Storia di Torino (vol 1)/Libro VI/Capo III

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Capo Terzo


Morte di Vittorio Amedeo i. — Questioni per la tutela tra madama Reale Cristina, e i principi suoi cognati. — Prepotenze inestima­ bili di Richelieu. — Il principe Tommaso occupa Torino nel 1639. — Lo rende nel 1640. — Fine della guerra civile nel 1642.


La cessione di Pinerolo alla Francia, frutto in gran parte di politica necessità, abbassò presso ai posteri la fama di Vittorio Amedeo i; era egli per altro prin­cipe di gran valore nelle cose di guerra, di prudente consiglio, e forte amator di giustizia. Ma gli venne, come sempre accade ne’ miseri giudizii umani, ap­posto a colpa il risultamento delle più generose che misurate imprese del padre, e dei domestici intrighi.

Ed avrebbe egli forse diminuita’, se non tolta, quella dipendenza in cui avea posto lo Stato, sol che gli fosse durato il regno; ma addì 7 d’ottobre del 1637, dopo qualche giorno di febbre mancò inopinatamente [p. 453 modifica]di vita, lasciando due fanciullini, Francesco Gia­cinto quinquenne, Carlo Emmanuele di soli tre anni, ambedue di gracilissima salute; e due fratelli Mau­rizio, cardinale, non vincolato per altro ad ordini sacri, e Francesco Tommaso, principe di Carignano. Con essi era da qualche tempo il duca in palese rot­tura tenendone sequestrati gli appannaggi, dopoché Maurizio, abbandonato l’ufficio di protettore del regno di Francia, aveva accettato quello di protettore del­l’impero, e Tommaso, acconciatosi in Fiandra ai servigi di Spagna, andava sempre più crescendo a gran danno di Francia quella fama d’invitto capitano, che per molte nobili fazioni di guerra erasi già procacciata.

All’ombra del nome di Ludovico xiii regnava in Francia Armando, cardinale di Richelieu, con im­pero, come sempre accade quando il servo diventa padrone, assai più assoluto e rigoroso che quello del legittimo principe. Ed avendo vasti concetti e gran cupidigia d’impero, volontà risolute, ostinate, e niun riguardo ai mezzi, purché conseguisse l’in­tento, conoscendo benissimo gli umori della sua na­zione, e sapendo che tanto tempo si piegherebbe al suo giogo, quanto ei durerebbe a pascerla di glo­rie e di conquiste, giudicò la morte del duca di Sa­voia esser propizia occasione d’assicurare sopra questo Stato la preponderanza francese, e di condurlo forse per gradi a diventar col tempo una provincia francese. [p. 454 modifica]Vedova di Vittorio Amedeo i, era madama Cri­stina di Francia, sorella del re Cristianissimo, la quale amando il fratello e la Francia, non amava per altro, ma odiava e temeva il Richelieu che aveva mandato in esigilo sua madre, e tenea sotto perpetua tutela il fratello. Posta tra due potenze che contendeano per aver il predominio in Italia, ella avea sempre anteposto gli interessi francesi agli spagnuoli; e forse in parte a tale predilezione, era dovuta l’affrettata conclusione dell’articolo segreto aggiunto al trattato di Cherasco per la cessione di Pinerolo. Ma col progresso de’ tempi ben diede a conoscere che, nelle cose sostanziali, agli interessi di Francia, ella sapeva anteporre ed anteponeva quelli della sua patria d’adozione. Onde spiacque mortal­mente al Richelieu, e seco spiacquero i principali ministri col cui consiglio si governava.

Degno interprete della prepotenza di Richelieu era presso la duchessa il signor d’Emerì, ambasciador di Francia, uomo rusticano e tracotante, il quale comunicando alla bella e spiritosa Cristina i duri imperii del suo padrone, li aggravava coll’insolenza delle forme.

Era interesse della Francia che Cristina assumesse sola l’ufficio di tutrice e reggente, perchè in questo modo i Francesi poteano sperare d’aver senza con­trasto il predominio in Piemonte, ed esser tutori della tutrice; [p. 455 modifica]

Che tenesse lontani i principi Maurizio e Tom­maso suoi cognati, nemici di Francia;

Che componesse il suo consiglio di persone divote a quella corona;

Che si stringesse in lega colla Francia, invece d’osservare la neutralità.

In quanto al primo capo, le mire del Richelieu co­incidevano colla naturale inclinazione della duchessa, che; maestosa di sembianti, faconda e commovente favellatrice, con voce alquanto virile, mente leggiera sì ma sagace ed accorta, cuore magnanimo ad un tempo e giulivo, si stimava ed era atta al comando. La stessa passione le facea temere la presenza dei principi suoi cognati; ben prevedendo che non potea seguire il loro ritorno senza diminuzione della propria autorità. Il terzo capo assai più le increbbe, e sebbene si studiasse di soddisfarvi, almeno in ap­parenza, spaventata com’era delle continue minacce del Richelieu e dell’Emerì, che le faceano suonare all’orecchio paure di veleni, di congiure, di tra­dimenti; il re essere la sola sua salvezza; esser dessa perduta se un sol momento se ne dimenti­casse; tuttavia conservò lungo tempo tra i principali suoi ministri il padre Monod, gesuita, che non par­teggiava punto per Francia, che consigliava il ritorno de’ principi, che erasi concitato l’odio del Riche­lieu, prima per averlo deriso con un libro intito­lato, Praesul galeatus, poi per aver ordito una trama [p. 456 modifica]per farlo cadere. Circa alla lega con Francia, essa molto le ripugnava, perchè aveva il giusto sentimento degli interessi di questa monarchia, che comanda­vano allora invece una stretta neutralità. Ma vinse la paura de’ Francesi, i quali, appena seguita la morte del duca, aveano tentato d’impadronirsi per sorpresa di Vercelli, dando così un primo indizio della protezione che tanto pomposamente promet­tevano alla sorella del re. Cristina ristringendosi dopo molti contrasti e molte lagrime, in confedera­zione colla Francia, studiavasi d’occultar quel ma­neggio. Ma lo seppero agevolmente gli Spagnuoli; e dopo d’aver offerto alla reggente la pace, e la mediazione del re Cattolico per un accordo coi principi suoi cognati, vedendosi ributtati s’impadroni­rono di Vercelli.

Il principe Maurizio di Savoia, lasciata la sua re­sidenza cardinalizia di Roma, era venuto in Piemonte, subito dopo la morte di Vittorio Amedeo i, prote­standosi di non venire per altro fine che di servire alla duchessa reggente, e al duca suo nipote. Ben­ché persuaso che a lui s’appartenesse, come ad agnato prossimiore, la tutela del nipote, e la reggenza dello Stato, pure ei non movea contrasto alla duchessa, verso la quale il guidava un sentimento più tenero, e di cui sperava e sollecitava la mano. Ma non potè giungere in Piemonte, imperocché Cristina gli fe’ rammostrare quanto fosse sospetto ai Francesi, quali [p. 457 modifica]pericoli potrebbe correre la sua persona ove continuasse il cammino; in quali imbarazzi porrebbe il nipote e la cognata, pe’ quali nudriva tanto e sì sin­cero affetto.

Morì, un anno dopo il padre, il piccolo duca Fran­cesco Giacinto, e la corona passò al minor fratello Cario Emmanuele, la cui complessione non dimostravasi niente più salda; allora s’infervorò nelle sue depredatrici speranze il Richelieu; crebbe la villania e la prepotenza de’ suoi messaggi, e già s’an­davano spargendo scritture per mostrar che, man­cando Carlo Emmanuele ii, non ai patrui, ma alla sorella maggiore (chè si volea poi maritare al Del­fino) apparterrebbe la successione. Ed allora pur fu, che parendo strano assai al principe Maurizio che per obbedire agli interessi di Francia, si tenesser lontani, come in esiglio, glizii del duca, che soli avreb­bero potuto riparare in qualche modo al grave pub­blico danno, pigliate segretamente le porte, venne in Piemonte, e giunse fino a Chieri. Aveano due suoi aderenti, Masserati e Pasero, procurato che la cittadella di Torino, e la città di Carmagnola gli aprisser le porte. Ma fu scoperto il trattato. Onde tra per questo e tra per le minacciose amba­sciate della cognata, e i soldati mandatigli incontro, sotto sembiante d’onorario e difenderlo dalle insidie francesi, egli indietreggiò; ma punto nel più vivo dell’animo, s’acconciò ad un trattalo col Leganez [p. 458 modifica]governator di Milano, tanto in nome proprio che del principe Tommaso suo fratello, che occupato nella guerra di Fiandra, e stato lungo tempo in qualche emulazione col suo fratello maggiore, orasi prima d’allora contentato di protestare per riverenti e prudentissime lettere contra l’ingiusto esiglio, e contro la piega che pigliavano, in balia della pre­ponderanza francese, i pubblici affari.

Intanto il popolo sentivasi profondamente umiliato degli oltraggi di cui era di continuo abbeverata la duchessa, di quelli che pativano i due principi co­gnati, nella crescente insolenza francese. Gli animi s’aprivano al desiderio di qualche novità soccor­revole, che rinfrancasse la vacillante monarchia, e molti credevano che nel ritorno de’ principi fosse posta l’àncora di salvamento. Il Monod partì segre­tamente per andar a raggiungere il principe cardi­nale. Ma inseguito e preso fu condotto nella fortezza di Mommeliano. La duchessa pensò di quella carcerazione farsi merito col Richelieu: ma questi non era uomo da pigliare a gabbo. Egli chiedette in­ contanente gli fosse dato nelle mani il suo nemico, e rifiutandolo nobilmente la duchessa, crebbe in mag­gior odio contro di lei, e aumentò gli strapazzi, e negò i soccorsi promessi nella lega, a ciò stimolato dall’Emerì, che Cristina, non potendolo più compor­tare, avea fatto rivocare dall’ambasciata.

I principi s’apparecchiavano pertanto ad entrar [p. 459 modifica]in Piemonte colle forze di Spagna, sicuri di trovarvi non solo numerose simpatie, ma partigiani operosi e devoti. La reggente per assumere la tutela aveva invocato gli antichi esempli della R. Casa, e la vo­lontà del duca suo marito. Essi poteano similmente invocar i medesimi esempli ond’esserne partecipi, ed ebbero torlo di volervi aggiungere un decreto im­periale che a loro la conferiva. Se non che siffatti or­dini Cesarei, estesi colla usata pomposa solennità di vocaboli, non pregiudicavano l’indipendenza nazio­nale, perchè aveano quel tanto sol d’efficacia che loro si volea concedere, laddove i segreti ed i palesi comandi del Richelieu, poteano talvolta con lagrime e tremore essere indugiati, ma erano quasi lutti ob­bediti.

La prima terra fortificata che venne alle mani, dei principi fu Chivasso. Il principe Tommaso l’ebbe per sorpresa. Allora si recarono a sua divozione Ivrea, Biella ed Aosta: poi Asti e Trino. I coman­danti dopo d’essersi difesi con maggiore o minor costanza passavano sotto gli stendardi de’ principi. Frattanto Richelieu, invece di soccorrere la reggente, accusando le genti di Savoia di tradimento, volle aver nelle mani Carmagnola, Savigliano e Cherasco. Il conte Filippo d’Agliè, principal ministro e confi­dente di Cristina, s’oppose con nobil fermezza. Onde cadde in disgrazia di Richelieu, e se la reggente non alzava la voce, minacciando di prendere il velo, [p. 460 modifica]e di abbandonar lo Stato ai cognati, fin d’allora era tratto prigione. Nondimeno essa fu costretta a dar nelle mani de’ Francesi Carmagnola, Savigliano e Cherasco: il che fu sì amaro ai popoli, che città e terre andavano a gara a gridar il nome de’ principi come de’ loro liberatori.

La notte del 27 d’agosto 1639, il principe Tommaso e Leganez giungono con rapida marcia improv­visi alle mura di Torino, v’entrano per iscalata, e danno appena alla reggente il tempo di ritirarsi in cittadella, forzando le barricate con cui i principisti aveano già serrate le strade. In que’ giorni medesimi il principe Maurizio comparso à Nizza, n’aveya ot­tenuto, senza niuna difficoltà, la sommessione.1

Richelieu, della miseria estrema della duchessa volle trar partito per aver lei e lo Stato a discre­zione. Fece venire il re a Grenoble, e invitò Cri­stina e il figliuolo ad andarlo a trovare. In quel pe­ricoloso frangente risplendette l’accorgimento e il gran cuore della duchessa. Vide il laccio, e provvide ad evitarlo. Lasciò il figliuolo a Mommeliano e lo commise alla fede del marchese di S. Germano, di­cendogli che gli lasciava il pegno più prezioso e più caro: non lasciasse uscir il duca dalla fortezza, non ammettesse stranieri, non consegnasse quella fortezza a nissuno. Non attendesse a qualunque or­dine contrario, ancorché segnato da lei, e giudi­casse tali ordini essere stati estorti per violenza. [p. 461 modifica]

A Grenoble Richelieu non dissimulò alla duchessa che il re voleva per buoni rispetti il nipote a Pa­rigi, e intendeva di guernir Mommeliano di soldati francesi. Ma Cristina fu salda ne’ suoi rifiuti. Ca­rezze e minacce furono messe in opera inutilmente. Indarno ancora tentò quel ministro la fede del conte Filippo d’Agliè. Questi non fu men duro che la reg­gente, e lo Stato fu salvo.

Nel 1640 Leganez aprì la campagna andando a campo a Casale. Ma il general francese d’ Harcourt lo costrinse a levar l’assedio, e venne quindi a porlo ei medesimo a Torino. Cominciò a stringere la città il 10 di maggio.

Poco stante giunse Leganez a bloccare d’Harcourt nelle sue linee. Spettacolo unico piuttostochè raro. La cittadella di Torino, tenuta dai Francesi: assediata dalla città, dov’erano il principe Tommaso e gli Spagnuoli. La città assediata dai Francesi: il campo degli assedianti assediato dagli Spagnuoli. In quel­l’assedio un ingegnere del principe trovò il mezzo di corrispondere col campo spagnuolo per via di bombe, la cui capacità conteneva dispacci in luogo di polvere. Ma le bombe che rinviava il campo spagnuolo non conteneano pane di che la città pativa estremo disagio. In tali angustie il principe Tom­maso tentò una vigorosa sortita addì 14 di settem­bre, ma Leganez non si mosse punto a soccorrerlo. E però egli trattò della resa, e sei giorni dopo sortì cogli onori della guerra e si ritirò in Ivrea. [p. 462 modifica]La reggente tornò allora a Torino; ma essendo la città in man de’ Francesi, la sua podestà ebbe maggiori limiti che per l’addietro. Governava il ge­nerale Duplessis Praslin, il quale dava alla duchessa quelle apparenti dimostrazioni d’onore, che non si potean negare alla sorella del re, ma in realtà ese­guiva non altro che gli ordini del Richelieu. Praslin invitò una sera a cena con molti altri generali fran­cesi e piemontesi il conte Filippo d’Agliè, e all’uscir di tavola il fe’ pigliare e condurre al castello di Vincennes. Quest’illustre vittima della violenza e dell’odio di Richelieu, rimase in carcere fin dopo la morte di quel ministro.

Non è qui luogo di narrare gli altri successi della guerra. Basti il dire che, al vedere su quasi tutte le fortezze del Piemonte sventolare il vessillo spagnuolo od il francese, scoppiava il cuore de’ buoni Piemon­tesi; che altamente ne doleva a Madama, stanca de’ soprusi, delle violenze, delle calunnie con cui era oppressa dai Francesi; ai principi, i quali non s’erano mai fidali degli Spagnuoli, ne aveano spe­rimentata la corta fede, avean preso l’armi, non per fare al Piemonte mutar dipendenza, ma per toglierla, se si poteva, od almeno per diminuirla. Le pratiche d’accordo già molte volte intavolate furono dunque riprese, e felicemente conchiuse il 9 giu­gno 1642. I principi parteciperebbero alla tutela come assistenti. I loro fautori non sarebbero inquie­tati. Il principe Maurizio darebbe la mano di sposo [p. 463 modifica]a Luigia, figliuola primogenita della reggente, e sa­ rebbe luogotenente generale della contea di Nizza.

La Francia promise allora di rendere le piazze occupate tostochè gli Spagnuoli sarebbero cacciati dal Piemonte. Di quell’anno medesimo la spada del principe Tommaso, creato generalissimo dell’eser­cito francese, ripigliò Crescentino, Nizza, Acqui, Tortona, Saluzzo, Verrua. Frattanto la morte di Richelieu (1643) agevolò il riordinamento della Mo­narchia di Savoia, la quale, se non potè per molli anni ancora sfuggire alla preponderanza francese, godeva nulladimeno de’ termini d’una onesta indi­pendenza.

La città di Torino non fu sgombra dall’armi fran­cesi che dopo il trattato del Valentino del 3 d’a­prile 1645, ed allora vi fece il suo solenne ingresso il giovine duca Carlo Emmanuele ii, che tornato di Savoia avea fatta per qualche tempo residenza a Possano. Ma soli dodici anni dopo rendettero i Francesi la cittadella.

La guerra civile, ancorché intrapresa per neces­sità, ancorché guidala con giuste intenzioni, porta amari frutti. Segreta ruggine fu sempre fra Cristina e i cognati. La confidenza mai non nacque. Nel popolo gli animi rimasero assai tempo ulcerati e divisi, e trent’anni dopo si trova, in segrete rela­zioni sulla persona di qualche ministro, l’accusa di essere un poco principista. Per lungo tempo infine [p. 464 modifica]molti di que’ che macchinavano alcuna cosa contro al governo, mescolavano alle inique, e spesso ridicole loro congiure, il nome de’ principi.

Se non che la sanità del giovine duca, causa di tanti timori e di tante speranze, si consolidò. E quando potè governare si mostrò nella generosità de’ concetti e nell’amor di giustizia degno nipote di Carlo Emmanuele i e d’Arrigo iv.

Il principe Tommaso mori addì 22 gennaio dei 1656; il principe Maurizio il 4 d’ottobre del 1657; la reggente Cristina il 27 di dicembre dei 1665; Carlo Emmanuele ii, il 12 di giugno del 1675 in età di 41 anno, lasciando un unico figliuolo chia­mato Vittorio Amedeo ii in età bambina, e però lo Stato nelle angustie d’una novella reggenza.


Note

  1. [p. 473 modifica]De Saluces, Hist. milit. du Piémont.