Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro settimo/Capo terzo

Libro settimo - Capo terzo

../Capo secondo ../Capo quarto IncludiIntestazione 18 luglio 2024 75% Da definire

Libro settimo - Capo secondo Libro settimo - Capo quarto
[p. 20 modifica]

CAPO TERZO

(Dall’anno 1638 al 1648.)

I. Storia della terra di Sambatello, feudo della città di Reggio. II. Quistioni tra i Canonici ed i Preti della Cattedrale. III. Sollevazione di Masaniello. Il Governatore di Reggio Gil de los Arcos. Malumori de’ Reggini. Contese tra questi cittadini ed i Mottigiani. Sedizione de’ villani di Sasperato. IV. Continua la sedizione. I villani entrano armati nella città, ed assaltano il palazzo del Governatore. L’Arcivescovo s’interpone a conciliar le cose. Tumulto di Reggio. V. I sollevati ammazzano Pietro Zunica: altri eccessi a cui vanno. Sforzi vani dell’Arcivescovo per calmar la pubblica irritazione. Il tumulto si rinciprignisce. VI. Pratiche del Governatore per aver soldati da Messina. Il tumulto si accresce; ed i Reggini si mettono a battere il Castello. Sono sedati dall’Arcivescovo. I Sindaci Fabrizio Plutino e Placido Milea.


I. Parte integrale del territorio demaniale di Reggio era la terra di Sambatello, la quale godeva di tutti i privilegi ed immunità della citta medesima. L’anno 1638, trovandosi il regio erario esausto di danaro, tra le altre escogitazioni a procacciarne trovò di vender la terra di Sambatello e suoi casali Santa Domenica, San Giovanni, San Biagio, e Diminniti al duca di Bruzzano per ducati cinquantadue mila, riservando però nello strumento di vendita alla città di Reggio tutte le ragioni che potessero spettarle, qualora ella volesse tener per se quella terra, ed entrar pagatrice. Questo fatto del governo moltissimo increbbe a’ Reggini, che non potevano veder quella contrada (ove avevano tante possidenze) tramutarsi dal regio demanio all’oppressione baronale. E levarono tale strepito, e tanto si richiamarono di tal vendita al Vicerè, che il duca di Bruzzano videsi costretto a ceder la terra comprata alla città di Reggio, la quale ne rimase posseditrice, e si obbligò di rimborsare al detto duca, dal diciannove novembre del 1639 a tutto aprile dell’anno appresso, la somma de’ cinquantadue mila ducati. Sagrifizio grave, e quasi incredibile; ma pur fatto allora assai volentieri dall’unanime volontà de Reggini: essendochè Sambatello co’ casali anzidetti formasse una Baronia, e perciò la città di Reggio fu costituita Baronessa di Sambatello. Ma siccome su’ majoraschi v’era la devoluzione al Fisco, nel caso di estinzione della famiglia che godeva il possesso del feudo, così bisognò intestare ad un privato cittadino la detta Baronia, che personificasse virtualmente la città per gli effetti della legge. Perciocchè non potendo la città morire, non avrebbe mai potuto verificarsi la devoluzione al Fisco. Onde, cosa [p. 21 modifica]curiosa, il nome di barone di Sambatello fu intestato a mastro Simone Siclari reggino, che aveva una buona infilzata di figli maschi.

Una delle condizioni della vendita era, che essendo questa fatta per mille fuochi, dovesse la città pagare alla regia Corte l’aumento di essi, alla ragione di ducati cinquantadue per ogni fuoco, se mai tale aumento si trovasse effettivo nel primo general censimento a farsi. Ma qualora essi risultassero in meno, dovesse la città pagar sempre per mille. Tal censimento fu fatto nell’anno seguente, e ne seguì una giunta di duecento cinque fuochi a carico dei Reggini; il che faceva che montasse a ducati diecimila seicento sessanta la somma che la città doveva soprappagare al governo. In questo stesso tempo Napoli aveva fatta promissione di un ricchissimo donativo al Sovrano; e come era costume che tutto il Regno in tali casi restasse tenuto a contribuirvi, Reggio fu tassata per sua porzione in ducati diciannovemila trecentodue e grana quattro. La qual somma, unita a’ ducati diecimila seicento sessanta, faceva ascendere il debito della città alla gravosa cifra di ducati ventinove mila novecento sessantadue e grana quattro. Ma trovandosi allora Reggio esausta di danaro per gli straordinarii pagamenti, che in sì breve tempo dovette fare al duca di Bruzzano; e dall’altra parte venendo pressata dal regio fisco alla soluzione del nuovo debito, questo non era ancor soddisfatto sino all’anno 1649. Laonde fu messo il sequestro alla baronia di Sambatello, la quale jure pignoris et hypotecae rimase nelle unghie fiscali. Così la città veniva spogliata di nuovo del suo feudo, il cui racquisto le era costato così caro, e Sambatello venne ceduta per lo stesso prezzo al principe di Ascoli Giuseppe de Leyva, verso cui la Corte aveva un debito di trentamila ducati. Cessione però che fu fatta dal governo contro il parere della regia Camera, la quale scorgeva lesi e disconosciuti così ingiustamente i diritti della reggina università. Dal principe di Ascoli fu tal feudo destinato al Pio Monte di Napoli, da lui detto Monte Ascoli, collo stesso titolo onde il teneva, cioè per diritto di pegno e d’ipoteca.

Se la città avesse avuti accurati e caldi difensori ed amministratori a tempo opportuno, avrebbe potuto racquistare agevolmente il suo diritto; giacchè tutti gli arretrati del donativo erano stati rilasciati dal re Filippo IV a’ suoi sudditi. Ma a questo non si seppe aver mente, o non si volle; ed intanto il duca di Bruzzano, che non aveva potuto inghiottire di vedersi sdrucciolar dalle mani la baronia di Sambatello, cercò di mettervi di nuovo le unghie, e gli riuscì di averla in affitto dagli amministratori del Monte Ascoli per [p. 22 modifica]la tenue somma annuale di ducati mille e cinquanta. Venendo poi il Monte a decadenza, cedette dopo dodici anni tutte le sue ragioni al duca, il quale pagò agli amministratori di quello la somma dovutagli dalla città di Reggio, e così restò egli creditore di lei. Ma erano però tali gli arretrati, di che il duca rimaneva debitore al Monte, che assorbivano gran parte del credito.

Certo è che la terra di Sambatello e suoi casali prima dell’anno 1638 non era stata mai baronale, ma sempre sotto la giurisdizione del Governatore di Reggio. E questa città ebbe la strana sciagura di dover perdere una parte integrale del suo territorio, di doverla poi riscattare coll’enorme pagamento di ducati cinquantadue mila, e di vedersene in ultimo non solo privata, ma dichiarata debitrice di altri ducali ventinove mila novecento sessantadue verso il regio governo.

Intorno a ciò Reggio non fece che vane querimonie, ma niun richiamo energico, ragionato e perseverante a sperimentare il suo diritto. Imperciocchè i maggiori e più influenti cittadini, tutti accaneggiati a contrastarsi il possesso delle cariche municipali, nulla curavansi de’ comuni interessi della patria loro. Nel 1770 nondimeno, ad esortazione del nobil cittadino Gregorio Palestino i sindaci Fabrizio Sacco, Paolo Orangi, e Domenico Costantino s’indussero a rinfrescar la quistione presso il governo del Vicerè. A qual uopo il medesimo Palestino scrisse una chiara e verace esposizione del fatto; e s’introdusse la causa presso la regia Camera della Sommaria addì ventotto aprile del 1770. La qual Camera fu di avviso che allora Reggio potesse ricuperar Sambatello quando pagasse la somma de’ ducati ventinove mila novecento sessantadue; nè alcuna ragione valse a storcere il governo da tal sentenza. Niente perciò se n’era concluso sino al 1781; ma sopravvenuti poi gli spaventevoli terremoti del 1783, questa pubblica sventura fece che la quistione di Sambatello fosse dimenticala per allora e per sempre.

II. Or narreremo una quistione d’altro genere. Una mattina dell’aprile del 1644 i vecchi sedili del Coro della Cattedrale si trovaron tolti, e cambiati in nuovi, disposti in altra forma. Secondo la forma antica, a destra ed a sinistra erano due tavolati orizzontali e paralleli, alti un solo gradino dal pavimento; sopra ciascuno dei quali correva un pancato, ove dopo le Dignità sedevano alla mescolata e Canonici e Preti, cominciando da su ad aver sedia il Decano in cornu Epistolae, e così gli altri via via. Colla nuova forma i sedili del Capitolo e delle Dignità si posarono in più alto luogo che il solito, e quelli del Clero più a basso, attribuendo a’ Canonici [p. 23 modifica]una prerogativa che mai non ebbero per l’addietro. Contro queste novità i Preti cominciarono gravemente ad esclamare al Decano Carlo Gaetano; e la loro irritazione giunse a tal segno, che nello stesso Coro si presero co’ Canonici, e con grande scandalo della gente trascorsero a zuffa sanguinosa. Da ultimo il Decano, che per l’indole sua untissima e virtuosa, era amato e riverito dal Clero, temperò in modo la cosa, che i Canonici seder dovessero nel nuovo pancato superiore dall’una e dall’altra parte, l’un dopo l’altro secondo la loro anzianità, e dopo l’ultimo Canonico continuar dovessero i Preti sinchè bastasse il luogo, ed i rimanenti seguissero a sedere nel pancato inferiore. Propose altresì che i Canonici ammettessero i Preti, come prima, alle quotidiane distribuzioni corali, dalle quali ne’ nuovi sedili erano stati esclusi. Ma il Capitolo, eccetto i canonici Antonio Canizoni e Lelio Furnari che votarono favorevolmente, non volle compiacere al Decano circa tale ammissione. Nondimeno fu per allora posto modo agli scandali, ed i Preti fatti d’opinione più temperata, si quietarono.

III. Queste erano picciole cose; ora entreremo a discorrere di commozioni gravissime, che fecero andare in fiamme il Reame tulio quanto (1647). Gravi sconvolgimenti politici erano già avvenuti in Europa. In Inghilterra Carlo I era prigioniero, e chiuso in Hampton-Court; il popolo si era sollevato in Francia contro il Cardinal Mazzarino; la monarchia spagnuola si andava spezzando. Dalla quale si eran già divelte le Fiandre con eroica perseveranza, e mutate in repubblica; i Portoghesi ne avevano scosso il giogo anch’essi; e nella stessa Catalogna la rivoluzione era divampata in gran modo. Una sedizione era già scoppiata in Sicilia; e la sollevazione di Masaniello in Napoli, cominciata da piccioli moti, aveva preso gran campo, e diveniva incendio inestinguibile. Alle commozioni napolitane dava soffio ed incitamento la Francia, ed in tutte le Provincie era una effervescenza meravigliosa. Perocchè queste, concitate da’ casi di Napoli, per ogni picciol pretesto correvano a’ tumulti, ed alle armi.

Era di que’ dì Governatore di Reggio Gil De los Arcos, la cui pessima amministrazione avea già dato luogo a fortissime rimostranze de’ cittadini contro di lui. Ed il Padre Silvestro Politi dell’ordine de’ Predicatori era stato inviato dalla città al vicerè Duca d’Arcos, perchè esponendo i gravami di Reggio, ottenesse che il De los Arcos fosse rimosso. E tanto fece e disse il Politi che superando tutte le premure contrarie, spuntò che fosse spedito un nuovo Governatore. Ma intanto le perturbazioni di Napoli erano venute ad affievo[p. 24 modifica]lire e sospendere l’azione governativa, e non si fece più caso della rimozione del Governatore di Reggio.

Non ignorava costui le istanze che la città avea fatte per mandarlo via, e confidando nella molta protezione che aveva in Corte, in vece di far modo alle sue malvagità e prepotenze, ognor più imperversava a danno de’ cittadini. E giunse a riferire al regio governo che Reggio già da più mesi era in umore di ribellarsi, al che non aspettava che il destro. E per dar faccia di verità alle sue assertive mostrava un continuo sospetto di prossima sollevazione, e si metteva in riguardo. Anzi un bel dì, tutto ad un tempo, fece chiuder le porte della città, non lasciandone aperta che una sola, per la quale dovesse entrare ed uscir la gente, con non ordinario incomodo e disturbo de’ cittadini e de’ foresi, che per loro faccende, e per lo scambio dei traffichi andavano e venivano. Possedeva Reggio in virtù dei suoi antichi privilegi un territorio detto San Noceto, che confinava colla Motta San Giovanni. Di questo territorio eransi impadroniti i Mottigiani, nè il restituirono a Reggini che dopo molti contrasti, e per ordine del Vicerè. Ma i Mottigiani, quantunque avessero accomodati alla necessità i consigli loro, tenevano a mente lo scacco, e meditavano di rifarsene a tempo più proprio. Intanto per questa ricuperazione gli abitanti di Sasperato casale di Reggio, che avevano poderi nel territorio di San Noceto, fecero le loro seminagioni alla stagione conveniente, entrandovi ed uscendo a bell’agio, avendo per fermo che non ne sarebbero più molestati come per lo passato.

Ma il duca di Bagnara Carlo Ruffo, novello signore della Motta San Giovanni, non volle riconoscere a’ Reggini il riacquisto di San Noceto, ed ordinò quindi a’ Mottigiani che con ogni mezzo, anche colle armi, impedissero a’ nostri l’entrata in quel territorio. Onde seguitò, che que’ di Sasperato fossero al continuo alle prese co’ Mottigiani; nè la città intanto pensava modo a garentire il suo diritto. Correva il sesto giorno del 1648 quando taluni di Sasperato, trovandosi sul territorio di San Noceto furon presi a fucilate da’ Mottigiani per ordine dello stesso duca, e poco meno che non restarono uccisi. La qual cosa rapportata a’ loro compaesani, tutti vennero in tale irritazione e bramosia di vendetta, che fecero proposito di coglier tempo a metter le mani o sul duca di Bagnara, o sopra alcuno de’ suoi fratelli, ch’erano principali incitatori a quelle odiose baruffe. Nè l’occasione fece aspettarsi gran pezza, mentre il dì undecimo del suddetto mese seppero que’ di Sasperato che Vincenzo Ruffo fratello del duca era in Reggio; ed aspettato che uscisse della città, un cento villani circa presero le armi, e gli corsero alle calcagna. [p. 25 modifica]Di che avuto egli sentore in buon punto, si mise in salvo nella chiesa di San Giorgio extra moenia in contrada Calopinaci, dove fu strettamente attorniato da quella gente inviperita. Saputosi l’accaduto dal Governatore, fu sollecito a conferirsi ivi colla sua gente, ma vedendo quanto que’ di Sasperato fossero ciechi di collera, ed ardevano di averne vendetta, non credette di doverli inasprire più di quel ch’erano, e si tenne da lungi. Ma l’Arcivescovo Gaspare Creales, spinto da quella prudenza e carità evangelica che mansuefà l’umana belva, ed ammaestra i credenti al perdono ed all’amore scambievole, si avviò celeremente a quella chiesa. E quantunque que’ foresi lo scongiurassero che li lasciasse fare, e non passasse oltre, egli non desistette per questo, e tanto li venne raumiliando con amorevoli parole, che tornò in loro potente la riverenza che gli portavano come a degno e virtuoso ministro di Dio. Laonde lasciaronsi per bel modo ammorbidire, e si ritrassero dalla chiesa non dando al Ruffo altre molestie. L’Arcivescovo però promise loro che terrebbe quel signore in poter suo e nel suo palagio sino a che le cose di San Noceto non fossero convenevolmente aggiustate; e che si prenderebbe e’ medesimo l’assunto d’ultimar la controversia come meglio si addiceva a’ loro interessi. E perciò li esortava che la prossima Domenica dovessero recarsi al suo palagio, sotto la garanzia della sua sacra parola, per trattar co’ Mottigiani, co’ quali medesimamente aveva fatto convegno che vi andassero.

Dopo ciò l’Arcivescovo ed il Ruffo si ritirarono in città, ed i villani alle lor case. Il Governatore ed i Sindaci, che aspettavano l’Arcivescovo, seppero da lui l’accordo fatto, e la ferma speranza che tutto si sarebbe conciliato senza ulteriori contrasti e collisioni. Entrò il Ruffo nel palagio arcivescovile mezzo morto ancora dello spavento, e si ebbe tutti que’ conforti che potette meglio desiderare; ivi aspettando che fosse venuta la domenica a dar sesto alla cosa.

IV. Venuta la domenica, i villani di Sasperato giusta il convenuto scesero in città, ma temendo di qualche insidia da parte del Duca e de’ Mottigiani, vi vennero ben armati in numero di meglio che quattrocento; de’ quali entrati nella città una quindicina per andare all’Arcivescovo, gli altri si fermarono nel borgo, pronti ad ogni bisogno e contrattempo. Il Governatore, avuta spia dell’entrata in città di que’ di Sasperato, mettendo in non cale la sacra parola di guarentigia data loro dal Prelato, uscì con dodici de’ suoi scherani, ed incontratosi con quattro de’ Sasperatesi, che senza sospetto erano a mangiare in una bettola, prima li trapazzò con in[p. 26 modifica]giurie e bastonate; e poi ordinò a’ suoi che li menassero presi; ed in fatti ne sostennero due. Gli altri due, sfuggiti dalle loro mani, si diedero alla fuga, gridando tradimento, tradimento con quanto n’avevano in gola. Intesa questa perfidia dagli altri compagni, taluni si ricoverarono nella chiesa, e tali altri, uscendo a precipizio della città. narrarono il tradimento a’ compagni che fuori li aspettavano.

Quanto di ciò sieno rimasti irritati que’ villani, ognuno sel pensi. Tutti uniti entrarono con impeto nella città, e gridando tradimento corsero contro il Governatore, e trovatolo nel suo palagio presso il Convento del Carmine gli si gittarono contro. Egli aveva cercato svignarsela, ma non gli venne fatto; e fu colto. Nondimeno in vece di trapazzarlo e di svillaneggiarlo, come qualcuno avrebbe voluto, i più gli si presentarono a capo scoperto, solo domandandogli ordinasse che fossero liberati i due lor compagni; dopo di che sarebbero usciti di città senza dar molestia a persona. Ma il Governatore, stimando timore la loro umiltà, lungi dal rilasciar loro i due ch’eran presi, si porse asprissimo, e li rampognò del mal tratto che nei passati giorni osaron fare al Ruffo, e disse che gliel’avrebbero pagata di mala maniera. I Saspcratesi, ad onta del malpiglio del Governatore, non vollero trascorrer di botto ad altri più gravi passi, ma contentaronsi di riferire all’Arcivescovo quanto in quel momento avveniva. Questi, ch’era già indignatissimo contro il Governatore per la mancatagli fede, spedì tosto a lui un Canonico, per esortarlo che subito dovesse liberar que’ due ingiustamente sostenuti; e se nol facesse, protestava che avrebbe a lui imputati i danni e le sanguinose conseguenze che avvenir ne potrebbero. Furono scarcerati alfine, ma dopo molto contrasto e durezza.

Intanto que’ di Sasperato, quando videro che i loro compagni tardavano ad esser rimandati liberi, si sparsero per la città, e narrando il mal animo del Governatore, eccitavano i cittadini ad unirsi loro per levar di terra un malvagio che tanto ed in sì varie guise li travagliava. Da questi stimoli derivò una straordinaria effervescenza in una gran parie di cittadini; la quale mal contenta del presente, e desiderosa di meglio, accolse con fervore l’occasione di far tumulti e mutamenti. Aggiungi che gli avvenimenti di Napoli avevano già sollevato l’umor popolare, sì che la poca favilla era per secondare una gran fiamma. In quel che i due villani venivan tratti dal carcere, tutti i più ardenti, a cui pareva venuta l’ora, o non seppero, o fecero finta di non sapere la liberazione di que’ due. Onde il popolo si sollevò d’un senso, e mettendo a rumor la città corse [p. 27 modifica]furioso alle prigioni, e rotte le porte mise in libertà i detenuti, i quali, congiuntisi co’ sediziosi, al primo fecero impeto nelle case di quelle nobili famiglie, ch’erano più odiate dal popolo. A che il Governatore, in vece di porre vigoroso riparo, e di sperder colla forza i ribelli, si chiuse e fortificò in casa propria, e lasciò alla lor balìa la città. Cresceva frattanto la rivolta, e pigliava gran forma; e già si era posto mano al fuoco ed alla rapina contro le case de’ ricchi e dei Sindaci, della cui amministrazione erano in ispecialtà malcontenti i popolani. Ma l’Arcivescovo, che avea trovato rimedio al primo danno, accorse senza indugio a mitigare i sollevati, e mostrar quanto possa, anche sugli animi irritatissimi e fuor di cervello, il sentimento religioso, ed il rispetto verso gli uomini veramente virtuosi. Uscito di palagio in compagnia di alcuni nobili e Canonici, senza altre armi che la sua sacra dignità, senz’altro potere che la sua carità ardentissima, corse ove più la sollevazione ferveva, con quella calma e fiducia che ispira il sentimento cristiano, e pregando e persuadendo e minacciando, fecesi a dimostrare a quella sciolta moltitudine quanto grave offesa recasse all’ordine pubblico, alle leggi, al Sovrano, ed a quanto pericolo e perdizione sarebbe per condurre i cittadini quel movimento inconsiderato e biasimevole. E gli animi popolari furono così vinti dalle esortazioni e persuasioni del venerando Prelato, che posero fine al tumulto; e come per incanto i cittadini tornarono mansuetissimi alle case loro; ed i contadini usciron di città quietamente.

V. Ma quella non fu che passaggiera calma, ed assai rado addiviene che l’acceso incendio si spenga prima di aver divorato molta materia. Il fuoco era rimasto compresso sotto la cenere, e di nuovo avvampò: di nuovo scesero i contadini, ed in maggior numero in città, chiamativi da tutti que’ cittadini, che volevano spingere la combustione popolare all’effetto de’ loro disegni, ed alle ultime conseguenze. A grosse bande, con impeto e furia irresistibile formicarono armati per le vie della città, e si scagliarono dapprima alla casa di Pietro Zunica segretario del Governatore; uomo tanto ignorante quanto malvagio, ed a tutti odiosissimo. Entrativi ciechi di rabbia, gli tolsero la vita e la roba, e diedero la casa alle fiamme. Fecero poi forza al palagio di Diego Strozzi, ricchissimo e nobilissimo uomo, e ne involarono molta parte delle sue ricche suppellettili; ma non gli fecero male alla persona. Così praticarono contro altre case, così contro quelle de’ Sindaci; alle quali si sarebbe anche dato il guasto ed il fuoco, se alcuni fra gli stessi sollevati non avessero frenate tante eccedenze. [p. 28 modifica]

Dopo ciò, corsero accalcati e violenti contro la casa del Governatore, il quale vi si stava chiuso e sull’avviso. E quando furono ivi presso, uscì una fucilata da una delle finestre, ed uccise un di loro; a questa seguì un’altra, ma senza recar danno ad alcuno. Della qual cosa arrabbiati i sediziosi, tra i quali erano Giuseppe Tigani, Francesco Diano Parisio, e Mastro Ottavio Filocamo, assaltarono di viva forza il palagio, ne ruppero le porte, ed entrativi, corsero ad arrestare il Governatore che volendo far resistenza, si ebbe una leggiera ferita. Cadde alfine nelle loro mani, e per fargli villania lo chiusero nel più sozzo luogo della casa, non con animo di ucciderlo, ma di sostenerlo, e di fargli trapazzi. Poi per custodirlo con maggior cautela, e persuasine anche dall’Arcivescovo, lo trasferirono nelle carceri arcivescovili. E tuttochè egli avesse voluto allora far dell’ardito, dicendo male parole a quanti gli stavan presso (de’quali taluni avrebbero voluto finirla con segargli la strozza) nondimeno i più il lasciavano dire, e guardavano che altri non gli facesse alcun male.

Come seppe il Prelato i nuovi fatti, n’ebbe un dolore grandissimo, e volendo coll’imponenza della religione vincer la pertinace audacia de’ ribelli, egli ed il suo Vicario generale col Capitolo e Clero uscirono immediatamente in processione per le vie della città, ed andarono all’incontro de’ sollevati, i quali, seco traendo il Governatore per chiuderlo nelle carceri arcivescovili, si erano dirizzati a quella volta. Ma come videro l’Arcivescovo in quella sacra attitudine, riverenti deposero il prigioniero nella sua potestà, narrandogli che a tal fatto aveva dato istigazione e’ medesimo coll’uccidere un di loro dalla finestra del suo palagio. E l’Arcivescovo, per sottrarlo come più presto poteva alle lor mani, seco il condusse, e tennelo in sua casa con gran vigilanza e rispetto.

Era tuttavia nel palagio arcivescovile Vincenzo Ruffo, il quale non avea ancor creduto prudente consiglio l’uscirsene, per non aver qualche altro mal garbo: ed ora, vedendo che le cose in vece di sedarsi, si aggravavano, espresse all’Arcivescovo il desiderio di ritirarsi nel Castello, dove poteva star più sicuro; ed ove pure era per ritirarsi il Governatore per sua maggior sicurtà. Da ciò li dissuadeva l’Arcivescovo; ma quando ve li vide determinati, feceli uscir del palagio per la postierla che dava nel giardino, ed accompagnar sino al Castello. Donde dopo la mezza notte il Ruffo uscì occultamente, e s’imbarcò per Messina. Considerava intanto l’Arcivescovo, conferendo co’ Canonici e co’ nobili più influenti e ben veduti presso il popolo, qual fosse il rimedio al male presente, e quale a [p. 29 modifica]prevenire il futuro male. E soprattutto reputò lodevol consiglio chiamar subito appresso di sè alcuni tra i più potenti popolani, interrogarli qual fosse il loro scopo, e provvedervi senz’altro ritardo. E venuti a lui, gli manifestarono che il loro sdegno era innanzi tutto contro il mal governo de’ Sindaci e dei nobili, che aveano nelle lor mani la somma della cosa pubblica, e ne disponevano ad arbitrio, e coll’oppressione de’ più. Non essere altro rimedio a’ pubblici mali che chiamare anche il popolo a parte del governo. Il che inteso da Monsignore, sebbene non tenesse per vero quanto asserivano, ma come un pretesto di colorire il loro proposito, rispose loro che avevano ragione, e che giusti erano i loro lamenti; ma che intanto bisognava che non bruttassero la causa loro con rapine, con violenze e con minacce contro l’università de’ cittadini, che colpa alcuna non avevano, e che nondimeno già sentivano pesar su di loro gran parte degli effetti di quella rivolta. Li persuase quindi che la vegnente notte parte di loro stessi vigilassero al buon ordine della città, e tutti gli altri, per non recar confusione, si ritirassero nella Cattedrale, e non ne uscissero che la mattina seguente: al che, sebbene con gran difficoltà, finalmente aderirono i sollevati. E lo stesso Arcivescovo, per tenerli a bada, stette con loro in chiesa tutta quella notte, dando loro molte parole di affetto, e savii consigli. Colla quale avveduta desterità risparmiò la città dal guasto inevitabile, che tanta sfrenata moltitudine di popolo avrebbele recato nella notte che venne.

Ma fattosi giorno il tumulto ricominciò, ad onta degli sforzi del Prelato per impedirlo. Imperciocchè altri duecento villani scesero da’ casali, e s’unirono a’ Sasperatesi ed a’ cittadini malcontenti, e gittaronsi alla casa di Francesco Spanò ch’era uno de’ Sindaci, saccheggiandola per ogni verso. Ma nel dividersi tra loro la roba, vennero prima alle ingiurie, poi alle busse, e due di loro restarono uccisi. In tal mentre molta altra gente soprarrivava dalle altre vicine terre, fra cui circa duecento erano calati da Santo Stefano, e volevano aprirsi l’ingresso per la porta Mesa. Ma l’Arcivescovo, indefesso a preservar la città dall’eccidio della guerra civile, indusse i sediziosi a chiuder le porte, perchè altra gente non vi entrasse. Non si stancava medesimamente di esortarli a star quieti, ed a tornare alle case loro, promettendo sulla sua parola ch’egli si adoprerebbe per loro bene ad ottener che il governo della città fosse mutato; che fosse introdotto nuovo e miglior ordine di cose; e che sarebbe ridotto il prezzo del grano, vino, olio, pane, come essi volevano. Prometteva inoltre di far sì che i Mottigiani, prima radice di tanti pubblici danni, fossero ridotti al dovere. Ed i villani tra per il ri[p. 30 modifica]spetto e l’amore che portavano all’egregio Prelato, e per non condurre le cose agli estremi, uscirono della città, ed alle lor case fecero ritorno.

Mentre che queste cose succedevano nella città, il Governatore chiuso nel Castello tenea pratiche con Vincenzo Ruffo in Messina, a cui inviò un Pietro Gongora, perchè esponesse al Senato di quella città, che essendo Reggio in rivoluzione egli avea bisogno di qualche soccorso di soldati, e desiderava che gli fossero inviati da Messina. Poichè que’ pochi fanti ch’eran di presidio al Castello di Reggio, erano stati chiamati in Napoli nella sollevazione di Masaniello; sì che non solo Reggio, ma tutte le altre città del Regno rimasero per tal causa sguernite di soldati. Ma il Senato se ne scusò dicendo non aver gente soverchia da darne altrui; e tanto più se ne scusò, sapendo che Reggio, per tramezzo dell’Arcivescovo, era rientrata nella consueta tranquillità. Dopo tal rifiuto, il Governatore chiese sussidii al castellano del Salvatore, ma costui nemmeno gli diede retta: poi ne chiese anche al castellano di Mottagrifone, il quale, alle ripetute istanze, gli mandò ventisette uomini, e molte vettovaglie, che di nottetempo furono introdotti nel Castello di Reggio. Ma ne avvenne che le sacca de’ biscotti non essendo ben legate, ne caddero non pochi sul terreno nel trasportarli, senza che se ne fossero accorti i trasportatori. Onde i cittadini la mattina vegnente, vedendo que’ biscotti per la via che dal mare conduceva al Castello, ebbero sospetto di quel ch’era avvenuto. E come incontra in tali casi che le picciole cose si fanno grandissime, cominciò a susurrarsi per la città avere il Governatore nella notte intromesso nella rocca circa ottocento uomini venutigli da Messina per cura del Ruffo, ed arme, e munizioni, e vettovaglie in buon dato. Esser quindi suo disegno uscir del Castello, e correre addosso a’ cittadini per vendicarsi delle offese a lui fatte; aver riferite in Napoli al Vicerè le commozioni accadute con molta esagerazione, e descritta la città in procinto di ribellarsi novellamente. Laonde ne’ cittadini d’ogni condizione sorse una grandissima ira contro il De los Arcos, il quale colle sue opere e col suo maltalento faceva che non fosse spenta l’esasperazione pubblica, ma anzi di giorno in giorno accresciuta. E furon sonate le campane, sonati i tamburi; e tutti i Reggini con mirabile accordo corsero all’armi, ed impetuosi procedendo verso il Castello, si posero a far trincee, a piantar cannoni, ivi condotti da su’ bastioni della città, a batterlo con furia grandissima.

Seppe questo nuovo frangente il Prelato, che fu a quei tempi calamitosi il vero angelo tutelare di Reggio; e col solito fervore, e [p. 31 modifica]con affannata lena volò a quietare il popolo tumultuante, e fece che fossero sospese le armi. Ed intanto egli entrerebbe nel Castello, e vedrebbe cogli occhi proprii se le riferite cose, ed i loro sospetti avessero fondamento di vero. Ed ottenuto l’ingresso con dieci dei più potenti cittadini tra nobili ed onorati che seco erano, verificò in lor presenza come i soldati venuti di Sicilia non fossero’ più che ventisette. Di che grandemente si allegrò l’Arcivescovo, e dopo essersi doluto col Governatore che solo la costui imprudenza ed asperità avesse condotti i cittadini a quella ricrudescenza, lo persuase ad uscir del Castello, a venir seco nel palagio arcivescovile, ed a rimandare in Messina que’ ventisette soldati. Il che fatto, ogni cosa rientrò nell’ordine; i cittadini, deposte le armi, tornarono alle consuete occupazioni de’ pubblici e privati negozii; ed il Governatore, dopo dieci giorni di dimora nella casa dell’Arcivescovo, ritornò al suo palagio, ove non fu più molestato. Ciò avveniva verso mezzo gennajo del 1648. Nel seguente anno i sindaci Fabrizio Plutino e Placido Milea furono dalla città spediti in Napoli con una difesa stampata per rappresentare al Vicerè conte di Ognatte la verità degli avvenimenti di Reggio, e purgare i cittadini dell’accusa di ribelli, loro data dal Governatore De los Arcos.