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394 libro quinto

il che si chiamava sarramento; di cercar nelle case private chi ne tenesse magazzino, ed obbligare il padrone a venderlo, non al giusto prezzo, ma al prezzo che determinava il principe od il comune; e di concedere un premio a chi recasse grano a ven­dere. Così facessi nella fame del 1375, e faceasi in general parlamento dei deputati dei comuni del Piemonte a Pinerolo. Ma il commercio, che campa di libertà, oltraggiato in tante guise, avvinto in quelle pastoie si moriva; il grano non giungeva; crescea la fame. I deputali dei comuni ammaestrati dalla esperienza, si raccolsero di nuovo in generale assemblea, e illuminati da un lampo di vera dot­trina economica, che sventuratamente si dileguò troppo presto, sancirono con autorità del principe che il grano potesse d’allora in poi, ed in perpetuo, introdursi ed esportarsi senza il menomo impedi­mento. A questa risoluzione diè moto l’istanza fat­tane dal comune di Torino, addì 29 d’aprile di quell’anno medesimo.6

Era così incarnata nell’opinion di que’ tempi la necessità delle tasse, che non solo ven era pel pane, pel vino, per la carne, pei pesci; ma per qualun­que opera di qualsivoglia natura era definito il prezzo che se ne dovea pagare. Per agevolare ai campagnuoli il modo di far acconciare gli stromenti aratorii, si facea loro facoltà di pagar il fabbrofer­raio in danaro o in segala. A’ fornai per cuocere uno