Storia di Milano/Capitolo I

Capitolo I

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Prefazione Capitolo II


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S T O R I A

D I   M I L A N O




CAPO PRIMO


Antichità di Milano sino alla devastazione

di Attila seguíta nell’anno 452.

L’origine di una città antica si perde comunemente nella oscurità de’ tempi favolosi, e ascende sino a que’ rimoti secoli dai quali a noi non è trapassato monumento alcuno, e perciò debbono considerarsi come secoli isolati e inaccessibili alla nostra curiosità. Tale si è la fondazione della città di Milano, di cui Plinio, Giustino e Livio fanno menzione, con autorità però sempre dubbia; perchè trattasi di un avvenimento accaduto più secoli prima che questi autori scrivessero, e presso di un popolo che probabilmente ignorava persino l’arte della scrittura con cui passare a’ posteri la notizia de’ fatti. Conviene però queste opinioni conoscerle, e brevemente esaminarle, per separare dalla massa delle tradizioni quella porzione che sia più credibile.

Gli scrittori latini concordemente fanno discendere gli abitatori dell’Insubria dai Galli, che superate le Alpi si collocarono in questa pianura; e perciò quella che oggidì chiamasi Lombardia, dai Romani ebbe il nome di Gallia Cisalpina. Questa generale opinione degli antichi viene [p. 2 modifica]confermata ancora al dì d’oggi dalla pronuncia del dialetto popolare. La stessa lingua italiana presso gli abitanti di qua dalle Alpi, da Genova a Brescia, e da Torino a Piacenza, viene pronunciata con vocali ed accenti affatto forestieri all’Italia, per modo che, chiunque sia avvezzo al parlare di Napoli, di Roma, della Toscana o d’altra parte d’Italia, giudicherà piuttosto Francesi, che Italiani i Lombardi che parlano il loro dialetto; il che rende verosimile l’origine più sopra accennata. Dico l’origine, perchè se bastasse un lungo soggiorno a lasciare una così durevole diversità, noi dovremmo avere assai più parole ed accenti teutonici che non abbiamo, sebbene la lunga dominazione de’ Longobardi e l’invasione loro sia accaduta in secoli a noi più vicini.

Tito Livio ci narra che Milano sia stata fondata da Belloveso, duce dei Galli, i quali colle armi scacciarono i Toscani, che prima avevano quivi collocate le loro sedi. Galli.... fusis acie Tuscis, haud procul Ticino flumine: quum, in quo consederant, agrum Insubrium appellari audissent, cognomine Insubribus, pago Heduorum, ibi omen sequentes loci, condidere urbem, Mediolanum appellarunt1. Il saggio autore però dapprincipio dice ch’ei riferiva sulla rimota venuta de’ Galli quanto gli era stato narrato: De transitu in Italiam Gallorum haec accepimus; e poco sopra, parlando di questa venuta, dice: Eam gentem traditur... alpes transisse. Trattasi di un avvenimento che viene collocato nella XLV Olimpiade, vivendo Tarquinio Prisco, cioè seicento anni prima dell’era volgare. Non abbiamo nel nostro paese monumento che ci assicuri essere vissuta [p. 3 modifica]alcuna nazione colta entro di esso prima d’Augusto. Negli scavi che sinora si sono fatti sotto Milano e la adiacente campagna non si è trovata statua alcuna, scultura, iscrizione o lavoro qualunque di metallo o di creta, che in qualsivoglia guisa ci dia indizio che prima dell’èra volgare gli abitanti dell’Insubria conoscessero le arti. Non abbiamo libro alcuno scritto in Italia, di cui l’autore non sia vissuto più secoli dopo l’epoca in cui si dice fondata la città nostra. Livio stesso non indica di aver conosciuto carte, iscrizioni, monete o altri documenti che siano giunti intatti alle sue mani, anzi nulla più dice, che haec accepimus, ovvero traditur; l’asserzione perciò di Livio tutt’al più ci farà credere che l’opinione de’ Galli Cisalpini, mentr’ei scriveva, fosse che la città di Milano avesse per fondatore certo antico Belloveso, e che tale opinione dai rozzi ed agresti loro antenati, per molte generazioni, fosse discesa alla generazione allora vivente.

Si può dunque ragionevolmente dubitare se Belloveso sia stato il fondatore di Milano: si può anche ragionevolmente dubitare se Milano abbia avuto un fondatore, cioè un capitano, un principe il quale, avendo il disegno di creare una città, abbia collocato una popolazione nel sito ove sta Milano. La ragione di questa dubitazione nasce dall’osservare che le città quasi tutte, e nella Lombardia e nell’Italia, sono collocate alle rive d’un lago, alle sponde d’un fiume, al lido del mare; e i luoghi muniti e forti si sono piantati anche lontani dall’acqua, ma in siti elevati e di accesso difficile. Milano non ha alcuno di questi vantaggi. Chiunque avesse avuto pensiero di fabbricare una nuova città su di questa pianura, doveva essere invitato a disegnarla poche miglia [p. 4 modifica]lontano, alle sponde del Tesino, ovvero dell’Adda, oppure anche del Lambro: l’acqua è tanto necessaria agli usi comuni, e la navigazione è tanto opportuna per trasportare ogni genere, che si dovettero scavare artificialmente de’ canali secent’anni sono, per rendere comuni anche a Milano questi comodi; il che si sarebbe certamente risparmiato qualora il sito fosse stato trascelto con determinazione di piantarvi una città. Milano mi sembra formata per una serie di circostanze senza un fondatore, e mi pare che, dalla condizione d’un povero villaggio, gradatamente ampliatasi, diventasse insensibilmente una città, senza che uomo alcuno avesse concepita l’idea dapprincipio di farla tale. Alcune misere capanne di agricoltori probabilmente avranno composta la prima riduzione; la fecondità della terra, la moltiplicazione degli abitanti avranno dato luogo a formarvi un villaggio per domiciliare il contadino vicino al suo campo, e così la fertilità della terra avrà dato motivo di sempre più ampliare la popolazione, che nel corso de’ secoli giunse poi a formarne una città; in quella guisa appunto che vediamo qualche albero, fortuitamente trasportato dalla corrente di un fiume, arrestarsi laddove co’ rami urti nel fondo, e servire indi a trattenere le ghiaie e le piante che successivamente il fiume trasporta, e così formarsi un’isola coll’andare degli anni, su di cui gli uomini vi piantano poi la loro dimora. Tale almeno sembra la più verosimile opinione, anzi che persuaderci che siasi formato un disegno di piantare una città lontana dall’acqua, costretta a scavare de’ pozzi per bere, e a trasportare tutto per terra. La ragione medesima per cui dubitiamo della fondazione attribuita a Belloveso, ci rende sospetto il racconto di certo famoso capitano che [p. 5 modifica]aveva nome Medo, a cui si attribuisce la prima pianta della città, accresciuta poi di molto da certo altro famoso capitano, per nome Olano, dalla unione de’ quali nomi se ne pretende formato Mediolanum: sono opinioni senza alcuna prova, le quali sgorgano dai tempi oscuri, e perciò le accenno al solo fine di non lasciar ignorare quello che si è più volte ripetuto da chi ha scritto la storia del nostro paese.

La costruzione fisica della Lombardia sembra che possa darci de’ sospetti verisimili sullo stato antico della medesima. Le Alpi contornano questa pianura dalla parte settentrionale, e gli Appennini dal ponente e dal mezzogiorno la chiudono. Si mutano i nomi, ma in realtà la costiera non interrotta di monti chiude la Lombardia da tre parti, lasciandole l’aria libera soltanto all’oriente, laddove scorre il Po e va a sfogarsi placidamente nell’Adriatico. Perciò i venti che, sopra gli altri, da noi prevalgono, sono que’ di Levante. In questa pianura così fiancheggiata le altissime montagne che la cingono vi gettano fiumi e torrenti, i quali si uniscono al Po, ed esso ha la sua foce nell’Adriatico. La terra fecondissima su di cui abitiamo, per poco che gli uomini cessassero di preservarla coll’arte, verrebbe coperta dalle acque, e si formerebbe una palude. Il signor abate Frisi, nostro illustre cittadino, di cui non ricordo i titoli, perchè valgon meno che le due parole Paolo Frisi, mi ha graziosamente comunicate le notizie che i due laghi Maggiore e di Como, sono prossimamente allo stesso livello, cioè centocinquanta braccia al disopra di Milano. Il lago di Lugano è braccia cento più alto di quei due laghi; così riesce braccia ducentocinquanta più alto della città di Milano, cioè settanta [p. 6 modifica]braccia ancora più alto sopra la sommità dell’aguglia del Duomo. Vi sono adunque de’ vasti emporii di acque più alte e imminenti. La pianura è alquanto pendente verso del Po. La città di Milano, dalla parte più elevata alla più bassa, non avrà venti braccia di caduta, cioè dalle mura di porta Nuova a quelle di porta Ticinese, il che fa vedere l’assurdità della opinion volgare, che suppone la piazza del Duomo a livello della sommità della torre di Sant’Eustorgio. Le spese e le cure incessanti che esigono gli argini del Po, l’altezza a cui giungono le piene al disopra del livello de’ campi, ci convincono che un mezzo secolo di negligenza sarebbe bastante a sommergere tutta la parte bassa di questa superficie. Abbiamo sul Bolognese gli esempi di terre e province coperte dalle acque del Reno sviato dal Po. Una dissertazione del maestro e lume della storia italica, signor Lodovico Antonio Muratori2 ci dimostra con quanta facilità diventino lago o palude i paesi più floridi della Lombardia, tosto che cessino gli uomini di riparare coll’arte l’azione non mai interrotta della natura, che sembra aver destinato questo suolo ai pesci, e sul quale artificiosamente vi si sono collocati e vi soggiornano gli uomini, quasi contro il di lei volere; simili in ciò agli Olandesi, i quali, come noi, hanno pascoli, burro e caci eccellenti, e al par di noi hanno ottimi lini, e meglio di noi li preparano. Ogni volta che sia mancata la vigilanza nel preservare il piano della Lombardia dalle innondazioni, ivi si è formata una palude. Sant’Ambrogio, nella lettera XXXIX a Faustino, parlando di Modena, Reggio, Brissello, Piacenza ed altre città dell’Emilia, le chiama tot [p. 7 modifica]semirutarum urbium cadavera. Queste erano al tempo di Cicerone splendidissime colonie del popolo romano, ridotte nel quarto secolo, dopo le guerre di Magno Massimo e di Costantino, prive d’abitatori, e in conseguenza poi, nel secolo decimo, immerse nelle acque, siccome leggesi nella vita di san Geminiano3. Mutinensis urbis solum, nimia acquarum insolentia enormiter occupatum, rivis circumfluentibus, et stagnis ex paludibus excrescentibus, incolis quoque aufugentibus noscitur esse desertum. Unde usque hodie multimoda lapidum monstratur congeries, saxa quoque ingentia, praecelsis quondam aedificiis aptissima, acquarum crebra, ut diximus, inundatione submersa. Se dunque è vero che la costruzione fisica della Lombardia la conduca allo stato di una palude, da cui, per opera degli uomini, venga ridotta allo stato di coltura e di abitazione; se è vero che, dovunque cessi la attenzione degli uomini per la difesa, ivi le acque ripigliano il loro sito coprendo la terra; sarà anche assai verosimile il dire che ne’ tempi antichissimi questa pianura fosse un vasto lago o un aggregato di paludi; che i Galli, collocatisi sulle colline, gradatamente abbiano cercato di aprire lo scolo alle acque stagnanti, e così riporsi ad abitare sopra di una terra più feconda. Questa opinione corrisponde all’antica tradizione, che il luogo eminente di Castel Seprio, distrutto poi l’anno 1287, come vedremo, fosse una delle prime sedi degli Insubri; questo pure corrisponde a quanto scrissero Erodiano, Vitruvio e Strabone4, descrivendoci il piano della Insubria tutto coperto di paludi; e a questa [p. 8 modifica]opinione corrisponde l’antica memoria d’un lago Gerundio ne’ contorni di Cassano, ove oggidì quella parte bassa è tutta abitata; e la memoria dell’isola di Fulcherio ne’ contorni di Crema, di cui trattano le carte de’ secoli bassi, sebbene al giorno d’oggi non sianvi in quel distretto paludi che formino isola alcuna. I documenti più sicuri dell’antichità sono i fisici. La curiosità nostra vorrebbe sapere come e perchè i Galli, uscendo dalla loro patria, sieno venuti, arrampicandosi sopra difficili montagne, a stabilirsi in questo clima, abitato forse da pochissimi pescatori; ma la confessione della nostra ignoranza è assai più nobile che non lo sarebbero i sogni d’una immaginazione romanzesca. La storia è piena di emigrazioni di popoli interi; la fuga da qualche disastro fisico, inondazione, terremoto, ecc.; la violenza d’una barbara nazione che sforza a sloggiare e cercarsi nuova sede; l’ambizione di conquiste; l’avidità di godere una vita più agiata; il fanatismo, queste sono le cagioni per le quali de’ popoli interi cambiarono patria. Le colonie greche popolarono la Francia e l’Italia; le romane, la Ungheria ed altri regni; le spagnuole, le inglesi ecc., l’America. Al tempo delle crociate l’Europa tentò di invadere l’Asia, come in prima l’Arabia si stese sull’Africa e sull’Asia. Vediamo gli avanzi di tali invasioni anche al dì d’oggi. Gl’Inglesi parlano la lingua nata dal Sassone, mentre nel centro dell’isola si parla la lingua antica britanna, la quale nessuna connessione ha coll’altra, che essi chiamano lingua sassone. Nella Germania, in molte province, i contadini parlano l’illirico, mentre nelle città la lingua naturale è la tedesca. Anche nella Spagna l’antica lingua conservasi nelle montagne della Biscaglia, e niente somiglia alla [p. 9 modifica]castigliana, nata dall’invasione de’ Romani, e poscia degli Arabi. Questi fatti ci mostrano che ogni parte della terra ha sofferte le vicende di essere invasa da straniere popolazioni, che vi si piantarono, siccome i Galli antichissimamente fecero, in questo paese; ma per qual motivo questo accadesse, non ce lo può dire la storia, che in Italia non riascende sino a que’ tempi.

Della etimologia di Milano vi sono pure varie opinioni; oltre quella accennata dei due capitani Medo ed Olano, v’è chi la deriva dal Tedesco Mayland (così chiamasi Milano in Germania), e questa voce significa paese di maggio, paese di primavera; denominazione che veramente conviene poco ad una provincia in cui gli aranci non reggono scoperti, e in cui ne’ sei mesi dell’anno che cominciano in novembre e terminano al fine d’aprile, l’altezza media del termometro è al disotto del temperato, e dove in quella metà dell’anno la terra è soggetta al gelo ed alle nevi. La più comune sentenza fa nascere la voce Mediolanum da un mostro che si vide nel luogo in cui è fabbricata, e questo mostro era un porco mezzo coperto di lana; Claudiano così credette, ove, cantando le nozze dell’imperatore Onorio celebrate in Milano, ci rappresentò Venere che, abbandonando Cipro, passa sul mare e si porta a Genova, d’onde, superati di volo i gioghi dell’Appennino, discende verso Milano.

ad moenia Gallis
Condita, lanigerae suis ostentantia pellem.

Della opinione medesima si mostrò Sidonio Apollinare, il quale, annoverando le città più illustri, così volle indicarci Milano:

Et quae lanigero de sue nomen habet.

[p. 10 modifica]Altri furono di parere che altre città della Gallia e d’Albione si chiamassero con tal nome, e che i Galli perciò chiamassero Milano la città da essi fabbricata: opinioni tutte arbitrarie, incerte e di una infruttuosa discussione; perchè i nomi s’inventarono prima che s’inventasse la scrittura, e la storia non ha principio se non dopo ritrovata la scrittura.

Il più antico fatto da cui può cominciare la storia di Milano, ascende all’anno di Roma 533, cioè appunto due mila anni fa, scrivendo io nel 1779. I consoli Cnejo Cornelio Scipione e Marco Marcello conquistarono l’Insubria, e portarono sino a Milano la dominazione di Roma, l’anno 221 prima dell’era volgare. Vorrei pure sapere a quale stato di coltura fossero giunti i nostri Insubri; quale fosse il loro governo civile; se conoscessero l’arte dello scrivere; se avessero monete; qual religione e qual linguaggio fossero naturali a quei popoli; se coltivassero i campi; qual forma presentasse la fisica in questo tratto di paese: ma di ciò poco o nulla ci è possibile il saperne. Plutarco ci attesta che allora Milano era una città molto popolata: urbem Galliae maximam et frequentissimam, Mediolanum vocant. Hanc Galli Cisalpini pro capite habent5; ma Plutarco scrisse due secoli e più dopo Marcello e Scipione. Polibio ci assicura che Marco e Cornelio, consoli, guerreggiando contro de’ Galli Insubri, Mediolanum praecipuam Insubrum civitatem, petierunt; Cornelius, urbe, quae et frumento et omni genere commeatus refertissima erat, potitus, Gallos persequitur6. È verisimile assai che Marco Marcello, dopo conquistata Milano, abbia eretta la [p. 11 modifica]famosa torre di marmi quadrati, la quale, coll’andare de’ secoli, si chiamò poscia l’Arco Romano. Di sì fatti edifici i Romani ne innalzarono anche altrove, o in memoria delle conquiste fatte, ovvero per dominare la città vinta, e dalla sommità della torre potere all’occasione vedere e nuocere. È tanto celebre presso degli storici nostri quest’Arco Romano, che conviene per qualche poco ragionarne.

Molte volte mi accadrà nel decorso di quest’opera di nominare il signor conte Giorgio Giulini; egli da me viene ora ricordato, perchè tutto quello che dirò dell’Arco Romano, da lui l’ho preso; e chi volesse vedere l’oggetto più distesamente, esamini il tomo sesto della di lui Storia, dalla pag. 108 alla pag. 126. Egli trovò che il Fiamma, il Puricelli, il Grazioli, il Sassi ci descrivono quest’Arco Romano nella più ampollosa e strana foggia: un arco lungo niente meno di due miglia; munito dai due lati di altissime mura; e nel mezzo di questo lunghissimo fabbricato si descrive una torre da cui si dominava nulla meno di tutta la Lombardia. L’edificio era sostenuto da spessissime colonne. La larghezza di questo Arco Romano era un getto di pietra, e si chiamava ora l’Arco Romano ed ora l’Arco Trionfale. Di questa mole immensa però non se ne mostra nessun vestigio: si disputa per fino sul luogo ove fosse collocato; e un architetto potrebbe fare un immenso portico eseguendo una tal descrizione, ma nulla farebbe che somigliasse a un arco, meno poi a un arco trionfale. In questo stato il nostro conte Giulini ritrovò la storia. Egli provò che l’Arco Romano altro non era se non una massiccia torre, vasta e quadrata, piantata sopra quattro solidissimi pilastri, e sostenuta da quattro archi; opera tutta di pietre grandi [p. 12 modifica]e quadrate, che molto si innalzava, e conteneva stanze vaste e capaci di accogliere un presidio; che questa torre era collocata sulla via Romana, di contro al luogo ove oggi vedesi il monastero di San Lazaro. Di simili torri se ne vedono altre memorie nella storia di Roma, e Lucio Floro7 scrive che Cnejo Domizio Enobarbo, e Quinto Fabio Massimo, nel luogo dove avevano vinto gli Allobrogi, fecero innalzare una simile torre di sasso, sopra di cui vi posero un trofeo delle armi de’ vinti. Utriusque victorie quod quantumque gaudium fuerit, vel hinc existimari potest quod et Domitius Ænobarbus et Fabius Maximus, ipsis quibus dimicaverant in locis, saxeas erexere turres, et desuper exornata armis hostilibus trophaea fixere. La nostra torre diventò celebre dappoi per le esagerazioni de’ poco giudiziosi nostri storici, non meno che per gli avvenimenti accaduti durante la guerra che Federico I mosse ai Milanesi, intorno al qual tempo rimase distrutto quest’antico e forte edificio. La opinione del giudizioso nostro Giulini resta dimostrata sempre più dal Chronicon Vincentii canonici Pragensis, che per la prima volta fu pubblicato nel 1764, nella compilazione del padre Gelasio Dobner, che ha per titolo: Monumenta Historica Bohemiae nusquam antehac edita — Pragæ. Il canonico era testimonio di veduta e così la descrive: turris fortissima, maxima, de fortissimo opere marmoreo, quae arcus romanus dicebatur8. Questo testimonio non poteva essere noto al conte Giulini, perchè non ancora pubblicato mentr’egli scriveva.

Poco è quello che sappiamo della città di Milano durante la repubblica di Roma; e poco è [p. 13 modifica]pure quello che ne sappiamo durante i primi tre secoli dell’era volgare. I Romani, stesa che ebbero sulla Insubria la loro dominazione, piantaronvi delle nuove città; tali furono Piacenza, Cremona e Lodi; le due prime furono colonie, e con esse si resero padroni della navigazione del Po. Diedero moto alle acque stagnanti, e fra essi Emilio Scauro si distinse; poi mentre Roma era lacerata dalle fazioni, il senato, al tempo di Silla, accordò la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Insubria, e dilatò i confini d’Italia, che prima terminavano al Rubicone vicino a Rimini, portandoli fino all’Alpi; e così divenimmo Italiani per adozione. Il dominio adunque di Roma non distrusse le città dei vinti, ma ve ne edificò di nuove; rese il clima più atto ad essere abitato, liberandolo dalle paludi; dallo stato di barbarie c’innalzò a quello di una società civile; e perfine, da sudditi che ci aveva resi la forza, la beneficenza romana ci fece liberi; e membri d’una illustre Repubblica, fummo capaci delle magistrature di Roma. Pompeo, Crasso, Cesare furono in Milano. Cenando quest’ultimo in Milano da Valerio Leone, osservò che gli eleganti Romani erano offesi in vista d’una mensa rustica e senza atticismo, e già cominciavano a deridere l’albergatore, il quale ne provava confusione; ma Cesare giocondamente prese a mangiare quelle rozze vivande, e seriamente rivolto a’ Romani fece loro la questione, se fosse più rozzo e barbaro chi ospitalmente presentava i cibi alla foggia del suo paese, ovvero chi insultava l’albergatore9. Marco Bruto resse questa provincia, e quell’anima virtuosa, forte e sublime [p. 14 modifica]eccitò tale ammirazione presso i nostri antenati, che gl’innalzarono nel Foro una statua di bronzo; di che ci fanno fede Svetonio e Plutarco. Quando Augusto, reso padrone della terra, passò a Milano, si trattenne ad osservare questo monumento, non senza inquietudine dei Milanesi, ai quali non piaceva d’essere creduti nemici di lui, per l’ammirazione che mostravano verso l’uccisore di Cesare e il nemico della tirannia; Augusto prese anzi motivo di farci un encomio, perchè rendevano omaggio alla virtù indipendentemente dalle vicende capricciose della fortuna10. Così i Romani colti e potenti trattarono gl’Insubri agresti e deboli. I Romani giammai non insultarono ai vinti, nè mai schernirono i meno forti. Arditi nei pericoli, fieri contro la resistenza, pare che stendessero la dominazione su i popoli per liberarli dalla tirannia, per condurgli alla coltura e allo stato civile. Non credettero mai utile nè giusto il disprezzo anche verso un popolo barbaro. La grandezza di Roma abbracciava tutto il genere umano, e i popoli si dirozzavano per imitazione di [p. 15 modifica]esempi erano loro cari. Il czar Pietro prese la strada opposta dell’assoluto comando: egli ha fatto maravigliare l’Europa; il tempo schiarirà sempre più il problema politico, se a incivilire un popolo più giovi l’energia e la rapidità del comando, ovvero la industriosa sapienza de’ mezzi trascelti; e se la vegetazione riesca più ferma e durevole usando bene del clima nativo, e riparando accortamente le sole ingiurie di quello, o veramente con artificiale ed estraneo calore costringendo la natura.

Fra gl’imperatori de’ primi secoli, Giulio Capitolino scrive che Publio Elvio Pertinace fosse nato nell’Insubria. Elio Sparziano e varii altri ci assicurano che Giuliano Didio, che fu proclamato imperatore l’anno 193, fosse milanese. Nel terzo secolo i popoli del Settentrione cominciarono a discendere dalle Alpi e tentare d’invadere questa parte d’Italia. Gli Alamanni, i Marcomanni comparvero e furon scacciati; e da ciò ne venne la necessità che gli imperatori portassero la loro ordinaria sede più vicina alle Alpi per vegliare più di presso alla sicurezza d’Italia. L’Italia è circondata dal mare, e il solo canto per cui è annessa all’Europa è per le Alpi, catena raddoppiata di monti altissimi, per i quali pochi sono i luoghi ove aprirsi un passo; e tanto ardua e pericolosa cosa fu sempre il tentare di penetrarvi con un esercito, che s’inventarono de’ favolosi aiuti per ispiegare il passaggio che vi fece Annibale, quantunque gli abitatori dell’Alpi non fossero suoi nemici. Questa costiera è un antemurale che nessuna estera nazione mai avrebbe ardito nemmeno di affrontare, se opportunamente gl’Italiani avessero saputo impadronirsi de’ paesi, e custodire le alture che dominano sulle vie: e porre [p. 16 modifica]gl’invasori nella condizione di comprare con una battaglia vinta il potere di avanzare pochi passi e disporsi a nuovo cimento, e ciò con una lunga alternativa, che avrebbe annientato ogni esercito prima che uscisse da quell’enorme labirinto di voragini e di gioghi. Sbarchi di estere genti per mare non potevano allora temersi; perchè non v’era alcuna nazione che avesse un corredo marittimo capace di tentarlo; l’Italia, per godere dei vantaggi d’un’isola, non ha che a rendersi forte ne’ sbocchi delle Alpi; e così fecero gl’imperatori verso la fine del terzo secolo, a ciò anche doppiamente spinti dal pericoloso soggiorno di Roma, ove le fazioni, annoiandosi della dominazione di un Augusto, prevenivano il naturale corso degli avvenimenti, e trucidavanlo per collocare un successore sul trono del mondo. Ne’ contorni di Milano qualche tempo soggiornò Galieno. Aureolo fu battuto ed ucciso verso Milano, e in memoria abbiamo un villaggio che dai latini chiamossi Pons Aureoli, ora Pontirolo. Marc’Aurelio Valerio Massimiano Erculeo è stato fra gl’imperatori quello al quale più deve la città di Milano; perchè fu probabilmente il primo che collocò la sua sede in Milano, e fu quello che cinse di mura la città. Ce lo attesta Aurelio Vittore. Novis, cultisque moenibus Romana culmina, et caeterae urbes ornatae, maxime Carthago, Mediolanum, Nicomedia. Il giro di queste mura però non era più di due miglia, e viene assai accuratamente descritta la loro posizione nel libro: Le vicende di Milano durante la guerra con Federico I imperatore, pubblicato con eleganza dalla stamperia dell’Imperial monastero di Sant’Ambrogio Maggiore, l’anno 1778, ove trovasi la carta di Milano delineata, come verosimilmente lo era nel secolo xii, e [p. Tav modifica] [p. 17 modifica]col muro di Massimiano, che allora sussisteva. Io non ripeterò quanto ciascuno ivi può minutamente conoscere, e dirò soltanto che probabilmente allora non v’erano che nove porte della città. La Romana era poco lontana da San Vittorello; la Erculea11 era fra il monastero della Maddalena e quello di Sant’Agostino; la Ticinese era al Carrobio; la Vercellina era vicina a San Giacomo dei Pellegrini, e perciò la chiesa poco lontana ha il nome di Santa Maria alla Porta; la Giovia era vicina al monastero di San Vincenzino; la Comasina era poco discosta da San Marcellino; la porta Nuova stava collocata più interna prima della chiesa de’ Minimi; la porta Argentea, oggi Renza, era prima di giugnere alla colonna, così detta, del Leone; la porta Tosa era al fine della via di San Zenone. Dalla situazione delle porte facile sarà a chiunque il comprendere a un di presso dove si trovassero le mura fabbricate da Massimiano. Le chiaviche e il condotto delle acque coperto che spurga la città, sono l’acquedotto antico, il quale fiancheggiava esternamente le mura di quei tempi; e dove sono le colonne colle croci, ivi si aprivano le porte. Di queste mura molte descrizioni se ne sono fatte. Il Fiamma, al suo solito, asserisce che la larghezza di queste mura fosse di ben ventiquattro piedi di un uomo grande, e il giro di esse fosse più di quindici miglia, l’altezza di settantaquattro piedi, e finalmente, che vi fossero trecento e più torri sparse in questo circuito. Molti hanno dipoi ripetute simili fole, degne di stare accanto all’Arco Romano di due miglia. Gli scrittori di questi [p. 18 modifica]ultimi tempi si sono limitati a credere cento torri, dodici piedi di grossezza al muro, due miglia di estensione: ed anche di meno ne credo io; perchè troppo sarebbe vicina una torre all’altra se ogni venti passi geometrici ve ne fosse una, e quella sola torre delle mura che ancora ci rimane nel monastero Maggiore, non ha dodici piedi di grossezza nel muro, nè è difesa da sassi quadrati, come nemmeno lo sono le antiche mura di Roma istessa, tutte di mattoni, quali anche vedonsi al dì d’oggi. Del Circo e del Teatro grandi cose, e probabilmente esagerate, ci raccontano i nostri storici. Nè può negarsi che vi fossero tali fabbriche, poichè, oltre la testimonianza degli scrittori, abbiamo anche oggidì due luoghi della città chiamati, l’uno al Circolo, l’altro al Teatro; ed è ben naturale che una città in cui molto risedevano gli Augusti, avesse tai luoghi destinati agli spettacoli. Molto però conviene diminuire per accostarci alla verità. Nessun vestigio ci rimane di tai pretesi grandiosi edifici; e come vediamo intatte le altissime colonne di Ercole a San Lorenzo, non ci mancherebbe qualche avanzo di Circo, e massimamente di Teatro, se fosse stato eguale almeno a quello di Verona, che vedesi intero nella gradinata; opera che non si distrugge facilmente: e lo stesso dico pure del Palazzo Imperiale, il di cui nome conservasi tuttora dalla chiesa di San Giorgio, senza che nessun pezzo di antica architettura ce ne assicuri la decantata magnificenza. Lo scopo che mi sono proposto non è la descrizione di Milano, nè l’esame minuto degli argomenti di critica. Altri ne hanno scritto, e forse di troppo ne abbiamo; la mia opinione si è che probabilmente il Circo, il Teatro, il Palazzo vennero costrutti nel decorso del quarto secolo, e furono [p. 19 modifica]opere inferiori al grido che ebbero dappoi, singolarmente ne’ notissimi versi di Ausonio, che il nostro Tristano Calco, uomo fedele e veridico, trasse da un antico manoscritto della Biblioteca Ducale di Pavia, e che dicono:


     Et Mediolani mira omnia: copia rerum;
     Innumerae, cultaeque domus; facunda Virorum
     Ingenia; antiqui mores; tum duplice muro
     Amplificata loci species; populique voluptas
     Circus, et inclusi moles cuneata theatri:
     Templa, palatinaeque arces, opulensque Moneta,
     Et regio Herculei celebris sub honore lavacri,
     Cunctaque marmoreis ornata peristyla signis,
     Moeniaque in valli formam circumdata limbo;
     Omniaque magnis, operum veluta emula, formis
     Excellunt: nec juncta premit vicinia Romae.


Convien bensì dire che nel quarto secolo Milano fosse una magnifica città per la popolazione, l’abbondanza, la coltura, la fortezza ed il lusso; ma qualche espressione è da poeta. A un uomo che avea ammirato Roma, non potevano sembrare mira omnia le cose di Milano. Noi non vediamo avanzo alcuno di que’ tanti peristili di marmo che ornavano la città. Se vi fossero state fabbriche innumerevoli e colte, da’ rottami della antica città, negli scavi che facciamo, dovremmo pure rinvenire o belle statue antiche, o busti, o bassi rilievi, o pezzi di superba architettura, avanzi dei tempii, de’ palaggi, delle rocche emule della grandezza di Roma. Ma poco o nulla ci somministra la terra: e da essa ne’ contorni di Roma, in quei di Napoli, nella Sicilia, nella Grecia si scavano ogni giorno de’ preziosi avanzi della magnificenza e della coltura antica.

Gli amatori delle belle arti già hanno osservato come presso de’ Romani, dopo essere giunte alla somma perfezione nel secolo che ebbe il nome [p. 20 modifica]di Augusto, declinarono poscia ed invecchiarono da sè, prima che i barbari entrassero a rovinarle. L’Arco di Severo, che vedesi in Roma, ci prova che nel terzo secolo l’architettura era già diventata rozza e inelegante. Le medaglie, da Caracalla e Macrino in poi, s’andarono sempre più degradando e diventando barbare. Al tempo poi di Costantino, al principio del quarto secolo, abbiamo un documento della totale decadenza della scoltura nell’Arco di Costantino, in cui si dovettero in Roma istessa, a costo di tradire la verosimiglianza, inserire i bassi rilievi tolti dall’Arco di Trajano; perchè in Roma non v’era più un artista capace di farvene; e veggonsi i Daci e la figura di Traiano incassati per ornare un monumento de’ trionfi di Costantino; e que’ pochi ornati che si dovettero allora aggiungere per riempire il vano sotto il grande arco, sono lavori infelicissimi, peggiori di alcuni simili travagli gotici. Ciò posto, la grandezza di Milano s’innalzò appunto nel tempo in cui tutte le idee grandiose e nobili delle belle arti già svaporavano; e perciò credo che, trattane la mole erculea, gli altri celebrati edifici fossero minori della fama. Sarebbe fuori di proposito se io qui tornassi a ripetere alcune mie idee, credo vere, e che ho pubblicate anni sono in un discorso sull’indole del piacere e del dolore, ove sviluppai il principio motore dell’uomo, che, a mio parere, è il solo dolore; ma siami permesso di accennare che, frammezzo agli orrori delle guerre civili di Mario e Silla, fra le atroci proscrizioni del triumvirato s’innalzarono i più valorosi oratori, i più sublimi poeti, gli scrittori, architetti, scultori, pittori più illustri; e che, sotto un seguito di regni di cinque benefici e grandi augusti, Nerva, Trajano, [p. 21 modifica]Adriano, Antonino e Marc’Aurelio, regni preziosi alla virtù, alla umanità ed al merito, le belle arti protette e pacifiche si esercitarono, perchè onorate; ma non s’innestarono ne’ giovani che nacquero in quei tempi felicissimi, onde, nella seguente generazione, scomparvero. Nel bell’Elogio del cavaliere Isacco Newton, che il nostro cittadino signor abate Paolo Frisi ha stampato, mostrasi come, fra le atroci rivoluzioni, al tempo del regicidio, sotto la tirannia di Cromwell e di Fairfax, mentre l’Inghilterra era grondante del proprio sangue, si svilupparono gl’ingegni sublimi che hanno resa gloriosa quell’isola: e così dal seno de’ dolori vengono a schiudersi que’ principii di attività, e l’animo viene a ricevere quell’energia e quell’impeto che lo scagliano al disopra degli ostacoli, e lo costringono a seguire ostinatamente una serie di idee per sottrarsi ai mali della comune esistenza; laddove nel placido asilo d’una dolce protezione s’abbandona a godere del momento presente. Con ciò viene a rendersi ragione d’un avvenimento costantemente accaduto e nel secolo d’Alessandro e in quello d’Augusto e nei successivi tempi; cioè, essersi riscossi gl’ingegni e comparsi sul teatro del mondo gli uomini grandi ne’ tempi ne’ quali il genere umano era più vilipeso e tormentato; essersi innalzate le scienze, perfezionate le arti in mezzo alle calamità; e tutto essere svanito e depravato colla felicità dei tempi. Raffaello, Michelagnolo, Tiziano, Correggio dipingevano i loro lavori immortali prima che fosse instituita l’accademia di San Luca; e nacquero e si resero eccellenti sotto piccoli tiranni che reggevano i loro Stati colla morale pubblicata dal Segretario Fiorentino. I loro talenti gli innalzarono a godere poi della sicurezza e degli [p. 22 modifica]onori; ma la fatica, per diventar sommi artisti, l’affrontarono spintivi dai mali. Pietro Cornelio e Racine sublimarono il teatro francese al maggior grado di gloria senza aiuto, e vivendo fra i torbidi. Dacchè venne eretta l’Accademia Francese in Roma non si è innalzato alcuno al grado dei Le Sueur, Le Brun, Poussin, nati, vissuti e resi grandi fra le turbolenze. Virginio aveva quarant’anni quando seguì la battaglia d’Azio; Orazio era più giovine di lui di cinque anni; Cicerone ebbe troncato il capo nella proscrizione; in somma nessun uomo ha mai potuto diventare grande in nulla, se non attraverso gli ostacoli, i quali avviliscono le anime deboli, e le robuste attizzano, irritano e spingono al di sopra del livello comune, qualora vi sia speranza di superarli; su di che bastantemente ho spiegata la mia opinione in quel discorso.

Milano adunque salì a grande fortuna ne’ tempi ne’ quali l’architettura, insieme con tutte le belle arti, era già invecchiata e giacente, e perciò anche ragion vuole che credansi esagerate le magnificenze che gli scrittori nazionali ci hanno vantate. Un solo monumento ci rimane dell’antico, e sono le sedici superbe colonne di ordine corintio scannellate; pezzo di così nobile e grandiosa architettura, che sarebbe pregevole ancora in Roma, collocato presso al Tempio della Pace o alle colonne di Giove Statore. Le proporzioni sono del buon secolo, nè io potrei crederle mai innalzate al principio del quarto secolo, come finora si è scritto, attribuendole a Massimiano Erculeo. Il chiarissimo nostro P. Pini, benemerito della Metallurgia per l’opera de [p. Tav modifica] [p. 23 modifica]Venarum Metallicarum Excoctione, e benemerito per le cognizioni sue nella storia naturale e nell’architettura, crede che il marmo di quelle preziose colonne sia tratto dall’antica cava di Oligiasca, terra del lago di Como, posta fra Bellano e Piona. Si è opinato che questo fosse il fianco di un tempio, ovvero d’un pubblico bagno dedicato ad Ercole. Egli è difficile il provarlo, ed è difficile parimenti il confutarlo con ragioni positive. La sola cosa che è vera, si è che questo maestoso avanzo è il solo che ci sia rimasto; che sembra essere del secolo d’Augusto, o poco dopo, e che meriterebbe d’essere nuovamente riparato dalla rovina che minaccia, per trapassarlo a’ posteri, come i nostri antenati fecero con noi, riparandolo nel secolo xvi.

Nel quarto secolo molto dimorarono i cesari in Milano; Massimiano Erculeo in Milano dimise la porpora l’anno 305. Nello stesso giorno primo di maggio, fu in Milano dichiarato cesare Flavio Valerio Severo. Costantino, Costanzo, Costante varie leggi scrissero in Milano, registrate nel Codice Teodosiano; e Costantino, nell’anno 313 in Milano, sottoscrisse la famosa legge di tolleranza, in vigore di cui venne legittimato l’esercizio della religione cristiana, sulla qual legge scrisse al preside di Bittinia, di averla pubblicata ut daremus, et cristianis, et omnibus liberam potestatem sequendi religionem, quam quisque voluisset12. In Milano, l’anno 355, Giuliano fu dichiarato Cesare; e Costanzo radunò un concilio in Milano, a cui intervennero più di trecento vescovi. Valentiniano e Valente promulgarono in Milano altre leggi. Teodosio soggiornava in Milano, ove anche morì [p. 24 modifica]l’anno 395 il 17 di gennaio. Onorio in Milano celebrò le sue nozze. Dall’anno 373 fino al 401 appena sette anni si osservano senza leggi promulgate in Milano; e dal Codice Teodosiano medesimo si raccoglie che in quella compilazione vi sono trecentoundici leggi pubblicate in Milano dall’anno 313 al 412; nè certamente in tale collezione si saranno trascritte, se non quelle che si credettero destinate a formare la stabile legislazione di tutto l’impero. Questo fatto solo ci prova come nel quarto secolo, e al principio del quinto, essendo diventata Milano la residenza ordinaria degli Augusti, dovette per conseguenza essere una cospicua città, ricca, popolata e tanto colta quanto lo permetteva la condizione dei tempi.

Sanno gli eruditi che Costantino temendo la troppo estesa potenza del prefetto del pretorio, potenza funesta a molti imperatori, diede una nuova forma al governo dell’Impero; abolì il prefetto del pretorio e divise le province, affidandone il governo a distinti ufficiali. L’Italia allora in due parti venne divisa. La capitale della parte meridionale fu Roma, e della settentrionale fu Milano. In Roma vi pose il Vicario di Roma, in Milano il Vicario d’Italia. Il governo del vicario di Roma si stendeva sopra dieci province, cioè la Campagna, l’Etruria, l’Umbria, il Piceno suburbicario, la Sicilia, la Puglia e Calabria, la Lucania e Bruzi, il Sannio, la Sardegna, la Corsica e la Valeria. Il vicario di Milano sette province governava, cioè la Liguria, la Emilia, la Flaminia e Piceno annonario, la Venezia, a cui fu poi aggiunta l’Istria, le Alpi Cozie, e l’una e l’altra Rezia. Il sistema adunque costituì nel quarto secolo, e nel quinto ancora, la città di Milano la prima città d’Italia sicuramente dopo Roma; e di questa [p. 25 modifica]antica grandezza ne rimangono ancora alcune vestigia nella cospicua dignità della sede vescovile di Milano13, giacchè le giurisdizioni ecclesiastiche si modellarono sulla forma del governo civile de’ primi tempi, e i metropolitani furono i vescovi delle città capitali, ed ebbero per suffraganei i vescovi delle città che nel governo politico da quelle dipendevano14. Il che posto, conosciamo quanto cospicua città sia stata Milano nel quarto e nel quinto secolo, osservando che il di lei vescovo metropolitano aveva i vescovi di ventuna città da lui dipendenti, e furono Vercelli, Brescia, Novara, Bergamo, Lodi, Cremona, Tortona, Ventimiglia, Asti, Savona, Torino, Albenga, Aosta, Pavia, Acqui, Piacenza, Genova, Como, Coira, Ivrea ed Alba, e questi erano suoi suffraganei anche nei secoli posteriori. I confini delle diocesi, le preminenze delle sedi vescovili, sono per lo più un indizio sicuro degli antichi confini delle pertinenze d’ogni città e dell’antico stato di ciascheduna; perchè le cose sacre, anco presso le nazioni barbare e feroci, vennero rispettate e lasciate, per lo più, intatte frammezzo alle rivoluzioni civili.

La dignità del vescovo di Milano, che giustamente può in questi tempi de’ quali tratto, chiamarsi metropolitano bensì, ma non già arcivescovo, titolo posteriormente introdotto, e che significa onorificenza più che giurisdizione; la dignità, dico, del metropolitano ricevette sommo risalto da sant’Ambrogio, uomo per la dottrina, per la pietà, per la fermezza e per ogni sorta di virtù [p. 26 modifica]celebratissimo, e collocato fra gli esimii dottori della Chiesa. Celebre è il coraggio nobile e virtuoso col quale escluse dai sacri misteri l’Augusto Teodosio. Nella Macedonia i popoli della città di Salonicco, allora Tessalonica, tumultuarono contro alcuni imperiali ministri; Teodosio, spinto da una feroce inconsideratezza, slanciò la licenza militare sulla infelicissima città, ove vennero barbaramente scannati più di settemila abitatori, donne, vecchi, fanciulli, innocenti o rei, senza distinzione; e le pubbliche strade e le case vennero coperte di cadaveri, vittime di quest’atroce crudeltà. Questi orrori vengono dalla storia registrati nell’anno 390. Teodosio, in Milano, si preparava a comparire nella chiesa. Il santo vescovo, da saggio, fece che giugnesse a notizia di quell’augusto, che non l’avrebbe ammesso a partecipare de’ sacri misteri, se prima non avesse espiato il suo delitto con pubblico pentimento. Voleva lasciare il pregio della spontaneità alla riparazione; ma il monarca, avvezzo a vedere tutto piegarsi ai suoi voleri, pensò che la sola maestà di sua presenza dovesse annientare ogni riguardo; s’incamminò per entrare nella chiesa, ove, con passo grave, affacciossegli il santo vescovo, fermamente slanciandogli queste parole: Uomo grondante ancora di sangue innocente, ardisci tu con tal fronte portare la profanazione nel santuario, e collocare il delitto impunito nel tempio del Dio della giustizia, della mansuetudine e della pace! La voce del rimorso fece rimbombare nel cuore di quell’augusto la riprensione sacerdotale. Obbedì al sacro ministro a vista di tutto il popolo, e partissene. Riparò la gran colpa con pubblica espiazione, o colla migliore di tutte, cioè colle opere virtuose e col premunirsi da simili eccessi, [p. 27 modifica]comandando che qualunque ordine severo gli accadesse in avvenire di proferire, i ministri dovessero per trenta giorni sospenderne la esecuzione. Io non loderò questa legge. L’uomo destinato a comandare agli uomini suoi fratelli, non deve loro manifestare il timore ch’egli ha d’essere ingiusto e violento. Questo è un colpo alla opinione, su di cui si appoggia il governo; s’ei non era padrone di sè stesso, da uomo virtuoso doveva giudicarsi incapace di reggere gli altri e dimettere la porpora. Dirò bensì che ogni volta che i ministri della religione hanno alzata la loro voce coraggiosa contro i pubblici delitti, l’umanità intera ha tributato ad essi l’ammirazione; e forse questo fatto solo sarebbe stato bastante ad ottenerla al santo vescovo. L’ebbe in fatti a tal segno che da lui prese la chiesa milanese il nome, il rito e la dignità.

La liturgia ambrosiana, che anche oggidì si conserva, sebbene abbia sofferte molte variazioni co’ secoli, essa però si è preservata attraverso i replicati sforzi che si tentarono per abolirla. Io non deciderò quale sia la migliore costituzion ecclesiastica, se la repubblicana, ovvero la monarchica; nè mi propongo di trattare di cose sacre. So che col cambiare dei secoli le circostanze si cambiano; che una forma di civile governo, ottima in una combinazione di cose, può diventare pessima cambiandosi quella; che la Chiesa, essendo una società combinata per il bene spirituale degli uomini, prudentemente cambierà la costituzione propria, qualora per quello ottenere i civili cambiamenti lo consiglino; e così, senza ch’io intenda di preferire l’antico sistema all’attuale, unicamente come storico osserverò che l’autorità del metropolitano era assai vasta e quasi indipendente da Roma [p. 28 modifica]in quei tempi, e che tale si conservò fino al duodecimo secolo, per lo spazio di circa ottocento anni. Il metropolitano di Milano veniva eletto per lo più dai primari ecclesiastici, che si chiamarono Cardinali della santa Chiesa milanese: così i vescovi suffraganei erano eletti dal clero delle loro città. Non dipendeva il vescovo suffraganeo che dal metropolitano, dal quale era ordinato vescovo; ed il metropolitano era ordinato e consacrato vescovo dai suffraganei. Le controversie, o si decidevano dal metropolitano, ovvero, se erano maggiori, da un concilio provinciale, il quale giudicava sulla canonicità delle elezioni controverse, e su quant’altro occorreva al ceto ecclesiastico. Il successore di san Pietro, il capo visibile della Chiesa, era da tutti venerato, e Roma è sempre stata la norma del dogma e il deposito della credenza; ma quantunqe per circostanze particolari san Gregorio Magno, sommo pontefice, godesse di una superiore influenza inusitata, ei stesso dichiarò di non mai intromettersi nella elezione del metropolita, ma unicamente ne ordinava la consacrazione, eletto ch’egli era canonicamente. Nella ventesimanona epistola del libro terzo, diretta ad presbyteros et clerum mediolanensem quel sommo pontefice scrisse: Verumtamen quia antiquae meae deliberationis intentio est ad suscipienda pastoralis curae onera pro nullius unquam misceri persona, orationibus prosequor electionem vestram15. Ne’ tempi successivi non si mantenne nemmeno la dipendenza di aspettare l’ordine del papa per la consacrazione. Il papa san Gregorio, scrivendo al metropolitano di Milano Lorenzo, per certe entrate che il [p. 29 modifica]metropolitano possedeva nella Sicilia dipendente da Roma, nomina la Chiesa milanese Santa. Quod autem perhibetis ab exactione patrimonii Siciliae provinciae, iuris sanctae, cui Deo auctore praesidetis, Ecclesiae... Proinde necesse est ut sanctitas vestra de hac re personam instituat, cum qua Romana Ecclesia aliquid debeat solide definire16; e Giovanni VIII, nell’anno 878, scrisse un breve: Reverendissimo et sanctissimo confratri Ansperto venerabili archiepiscopo Mediolanensi. Ciò sia detto per conoscere quanto fosse decorata la città di Milano, fatta sede del prefetto d’Italia, soggiorno di molti imperatori durante il quarto secolo, e parte del quinto, per lo spazio di un secolo e mezzo, quanto ne trascorse dal sistema fissato da Costantino alla devastazione di Attila, foriera del totale eccidio che ne fecero i Goti; cosicchè nessun’altra città dell’Occidente fu a lei paragonabile per lo splendore, se ne eccettuiamo la sola Roma.

Nella mia raccolta di monete patrie alcune ne conservo di Magno Massimo, di Teodosio, di Arcadio e d’Onorio, le quali dagli eruditi si giudicano della zecca di Milano. Se ne conoscono di Valente, di Valentiniano II, di Vittore, di Eugenio e del tiranno Costantino, le quali si possono sostenere della zecca di Milano. Quelle d’argento hanno le lettere M. D. P. S., che s’interpretano Mediolani pecunia signata; quelle d’oro hanno semplicemente M. D. Mediolanum; così vien letto. Hanno questi augusti regnato dal 364 al 407, ne’ tempi appunto ne’ quali Milano significava tanto. Anche Ausonio ricorda ne’ riferiti versi: opulensque moneta; non vedo che vi sia [p. 30 modifica]improbabilità alcuna nel darvi una tale interpretazione. Le monete che si trovano negli scavi del nostro paese, sono per lo più del terzo, quarto e quinto secolo.

Ho cercato inutilmente di saperne di più di quei tempi. Gli storici nostri accuratamente si occupano a verificare la cronologia de’ vescovi, descrivono i supplizi sofferti da molti martiri, l’acquisto di molte sante reliquie, fondazioni, etimologie di chiese, portenti accaduti e degni di una pia credenza; ma nulla ci ha lasciato l’antichità, onde avere una idea dello stato della popolazione, della civile costituzione, del governo e del genio de’ Milanesi; se marziale, ovvero pacifico; se attivo, ovvero indolente; se colto e sensibile al bello, ovvero rozzo ed agreste durante quel secolo e mezzo che trascorse fra l’Impero di Costantino, e la devastazione d’Attila, accaduta nel 452. Così diciamo d’essere nella ignoranza totale sullo stato della agricoltura del Milanese, sulla negoziazione in que’ secoli, sopra i costumi sì religiosi che civili del popolo, e in una parola sulla storia antica; nulla di più sapendosene fuori che essere stata e nel quarto, e in parte del quinto secolo, cospicua la città di Milano, e la prima in Occidente dopo di Roma.

Note

  1. Liv. lib. V, cap. 19.
  2. Med. Aev. diss. XXI.
  3. Rer. Italic. Script. tomo II, pag.691.
  4. Vit. lib. I, cap. 4 - Strab. lib. V.
  5. Plutarc. Vit. Marcelli.
  6. Polib. Hist lib. II,
  7. Lib. III, cap. 2.
  8. Tomo I, pag. 18.
  9. Isac. Casaubon. Animad. in Svet. lib. I, pag 32, n. 17, ed Paris. 1610. — Plutarc. in Vit. Caesar. invitatus Mediolani ad cocnam hospite Valerio Leone, qui asparagum apposuerat, atque olei loco infuderat unguentum, ipse simpliciter comedit, et indignantes increpavit amicos. Satis enim, inquit, abstinere iis a quibus abhorrebalis nunc eam rusticitatem qui deprehendit ipse est rusticus.
  10. Statua ejus aerea fuit Mediolani (scilicet statua Bruti) in Gallia Cisalpina posita. Hanc, quae immaginem ejus bene repraesentabat, et erat artificiose facta, ut post vidit Caesar præteriit: mox subsistens, compluribus audientibus, vocavit Magistratus, civitatem eorum ferens sibi compertum esse foedus pacis rupisse, quod hostem suum apud se haberet. Ac primum sane negaverunt, et quemnam significaret ambigentes, intuebantur se mutuo. Ut vero conversus Caesar ad statuam contracta fronte, Nonne, inquit, hic stat hostis noster? Multo illi magis perculsi obmutuere. At Caesar arridens laudavit Gallos, quod amicis essent etiam in adversis rebus stabiles, praecepitque ne statua loco moveretur. Plutarc. in Vit. Bruti in finc.
  11. Così crede si chiamasse quella di S. Eufemia il signor conte Giulini
  12. Lactantius, De Mortibus persecutorum, cap. 48.
  13. Muratori. Anecdota, t.I, p 223, impress. Mediol. 1697.
  14. Bingam. Orig. Eccles. lib. IX, cap. 1 5 e 6. — Dupin. De antiq. Eccles. disciplin. diss. I, 6. — Giannone. Storia del regno di Napoli, lib. II, cap. 8.
  15. S. Gregorii pape I cognomento Magni Opera omnia. Venetiis, 1744, tomo II, col. 644, G.
  16. Lib. I, Epist. 82, S. Greg. Oper. tomo II, col. 565.