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capo sesto 391


La nettezza della città avrebbe senza dubbio po­tuto contribuire a tener lontano il morbo fatale. Ma chi volesse trasportarsi col pensiero cinque secoli addietro, e considerare qual era la via principale di Dora Grossa, che cominciava poco sopra a San Dalmazzo, e finiva a piazza Castello, avrebbe ve­duto una strada tortuosa, fiancheggiata da case pic­cole ed ineguali, e qua e colà da portici coperti di paglia, avrebbe veduto fra la torre del comune e la chiesuola di S.Gregorio (S. Rocco) i siti ingombri dai banchi immondi delle beccherie, e da quelli ancor più fetenti del mercato dei pesci. Il suolo della strada non selciato, sebbene a qualche palmo sot­terra vi fosse il lastricato romano; e però sempre pieno di fango e di lordure; uscir dalle case nella via i canali dei cessi, prima scoperti, poi coperti di mal connesso tavolato; mandre di porci senza cu­stode vaganti liberamente per la città, alcuni se­gnati col T di messer lo baron S. Antonio, altri col segno dello spedale, epperò privilegiati di poter in­festar la città, anche quando si pose divieto di la­sciar vagare somiglianti animali. Non parlo dei ban­chi posti fuor delle botteghe, e dei padiglioni di­stesi sovr’essi, che impedivano la via già troppo angusta. Nè dell’odore che mandava la fondita del cevo, quantunque il comune prescrivesse all’uno di procedervi di notte, e sotto un buon fornello, agli altri di non fonderlo salvo nella torre Longa.