Storia di Torino (vol 1)/Libro IV/Capo VI
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Capo Sesto
Cominciò la sua disgrazia dalla peggior di tutte, il disagio di danaro. Dopo il ruinoso papato di Amedeo viii, le minorità, le guerre civili, il gran numero de’ principi dotati d’appannaggio, l’erario non poteva esser fiorente. Quando Carlo iii prese lo scettro, viveano tre duchesse vedove, le quali, secondo lo stile, teneano con ragion di doario o di pension vedovile le migliori terre della monarchia. Bianca, vedova di Carlo i, usufruiva non poche terre in Piemonte, Margarita, vedova di Filiberto ii, la Bressa, parte del paese di Vaud, Faucigny e la contea di Villars; Claudia, vedova di Filippo ii, il Bugey. A questa inoltre, come madre del duca regnante, conveniva dar modo di tener più grande Stato. Inoltre, Luisa di Savoia, figliuola di Giano conte del Genovese, occupava la miglior parte del Ciablese ed alcune terre nel paese di Vaud.
Le rendite ducali giù tanto assottigliate dovettero sopportar nuove spese. Il marchese di Rothelin, conte di Neufchâtel, domandò le doti di Maria di Savoia sua moglie. Dicono le memorie del tempo che chiedea troppo, e non avea ragione. Ma era protetto dagli Svizzeri, e bisognò pagare. Erano gli Svizzeri in fama di terribili soldati; eran forti. Cercavasi a gran prezzo il loro aiuto: ed essi lo vendevano, sia che si trattasse solo d’impaurire od anche di combattere. La casa di Savoia aveva antiche leghe con loro; abbiam veduto e vedremo come mantenesser la fede.
Poco dopo un Fumo, segretario ducale, fabbricò lettere false di supposti crediti di Berna, di Friborgo e d’altri cantoni verso Savoia; essi, armati di quei titoli, domandarono con minacce il pagamento. Invano mandò il duca i suoi ministri a chiarirne la falsità. Bisognava pagare o lasciarsi torre il paese di Vaud. Chi assalta il viandante alla strada non fa peggio. Il duca pagò.
Francesco i, re di Francia, era figliuolo di Luisa, sorella del duca. Avea guerra cogli Svizzeri. Il buon zio, amico di pace, per far servizio al re, quietò le discordie, e trasse que’ popoli a far lega con Francia. La Francia glie ne rendette questa mercede; che tanto poi si travagliò, finché ruppe la lega che Svizzeri aveano con Savoia onde poterne a man salva occupare, come fece più tardi, lo Stato.
Frattanto fu eletto imperatore Carlo Quinto re di Spagna. Morto l’ultimo duca di Milano, Spagna e Francia ne voleano la successione. Il duca di Savoia, posto in mezzo a que’ due grandi monarchi, molto affanno si diede onde metter pace tra loro e non dispiacere a nissuno.1
I suoi ambasciadori si tragittavano dal re all’imperatore, dall’imperatore al papa. E poco frutto olteneano, se non che ambedue si lodavano di lui, e pareano veder volentieri ch’egli si travagliasse e spendesse pe’ loro interessi. Ma intanto gli eserciti dei due forti campioni disertavano il Piemonte. Senza contare gli omicidii, i furti, le depredazioni, le sole spese occorse per le genti spagnuole ed i denari estorti, sommavano nel 1526 alla somma di un milione cinquecento diecimila quattrocento novantasei scudi, secondo la stima fattane da D. Lopez Hurtado de Mendoza commissario imperiale.
Il duca, sposando nel 1522 Beatrice di Portogallo, era divenuto cognato dell’imperatore. Questi, in occasione della sua incoronazione a Bologna, molto aveva accarezzato la bella cognata, e le avea fatto dono della contea d’Asti, stata un tempo posseduta dai Francesi; inoltre il primogenito di Savoia era stato mandato in Spagna ond’essere allevato col primogenito dell’imperatore. Tutte queste cose accesero l’animo del re d’un odio inestinguibile contro allo zio; onde gli domandò Nizza, la Bressa, il Faucigny, Vercelli e varie terre in Piemonte, sulle quali pretendeva d’aver diritto, o come conte di Provenza, o come duca di Milano (che non era, ma voleva essere), o come figliuolo ed erede di Luisa di Savoia. Tutte queste domande erano già prima dallo stesso re state promosse; ma chiaritane l’insussistenza, si era quelato e v’avea anzi per lettere patenti rinunziato. Ora per coglier cagione contro al duca si rimisero in campo. Combattute validamente dai ministri ducali, il presidente Poyet finì per dire essere inutile ogni maggior discussione, tale essendo la risoluta volontà del re; a cui fu risposto egregiamente dal presidente Porporato: Non troviamo tal testo di legge nei nostri libri.
Il re sempre più infellonito, dopo d’aver al duca usalo tutti i mali termini, gli sprezzi, le minute violenze che il forte può usar impunemente contro al debole, mandò nel 1536 un esercito ad occuparne gli Stati, non senza avergli fatto intendere da un Solaro, sire di Moretta, che osò incaricarsi dell’ambasciata: si desse con tutta la famiglia nelle mani del re, rimettendosi al suo clemente arbitrio; il re gli assegnerebbe ampio Stato in Francia, e gli perdonerebbe ogni passata rancura; questa sola via di salvezza rimanergli. Per tutta risposta il duca ordinò all’ambasciatore di ritirarsi, facendogli con severità comprendere, che non faceva in quel momento opera di buon suddito, nè di buon vassallo.
Frattanto gli errori della pretesa riforma aveano invasa gran parte della Svizzera; la città di Ginevra ne fu agevolmente corrotta, e dopo d’essersi fatta dare la borghesia di Berna, si ribellò a Savoia e ne cacciò il vescovo (1535). Il duca avrebbe potuto riaverla facilmente, sol che avesse promesso di lasciarle professare la religion riformata e di tener lontano il vescovo; ma non volle niuno di tali patti, onde fu irremissibilmente perduta.
Quando l’esercito francese s’approssimò, i Bernesi occuparono il paese di Vaud, i Vallesiani il Ciablese. Nel futuro saccheggio della monarchia di Savoia, non voleano que’ buoni antichi alleati rimanere spettatori colle mani vuote. I Francesi non trovarono quasi opposizione. Il tradimento aperse loro le porte di Monmegliano. Fu mandato un corpo di truppe per arrestarli al passo del Moncenisio. Ma giunse che i Francesi erano già calati a Susa. Il duca non area nè genti nè danari; uso a negoziare non a combattere, tardo nel risolvere, come potea resistere alla furia francese? Avvicinandosi l’esercito nemico a Torino, dove s’era appena cominciata qualche opera di fortificazione, il duca chiamati li sindaci della città, espose loro: « Ch’egli per non veder venire il danno che sogliono patire le città prese per forza, si volea partir da loro; che non parendo vi fosse modo da potersi difendere, si accomodassero alle necessità del tempo, senza pregiudicio di sue ragioni; e che, rendendosi il nemico padrone delle facoltà, essi gli riserbassero almeno il cuore ».
Lasciò Torino a’ 27 di marzo. All’indomani giunse alle porte un araldo minacciando ferro e fuoco se non si rendevano. Al primo d’aprile giunse l’esercito nemico ai sobborghi. I cittadini ne diedero avviso al duca che si trovava ancora in S. Germano, ed egli rescrisse: obbedissero alla necessità. Aprirono allora i Torinesi le porte, protestando che non intendevano con ciò di pregiudicar le ragioni del loro principe naturale, nè di pregiudicare la libertà ed i privilegi che aveano. I Francesi entrarono in città addì 2 d’aprile del 1536.
La città di Torino era stata nel 1515 rallegrata dal passaggio festivo ed amichevole di Francesco i che andava all’impresa di Milano (20 d’agosto); poco prima v’era giunto Giuliano de’ Medici, fratello di papa Leone x, futuro sposo di Filiberta, sorella del duca; e nel mese di febbraio eran seguite le illustri nozze. S’era a ciò indotta la casa di Savoia per compiacere all’imperatore e al re di Francia, credendo nel resto d’apparentarsi bassamente, avuto riguardo alle chiare alleanze che era solita contrarre; ma avrebbe mutato opinione se avesse preveduto a qual grandezza per due pontificati e per due matrimonii coi re di Francia, doveva in breve arrivare quella stirpe, i cui membri un secolo, prima usavano il titolo modesto di banchieri della corte romana.
Molte volte radunò Carlo iii i tre stati. L’assemblea si tenne d’ordinario nella città di Torino. Sebbene le pestilenze, le fami, i passaggi devastatori d’eserciti s’avvicendassero per desolare il misero paese, non fallì al buon duca l’aiuto de’ sudditi, sebben per le cause già raccontate sempre inferiore al bisogno. E il duca dal suo canto li contentava nella riforma degli abusi che impedivano il corso della giustizia od aggravavano le riscossioni fiscali, li confermava ne’ loro antichi privilegi; concedeva, fra le altre cose, che pel caso d’indugiato pagamento d’alcuna tassa, non potesse porsi in arresto l’intero consiglio del comune, ma sibbene i soli sindaci e le altre persone deputate alla riscossione. Convennero i tre stati nel 1509, 1514, 1518 a Torino. Nel 1522, a Vigone, in occasione del primo giocondo arrivo della bella ed altiera duchessa Beatrice di Portogallo; nel 1530 a Torino, quando il duca e la duchessa dovean recarsi a Bologna per l’incoronazione di Carlo Quinto; nel 1533 finalmente di nuovo a Torino. Ed importa d’osservare. che non erano quelli gli stati generali della monarchia, ma i soli tre stati della patria cismontana, cioè del Piemonte e dei paesi di nuovo aggregati, esclusa la valle d’Aosta che avea una costuma speciale, e sue particolari adunanze di stati.
La prima cura de’ Francesi, poiché furono padroni di Torino, fu d’afforzar la città sicché potesse resistere ad un assedio che prevedevano imminente. Epperciò cominciarono dall’atterrare i quattro ampi sobborghi che si stendevano fuor delle porte, e che, insigni per chiese e monasteri, abbondanti di popolo e d’edifizii, formavano quasi un’altra città. Poi costrussero bastioni, aggiunsero nuove opere di difesa alle già esistenti, sicché, giungendo poco dopo appiè delle mura il duca di Savoia e Antonio di Leyva con un esercito, la città si trovò forte abbastanza da poter resistere, finché la sconsigliata spedizion di Provenza di Carlo Quinto li obbligò a levar l’assedio.
Con non minore felicità sfuggì. Torino alla sorpresa tentata il 26 di luglio del 1537 dal capitano imperiale Cesare di Napoli, il quale, avvicinale le scale, era già salito co’ suoi compagni sul bastion di S. Giorgio, e già era alla porta per cui si scendeva in città, quando imbarazzandosi nell’aprirla, diè tempo a chi la difendeva d’accorrere, e di respingere gli agressori. Un’altra ingegnosa sorpresa imaginò in febbraio del 1543 lo stesso capitano; e fu di condurre in Torino sei grandi carri coperti in apparenza di fieno, ma dentro stipati di valorosi guerrieri. Due carri erano già entrati da porta Palazzo, quando addatisi i custodi della frode, ed abbassata di repente la saracinesca, vietarono l’ingresso agli altri carri. I soldati che già eran dentro non s’avvilirono; ma sguainati i ferri combatterono sino all’ultimo fiato e caddero da forti.
In febbraio del 1537 il re Francesco adulando nelle sue lettere patenti con abbondanza d’encomii la città di Torino, capitale del Piemonte, la unì ed incorporò in perpetuo alla corona di Francia; confermò tutti i suoi privilegi, e volle che fosse sede d’una corte suprema di giustizia, che si chiamò poi parlamento; d’uno studio generale od università; d’un tribunal supremo demaniale, che si chiamò camera dei conti.
Frattanto le insolenze e le ruberie de’ soldati francesi martoriavano la povera città di Torino, la quale moveva intorno a ciò perenni querele; ma con poco frutto; poiché la disciplina militare, dalle occasioni di battaglia in fuori, era assai rilassata; nè potendo i principi) sempre male agiati di danaro, provvedere in modo che le paghe corressero regolarmente, erano costretti a tollerar disordini per non sollevar sedizioni.
I tre stati cismontani radunati in Torino in ottobre del 1539 rimostravano a monsignor d’Annebault, luogotenente generale in Italia, essere il paese stato costretto a dar le sue derrate per fornimento delle fortezze e piazze del re; non rimaner pane per tutto gennaio; e da ogni lato esservi divieto d’entrarne; morrebber di fame, sé il re non ne faceva condurre di Francia. Delle derrate cedute in’ servizio del re, non aver potuto ottener pagamento; essere stato il paese così calpestato ed angariato dagli Imperiali e dai Francesi, ed oppresso con tante contribuzioni d’olio, legne, candele e capisoldi, che non v’avea più danaro, nè animali, nè roba, e non rimanea altro di salvo che la vita. Essere le castellanie e gli uffizi, quasi tutti in mano di mercatanti e di capitani, i quali aveano la strana pretensione di voler essi medesimi personalmente amministrar la giustizia, cosa troppo aliena dal loro mestiere; lagnavansi ancora gli stati di nuove gabelle imposte, d’abuso nel mercimonio che si faceva delle monete, di violazione de’suoi antichi privilegi, e d’altri mali. Alla maggior parte di tali domande monsignor d’Annebault rispose soavemente, facendo le migliori provvisioni che si poteano in quella necessità.
Morto Francesco i nel 1547, gli succedette il re Arrigo ii, il quale nell’anno seguente, nel mese d’agosto, venne a Torino, e vi dimorò dieci giorni.
Ne’ dodici anni che seguitarono, fino alla pace di Cateau Cambresì, niun successo degno di particolar memoria accadde nella città di Torino, ver la quale i viceré francesi che vi risiedeano, desiderosi di conservarla, si dimostravano piuttosto benigni, dai mali in fuori che le guerre traggono seco, e che allora erano per la poca disciplina de’ soldati assai più gravi.
Era morto frattanto miseramente ed infelicemente, come era vissuto, nella prima ora del giorno 17 d’agosto 1553 in Vercelli Carlo il Buono. Ma l’esercito di Carlo Quinto contava, tra i più valorosi suoi capitani l’unico figliuolo di lui, Emmanuele Filiberto, il quale, educato alla scuola della sventura, tanto profittevole a tutti, ma più ancora ai principi, ridusse a tale estremo la fortuna di Francia alla battaglia di S. Quintino, combattuta il giorno di S. Lorenzo del 1557, che da quel momento la ristaurazione della monarchia di Savoia, sperata tante volte da Carlo iii che leniva con quella imagine le presenti miserie, cessò d’essere un sogno.
In aprile del 1559 la pace di Castel Cambresì, restituì gli Stali aviti al duca Emmanuele Filiberto. Ma Torino fu una delle cinque piazze che i Francesi doveano conservare in Piemonte, finché dal matrimonio del duca di Savoia con madama Margarita, sorella del re, nascesse un figliuolo maschio. Nacque diffatto in gennaio del 1562 Carlo Emmanuele, e in dicembre dell’anno medesimo, non ostante la pertinace resistenza del maresciallo di Bordigliene, che si doleva di veder sfuggire alla Francia le più belle gemme della sua corona, la città di Torino fu renduta al duca di Savoia, suo antico signore, con allegrezza inestimabile de’ cittadini, che prima ancora della restituzione non dissimulavano il desiderio di ridivenire sudditi di Savoia ed Italiani. Ai dodici di dicembre Amedeo Valperga conte di Masino ne pigliò possesso a nome del duca; due giorni dopo giunse improvviso Emmanuele Filiberto e ricevette il giuramento di fedeltà. A’ 7 di febbraio fece la solenne entrata madama Margarita di Francia, duchessa di Savoia, con pompa regia, sotto ad un baldacchino di tela d’oro, portato dalle quattro principali casate di Torino che n’aveano antico privilegio. Non vi mancarono nè gli archi trionfali, nè i canti delle muse, nè compagnie di scelti giovanetti a cavallo, nè ordinanze de’ balestrieri e degli archibugieri. La città offerì graziosi presenti al duca e alla duchessa, ed anche un piccolo toro d’oro al principino di Savoia, e cento scudi alla moglie del presidente Porporato, sua governatrice. Queste allegrezze non furono, come in tanti altri casi, mostrate vane ed inutili dal processo de’ tempi. Erano veramente come si presentiva: auspicium melioris aevi.
Note
- ↑ [p. 326 modifica]Beatrice di Portogallo scrivea più tardi al marito esserle stato detto dai ministri imperiali: Que l’empereur vous tenait pour affectionné envers luy; mais que si vous avyez desliberé vous entretenir envers France, comme avyez faict jusques-cy, que ce vous serait chose bien difficile pour vivre avec tous deulx, sans mescontenter ou l’un ou l’autre, ou tous deux. — Eppure quest’era il sogno di Carlo iii, il quale finì per disgustare il re, e gradir poco all’imperatore.