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202 Adolfo Albertazzi


I testimoni confermarono che erano amici.

Nessun sospetto, in nessuno, della tresca fra Tito e la Gisa. E Zvanòn parve ricevere impassibile la condanna.

Mio padre, riferendo in casa del processo, conchiudeva:

— Si direbbe quasi che ha voluto essere condannato lui, a trent’anni.

E io capii. Zvanòn aveva voluto salvare l’onore della sua famiglia; l’aveva salvato.

Ma aveva salvato anche me — pensavo; e la gratitudine che sentivo per lui era così grande da rendermi pradevole, ora, il segreto più grande di me. Avrei sfidato la morte piuttosto che rivelarlo. Povero Zvanòn! Mi era ben menifesto ora il signicato di quelle sue occhiate che mi prendevan l’anima! Che colpa avrei commessa, per lui; che tradimento d’amico; che infamia se avessi detto a qualcuno, pur a mia madre: — Vidi che Tito baciava la Gisa!

E con che cuore ascoltavo le notizie che a intervalli — a lunghi intervalli — ci davano i parenti del prigioniero! Ci mandava a salutare.

Poi ci mandò dei regalucci: d’opera sua. Una volta fu un vasetto in forma d’anfora; un’altra volta un cestello; un’altra volta una scatola col coperchio.

L’opera era abbellita da rilievi, fregi, piccole frutta, fiori a tinta color mattone; e tutto composto