Questa pagina è ancora da trascrivere o è incompleta. |
poi in un sonno profondo, svegliandosi dal quale, non ricordava piú nulla.
Nei casi semplici, quando non c’era delirio, la convulsione terminava in un pianto dirotto; ma l'impressione per lei era piú forte e si chiudeva quasi sempre con una malinconia che durava parecchi giorni.
Nella sua camera, sul tavolino da notte, c’era una fila compatta di boccine e di ampolle; acqua matricaria, pillole antisteriche, pillole di ferro, globuli di arsenico, aceto, fior d'arancio, melissa. Nel tiretto teneva chicchi di caffè tostato; li masticava nelle veglie, quantunque il dottore l'avesse ammonita di astenersene.
Ma Tavecchia, che passava i settant’anni, non volle assumersi tutta la responsabilità di quella malattia nervosa, e suggerì un giovane medico, addottorato nelle teorie moderne, versato nella patologia come nella psichiatria.
Egli venne, un giorno, e disse che voleva visitare l'ammalata in letto per essere sicuro della diagnosi.
L’indomani Teresina non si levò, agitata nella prospettiva di quella visita, contrariata.
— Mettiti una bella cuffia — disse l'Ida, ridendo per distrarla.
Ella non volle la cuffia; anzi si tolse un fazzoletto ch’era solita portare, avendo vergogna di mostrarsi colla testa coperta come una donna vecchia.
Aveva ancora dei bei capelli, lunghi, morbidi,