Storia di Torino (vol 1)/Libro IV/Capo III
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Capo Terzo
Era la città di Torino, come le altre d’Italia, miseramente divisa. Stavano dall’una parte le stirpi dei signori della Rovere, dei Beccuti, dei Borgesi e d’al tri potenti ospizii; dall’altra i Zuna, i Sili, i Biscotti, i Testa, i Cagnazzi, i Grassi, i Marentini, i Crovesi, i Mantelli. Dir che cosa volessero politicamente queste due sette, quali fossero veri Guelfi, quali veri Ghibellini, sarebbe difficile. S’odiavano, e facendosi quel maggior male che poteano, turbavano la quiete e distruggevano quella poca felicità che a quei tempi avrebber potuto godere.
Giovanni Zucca, prevosto della cattedrale, era uno degli uomini più influenti del suo partito. Povero di virtù sacerdotali, abbondava di spiriti mondani, di voglie ambiziose, di turbolenti pensieri. Federigo di Saluzzo, d’accordo col marchese di Monferrato, conoscendolo per uomo acconcio a’ suoi fini, lo chiamò a sè, e guadagnatolo agevolmente colla promessa di un vescovado in Lombardia, si fe’ promettere che gli darebbe una porta della città. Lo Zucca, tornato a Torino, cercò e trovò aderenti tra i Sili, i Zucca, i Testa, i Biscotti e gli altri di sua parte. Enrieto Zucca, suo congiunto, quello fu che recava i messaggi del prevosto a Federigo e ne riportava le risposte. Il principe d’Acaia era all’assedio di S. Giorgio in Canavese, e nelle sue schiere militavano anche le milizie de’ Torinesi. Doveva il prevosto levar rumore nella città e dar una porta ai Saluzzesi. Il principe a tal notizia accorrendo, sarebbe preso in mezzo da due corpi di truppe, e facilmente oppresso. Fallì quella macchina, perchè Filippo all’avvicinarsi delle genti nemiche levò l’assedio, primachè lo Zucca avesse potuto fare scoppiar la congiura. Di nuovo stabilirono Federigo e lo Zucca, che dugento uomini d’arme giungerebbero celatamente alla Madonna di Campagna. Si farebbe un segnale di fuoco a S.ta Margarita. Uomini posti sul campanile della cattedrale dal Zucca, veduto quel segno, darebbero avviso ai congiurati di levar rumore. Con due carri s’abbarrerebbe la via di porta Palazzo.
Aragno, beccaio, con altri suoi pari, romperebbero la porta, e le genti Saluzzesi entrerebbero. S’ucciderebbero poi e si ruberebbero quei cittadini che dispiacessero ai Zucca ed ai Sili, e la terra sarebbe del marchese di Monferrato.
Seguivano questi trattati nei primi giorni di settembre del 1334. Per due volte si recò Enrieto Zucca, con Pietro Silo, e con un frate de’ Biscotti in sulla mezza notte a Sta Maria di Campagna ad aspettar gli uomini d’arme, e non vennero: chè i rumori di Cuneo, e la presa di Villanova aveano stor nato i collegati dall’attendere la fatta promessa. Il prevosto furioso mandò Enrieto a Barge a Federigo a rappresentare che ornai erano pubbliche le trame, e che, se non veniva tosto, potea dirsi che l’avesse avviato per quella strada a solo fin di sgararlo. Enrieto trovò Federigo a Villanova, e gli fe’ l’ambasciata. Il Saluzzese si consigliò col marchese di Monferrato e col siniscalco del re Roberto, e poi rispose, allegando le cagioni per cui non avea potuto prima mandar gli uomini d’arme promessi. Li manderebbe senza fallo il lunedì vegnente in sull’aurora. Andasse a Racconigi e ne informasse prete Giovanni de’ Sili, mandandolo a Torino a ragguagliarne il prevosto. Enrieto andò a Racconigi, ma presso alla terra trovò la via impedita da una barriera. Scese da cavallo per levarla, e fu arrestato da alcuni fanti, che lo condussero a Savigliano.1 Frattanto lunedì, 12 dicembre, in sull’aurora, comparvero presso le mura di Torino le genti d’armi nemiche. Tentò lo Zucca di levar rumore. Ma il vicario era provveduto, le porte ben custodite, i congiurati parte furono presi, parte si salvarono colla fuga. Fu tra questi ultimi il prevosto, che si salvò in Lombardia, e trovò protezione presso l’arcivescovo di Milano. Fatto poi canonico di Novara, ebbe nella pace del 1344, facoltà di tornare a Torino cogli altri fuoruscili. Enrieto Zucca e gli altri presi, furono con varii e crudeli supplizi esterminati. Un Giovanni Mazzocco, nel 1342, fin da Palermo, ove fu arrestato, venne tratto al patibolo a Torino.2 Così procede la giustizia umana. Ma per buona ventura il maggior numero fu di contumaci; ai quali, ed ai loro figliuoli e discendenti, secondo le leggi romane, furono non solo tolti i beni, ma eziandio tolta la capacità di disporre e d’acquistare, affinchè, dice la sentenza, rimangano in perpetua mi seria, e sempre dalla paterna infamia accompagnali, a niun onore pervengano,3 sieno infin tali che stimino la vita supplizio, e alleviamento la morte. Questa condanna si pronunziava contra cinquantacinque principali cittadini; e i ministri del principe andavano a gara d’ottener dalla sua liberalità parte al meno delle suppellettili più preziose de’ giustiziati e de’ contumaci. Ma affrettiamoci a ridire che si riparò in parte a tanti mali colla pace del 6 settembre 1344, ordinata dal principe Giacomo, figliuolo e successor di Filippo, con cui molti de’ fuorusciti non solo ebbero facoltà di tornare e restituzione dei beni, ma furono e col principe e colle altre pria nemiche stirpi dei della Rovere, dei Beccuti e dei Borgesi riconciliati.
Primachè si cominciasse a versare il sangue dei congiurati, Filippo, principe d’Acaia, moriva a Pinerolo addì 25 di settembre di quell’anno medesimo, 1334, lasciando da Catterina di Vienna, sua seconda moglie, e sotto la tutela della medesima, un figliuolo chiamato Giacomo.
Nel 1357, Jacopo era già fuor di tutela e governava da sè. La guerra col re Roberto e co’ suoi colleghi cessava per mediazione del conte Aimone di Savoia. Ma il giovane principe ottimamente conoscea che, in tanto urlo di contrarii interessi, le armi si posavano per poco tempo, e che perciò importava essere almen sicuro in casa sua. Nè poteva esserlo, essendo ogni terra divisa, e non avendo nerbo di forza permanente da reprimere l’audacia delle parti.
Creò Jacopo in luglio dell’anno medesimo questa forza, ordinando che in ciascuna terra si formerebbe una società del popolo con quattro rettori, i quali parteciperebbero al governo. Con ciò instituivà una specie di guardia nazionale, destinata a procurare l’osservanza delle leggi, l’obbedienza a’ magistrati, ad impedir le violenze e le guerre private, ed a vendicarle. Organizzata in tal modo fra la plebe minuta una forza materiale a posta del principe, rivestila del mero impero e partecipante al governo, i grandi ne rimaneano perennemente abbassati, e non poteano piò turbare impunemente la pubblica pace, nè macchinar novità. Nel 1339, rettori della società del popolo in Torino, erano Ardizzone Ainardi, Giraudeto calzolaio, Tomaino Beamondo e Berzano, sarto.4
Cominciava allora in Italia il flagello delle compagnie di Ventura. Piccole bande di venticinque, di cinquanta soldati comandati da un contestabile, che li avea raccolti, fin dal secolo xiii, e sempre forse erano usate prender soldo or da questo or da quel principe o comune e servirlo nelle sue guerre. Ma ornai non era più quistione di piccole ragunate, trattavasi di corpi numerosi di avventurieri Inglesi, Tedeschi, Brettoni, Catalani e d’altre nazioni, che formavano veri eserciti, e non ubbidivano fuorché ai loro capi. Costituivan essi una forza, che; se non sempre pel numero; per la scienza di guerra e per la disciplina, era superiore a quella che ciascuno Stato potea contrapporle. Amici incomodi ed ingordi, saccheggiatori perpetui, era di caro prezzo e di molto pericolosa la loro alleanza. Era da temersi la loro inimicizia. Con danari se ne comprava l’aiuto; con danari se ne allontanava il timore. E intanto l’erario si sviscerava, e il loro passaggio, come quello delle locuste africane, era segnato da un totale disertamento.
In questi tempi appunto, il Canavese era calpestato dalla compagnia d’un Malerba, venuto agli stipendi del marchese di Monferrato. Jacopo d’Acaia e Federigo di Saluzzo, per contrapporre un rimedio uguale al male, vollero crearne una, e acconciatisi coi capi catalani ed aragonesi che erano al servizio del re Roberto, instituirono, nel 1342, la società del Fiore, di trecento barbute e cinquecento briganti. Barbuta era l’uom d’arme a cavallo, con due servienti. Brigandi o briganti chiamavansi i soldati di fanteria. La società del Fiore dovea dunque noverare mille quattrocento uomini all’incirca.5
Per uno dei capitoli organici, come or si direbbe, di quella istituzione, si statuì che i principi darebbero ricovero alla compagnia del Fiore in quattro terre, cioè Torino, Possano, Saluzzo e Cavallermaggiore; che in niun altro luogo potrebbe entrare, salvo in caso di fuga, ma sempre dovrebbe dar il guasto alle terre nemiche ed alloggiarvi. Non è debito nè ufficio di questa storia contar partitamente le imprese del principe d’Acaia, sol perchè il comune di Torino vi pigliasse qualche parte collo spedirvi le sue milizie: accennerò soltanto di volo le cose di maggior momento da lui è da’ suoi successori operate, poiché il narrarle appieno appartiene alla storia de’ principi d’Acaia, a quella della monarchia di Savoia, e il ripeterle in questo luogo sarebbe non solo superfluo, ma vizioso. Morto nel 1343 il re Roberto, caduto lo scettro di Napoli nelle mani d’una donna, risvegliossi la cupidità de’ vicini, e primi a pericolare furono i lontani suoi dominii di Piemonte. Insorsero il marchese Giovanni di Monferrato, Giovanni e Luchino Visconti. Questi ebbe la signoria d’Asti. Quegli vinse i Provenzali al Gamenario, e intendeva a trar profitto dalla vittoria. Jacopo d’Acaia professavasi amico agli Angioini. Ma scorgendo la somma difficoltà di mantenerli in istato, pensò esser miglior partito che le loro spoglie profittassero agli amici che ai nemici, e però, chiamato in aiuto il conte di Savoia, tenero ancora d’anni e sotto tutela, conquistò nel 1347 Chieri, Cherasco, Alba, Mondovì e Cuneo; e ripigliò Savigliano che avea dismessa al re Roberto. Ma di tanti acquisti non poterono i due principi di Savoia conservar altro, per allora, che Chieri e Savigliano.
Nel 1360, la città di Torino e l’intera Piemonte, mutava signore. Eran nate quistioni gravissime tra il principe d’Acaia e Amedeo vi conte di Savoia, suo cugino e suo signor sovrano. Prima causa ne fu l’essere stato Jacopo nella pace del 1349 privato della metà d’Ivrea, che avea sempre goduta prò indiviso col conte di Savoia, e che venne allora aggiudicata al marchese di Monferrato. Non avendone neppur ottenuta indennità, il principe si collegò coi Visconti nel 1356, e ritolse Ivrea al marchese, e nell’anno medesimo, valendosi d’un privilegio ottenuto da Carlo iv, impose nuove gabelle sulle merci che si portavano in Savoia o da Savoia, e con altre offese ferì l’autorità del suo naturai sovrano.
Dopo varii negoziati si venne all’armi. Jacopo contentandosi di star sulle difese, Amedeo vi occupò tutto il Piemonte, del quale il principe fu spogliato per sentenza come fellone. Tre anni rimase privo de’ suoi dominii, ma li riebbe pagando grosse somme a titolo d’indennità di guerra nel 1363.
Jacopo morì in maggio del 1367, e gli ultimi tempi della sua vita furono funestati dalla ribellione di Filippo suo primogenito, il quale, già designato fin dai teneri anni per successor del padre, anzi avendo in tal qualità già ricevuto gli omaggi de’ comuni e de’ baroni del Piemonte, vedea Margarita di Belgioco, sua madrigna e terza moglie di Jacopo, far ogni sforzo per escluderlo dal principato, e vedeva il padre ornai debole e vecchio paratissimo a condiscendervi. Se errore ed ingiustizia vi fu nella con dotta del padre, Filippo s’incaricò egli stesso di giustificarla; sia col levarsi in armi contro di lui, sia colle malvagità e crudeltà d’ogni sorta, da lui e dalle sue genti di ventura che avea accozzate, com messe nelle loro corse furibonde e depredatrici nell’intero Piemonte. Torino, città forte, non ne fu tocca, ma vide disertarsi le sue campagne. Nel 1368, Filippo venne alle mani d’Amedeo vi, e fu giudicato a morte, e probabilmente ucciso secretamente in Avigliana.
Crebbe intanto alla corte di Savoia sotto la tutela d’Amedeo vi, Amedeo principe d’Acaia, col minor fratello Ludovico, ed il conte amministrò per molti anni i loro dominii di Piemonte. Durò tale condizione di cose fino al novembre del 1378, alla quale epoca il principe d’Acaia, ricevuta dal potente cugino l’investitura del suo Stato, venne a pigliarne possesso. In agosto del 1381 Torino vide uno spettacolo di gran dignità e di somma importanza. Il conte Verde, arbitro fra i Genovesi ed i Veneziani, dettava le condizioni d’una pace che fu osservata, e tranquillò l’Europa che trovavasi quasi tutta impacciata in quelle sanguinose ed accanite contese.
Convennero allora a Torino gli ambasciadori di Venezia e di Genova, di Milano, di Padova, del Friuli e d’Ungheria. Aspettavansi anche quelli del re di Cipro, ma non arrivarono.
Amedeo, principe d’Acaia, negoziò lungamente onde riavere il dominio di quella parte della Morea, da cui pigliava il titolo, e che l’avolo suo Filippo avea acquistato pel suo matrimonio con Isabella di Villehardouin; ma mentre si accingeva a corroborare le sue negoziazioni con una spedizione in quelle contrade, fu impedito da varie guerre che gli convenne sostenere ce’ marchesi di Monferrato e di Saluzzo. Al primo tolse Mondovì nel 1396. Al secondo imprigionò il figliuol primogenito nell’aprile del 1394, e lo sostenne in Torino due anni, finché, la morte del padre, chiamandolo alla successione del marchesato, lo dispose a dare egregie somme per ricomperarsi.
La guerra con Monferrato durava da molto tempo. Facino (diminutivo di Bonifacio) Cane, nobile casalasco e celebre capitano di ventura, che, con guerresche fortunate imprese, s’insignorì di molte città e terre, e salì in grande stato, travagliò quasi continuamente il Piemonte dal 1391 al 1404, scorrendo talvolta fino alle porte di Torino; prima operava per proprio conto e per desiderio di preda; poi rotta la guerra tra Monferrato ed Acaia, come soldato del marchese.6 Egli venne in novembre del 1396 fin sotto le mura di Torino. Nel febbraio seguente ne arse i molini; e di nuovo nell’aprile stava su questo territorio a guastare e saccheggiare. Varii soldati di ventura della sua banda furono pigliati presso al ponte di Po, e furono calali nella torre di Porta Susina, dove con una fune si somministrava loro lo scarso cibo sufficiente a tenerli vivi. Gli omicidi, le ruberie da loro commesse ricideano ogni speranza di mercede, e già s’erano rizzate a Pozzo di Strada le forche per appiccarli, quando con miglior consiglio furono distribuiti a que’ cittadini che aveano qualche congiunto nelle mani di Facino Cane.7 A cessar quello strazio di guerra si pose avanti per mediatore Gian Galeazzo Visconti, chiamato il Conte di Virtù. Fu accettato dalle parti qual arbitro. Ma avendo egli, fra le altre cose, nel suo lodo del 1398, mandato eseguirsi un diploma dell’imperator Venceslao, che concedeva, non so con qual dritto, al marchese di Monferrato l’investitura di Torino e di Collegno, il principe non s’acquetò a quella sentenza; si fece nuovo compromesso nel conte di Savoia, e mentre egli soprastava a pronunziare, il principe d’Acaia morì di soli anni 38 addì 7 di maggio 1402. Non avendo dal suo matrimonio con Catterina di Ginevra lasciato altro che due figlie, gli succedette il minor fratello Ludovico. Questi, dando la propria figliuola Margarita (la beata) al marchese Teodoro di Monferrato, ebbe agevolezza di comporre le quistioni che vertivano fra i due Stati; se non per via definitiva, almeno con una tregua d’anni dieci, duranti i quali, Mondovì e le altre terre conquistate in quella provincia dal principe Amedeo, doveano tenersi in comune. Ripullularono più tardi le discordie, e più volte si provò vanamente a quetarle l’industria d’Ame deo vili. Fatta la pace, ricominciava la guerra; interrotta da tregue, da negoziazioni, da compromessi. Conchiusa poi nel 1411 durevol pace con Monferrato, nacque guerra col marchese di Saluzzo.
Ludovico si segnalò alla memoria ed alla riconoscenza de’ posteri col fondare uno studio generale nella città di Torino. Diremo a luogo più opportuno come e quando ciò avvenisse.
Chiuso il concilio di Costanza, passarono pel Piemonte, e fecer dimora in Torino l’imperador Sigismondo e papa Martino v, dai quali ebbe il principe favori e dimostrazioni d’affetto. Poco dopo in questa stessa città infermò egli gravemente, e morì addì 6 di dicembre del 1418. Il suo corpo fu portato ai 14 dello stesso mese e sepolto a Pinerolo. Nò avendo egli avuto prole da Bona di Savoia sua moglie, il Piemonte tornò alla linea regnante di Savoia, ricco de’ nuovi acquisti che i principi d’Acaia in centoventiquattr’anni di signoria erano andati facendo.
Note
- ↑ [p. 295 modifica]Datta, Storia de’ principi d’Acaia, ii, 131.
- ↑ [p. 295 modifica]A’ 3 di luglio il consiglio provvede De dando adjutorium ad habendum Johannem Marzochum prodictorem de Taurino, qui captue est apud Palermum. Lib. Cons. civ. Taur.
- ↑ [p. 295 modifica]E perciò non s’ammetteano i figliuoli de’ banditi e traditori alle scuole. In settembre del 1335, nel concedere le scuole di Torino a maestro Guglielmo, di Bene inferiore, si dichiarò: quod quilibet scolorii undique possit venire salve et secure ad scolai ipsius, et itare in Taurino, non obstantibus aliquibus represaliis et cambilis, vel atiis quibuscumque: exceptis bannitis, prodiloribus et eorum filiis. Lib. Cons. civ. Taur., nell’Archivio della città.
- ↑ [p. 295 modifica]Lib. Cons.
- ↑ [p. 295 modifica]Vedi i curiosi particolari di questa fondazione nella Storia della monarchia di Savoia, iii, 83.
- ↑ [p. 295 modifica]Tenivelli, Biografia Piem., Decade iii, 117.
- ↑ [p. 295 modifica]Conti del Chiavarii di Torino.