, porgeva a Tito, disceso a lei, i pannolini; e li torcevano tenendoli l’una a una estremità e l’altro all’altra. Poi egli li gettava indietro, su l’erba.
Infine, salirono alla riva.
Ed egli accostò il viso al bel viso.
E poco dopo, mentre stavo appiattato e seduto a sfogliare il virgulto, scorsi tra il folto la donna che avanzava sola per il sentiero declive. Aveva sul capo il cesto della biancheria lavata e lo reggeva con le braccia nude: la gonna sollevata a un fianco, una gamba scoperta sin quasi a mezza gamba; i capelli scomposti.
E il sole pareva tutto per lei.
Rimasi alla pozza perchè, mentre percuotevo l’acqua con l’asta e sollevar spruzzi sfavillanti, ci avevo fatta una scoperta: di certi pesciolini mai visti, a due zampe che parevano terminare in manine; col capo tozzo, gli occhietti spalancati, con tutto il corpo tutto coda, grosso e corto; la pelle scura, a macchie più scure. Brutti. Oh prenderne almeno uno!...
Quand’ecco un rumore, una voce grossa.
— Cosa fate qui?
Sobbalzai, mi volsi. Cedetti a Zvanòn, che mi afferrò un braccio e mi scostò dall’acqua.