Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XX. La nuova letteratura/I.

XX. La nuova letteratura - I.

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XX. La nuova letteratura XX. La nuova letteratura - II.

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L’uomo, che rappresenta lo stato di transizione tra la vecchia e la nuova letteratura, è Metastasio. L’antica letteratura, non essendo oramai piú che forma cantabile e musicabile, ha come ultima espressione il dramma in musica, dove non è piú fine, ma mezzo: è melodia e serve alla musica. Ma non vi si rassegna, e vuol conservare la sua importanza, rimanere letteratura. Quest’ultima forma della vecchia letteratura è Metastasio.

La sua vita si stende dal i698 al i782. Vincenzo Gravina, che l’educò, a quel modo che richiamava lo studio delle leggi [p. 324 modifica]alle fonti romane, illustrandole e tentando una prima filosofia del dritto, voleva ritirare l’arte alla greca semplicitá, purgandola della corruzione seicentistica, e scrisse tragedie a modo di Sofocle, e tentò una teoria dell’arte che chiamò Ragion poetica. Il buon uomo vedea il male, ma non le sue cause e non i suoi rimedi. La semplicitá è la forma della vera grandezza, di una grandezza inconscia e divenuta natura. Niente era piú contrario al secolo, manierato e pretensioso al di fuori, vacuo al di dentro. Per combattere il manierismo, Gravina soppresse il colorito e vi supplí con la copia delle sentenze morali e filosofiche. L’intenzione era buona; parea volesse dire: — Cose e non parole. — Né altra è la tendenza della sua Ragion poetica, dove il vero è rappresentato come sostanza dell’arte, e il vero ignudo, non «condito in molli versi». Cosi, volendo esser semplice, riuscí arido. La teoria non era nuova, anzi era la vecchia teoria di Dante, ringiovanita dal Tasso; ma parve nuova in un tempo che lo sforzo dell’ingegno era tutto intorno alla frase. Metastasio fu educato secondo queste idee. Il severo pedagogo gli proibí la lettura del Tasso e de’ poeti posteriori, lo ammaestrò di buon’ora nel greco e nel latino, e lo volse allo studio delle leggi, vagheggiando se stesso redivivo in un Metastasio giureconsulto e letterato. Ma il giovane era poeta nato. E, morto il Gravina, si gettò avidamente sul frutto proibito; e la Gerusalemme liberata, l’Aminta, il Pastor fido, soprattutto l’Adone, furono il suo cibo. Quella prima educazione classica non gli fu inutile, perché lo avvezzò alla naturalezza e alla semplicitá, e lo nutrí di buoni esempi e di solida dottrina. Ma, lasciato a se medesimo, si sviluppò in lui, come in tutti quelli che hanno ingegno, il senso della vita contemporanea. Il maestro volea farne un tragico a uso greco, o piuttosto a uso suo. Ma la tragedia non era la sua vocazione, e l’autore del Giustino preferí Ovidio a Sofocle, e, come era moda, fece la sua comparsa trionfale in Arcadia con sonetti, canzonette, idilli, i cui eroi di obbligo erano Cloe, Nice, Fille, Tirsi, Irene e Titiro. Il Sogno della gloria è l’ultimo lavoro a uso Gravina, ammassato di sentenze, che sono luoghi comuni, e pieno di reminiscenze classiche e dantesche. Il Ritorno [p. 325 modifica]della primavera, scritto l’anno appresso, i7i9, ti mostra giá i vestigi dell’Aminta e del l’Adone, facilmente impressi in quell’anima ricca di armonie e d’ immagini. L’ideale del tempo era l’idillio, il riposo e l’innocenza della vita campestre, in antitesi alla vita sociale, cosi come l’avevano sviluppato il Tasso, il Guarini e il Marino. L’idillio era un certo equilibrio interiore, uno stato di pace e di soddisfazione, a cui il dolore serviva come di salsa. L’ Arcadia, volendo riformare il gusto, avea tolto all’idillio quella tensione intellettuale che si chiamava il «seicentismo», si che la forma era rimasta una pura effusione musicale dell’anima beatamente oziosa, cullata da molli cadenze tra l’elegiaco e il voluttuoso: ciò che dicevasi «melodia». La musica penetrava giá in questa forma cosi apparecchiata a riceverla; e la canzone diveniva la canzonetta, la cantata e l’arietta, e il dramma pastorale diveniva il dramma in musica. Le canzonette del Rolli erano in molta voga, ma giá si disputava quale ne facesse di migliori, o il Metastasio o il Rolli. Sciupata l’ereditá del Gravina, il nostro Metastasio, visto che l’Arcadia non gli dava pane, ricordò i consigli del maestro, e andò a Napoli col proposito di far l’avvocato. Ma Napoli era giá il paese della musica e del canto. E le sue arringhe furono cantate ed epitalami. In occasione di nozze prima si scrivevano sonetti e canzoni: allora erano in voga epitalami, cantate e feste teatrali. Il Metastasio fu poeta di nozze, e restano di lui tre epitalami, storie mitologiche e idilliche, dove è visibile l’imitazione del Tasso e del Marino. Canta le nozze di Antonio Pignatelli e Anna de’ Sangro, evocando gli amori di Venere e Marte, a’ quali intreccia gli amori degli sposi; e naturalmente Anna è Venere, e Antonio è Marte. Vi trovi il monte dell’Amore, che ricorda il giardino di Armida, e tutto il vecchio repertorio mitologico, immagini e concetti. Ecco come descrive Anna:


                               Se in giro in liete danze il passo mena,
se tace o ride, e se favella o canta,
porta in ogni suo moto Amore accolto,
Pallade in seno e Citerea nel volto.
     Vicino al lato suo siedono al paro
con la dolce consorte il genitore.
     
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                               coppia gentil d’illustre sangue e chiaro,
vivi esempli di senno e di valore:
alme che prima in ciel si vagheggiâro,
e poi quaggiú le ricongiunse Amore:
e diêr tal frutto, che non vede il sole
piú nobil pianta e piú leggiadra prole.
     


Sono ottave mediocrissime e poco limate, ma dove giá trovi facilitá di verso e di rima e molta chiarezza. Un’ottava, dove descrive Anna che canta, rivela nell’evidenza e nel brio del colorito una certa genialitá:


                                    La voce, pria nel molle petto accolta,
con maestra ragion spigne o sospende;
ora in rapide fughe e in groppi avvolta,
veiocissimamente in alto ascende;
ora in placido corso e piú disciolta,
soavissimamente in giú discende;
i momenti misura, annoda e parte,
e talor sembra fallo, ed è tutt’arte.
     


Qui lascia le solite generalitá, entra nel vivo de’ particolari, e vi mostra la forza di chi sa giá tutto dire e nel modo piú felice. Gli epitalami non sono in fondo che idilli, col solito macchinismo: Amore, Venere, Marte, Diana, Minerva, Vulcano. Né altro sono le prime sue azioni teatrali, rappresentate in Napoli, come la Galatea, l’Endimione, gli Orti esperidi, l’Angelica. Diamo un’occhiata all’Angelica. Di rincontro a’ protagonisti, Angelica e Orlando, stanno Licori e Tirsi. C’è il solito antagonismo tra la cittá e la campagna, la scaltrezza di Angelica e l’ingenuitá di Licori: onde nasce un intrighetto che riesce nel piú schietto comico. Le furie di Orlando non possono turbare la pace idillica diffusa su tutto il quadro, e lo stesso Orlando finisce idillicamente:


                               Torna, torna ad amarmi e ti perdono.
     Aurette leggiere,
che intorno volate,
tacete, fermate,
ché torna il mio ben.
     
[p. 327 modifica]Angelica lascia per sempre quegli ameni soggiorni con quest’arietta :


                                    Io dico all’antro: — Addio! —
ma quello al pianto mio
sento che, mormorando:
— Addio! — risponde.
     Sospiro, e i miei sospiri
ne’ replicati giri
Zeffiro rende a me
da quelle fronde.
     


La canzonetta di Licori, penetrata di una malinconia dolce e molle, è giá canto e musica, una pura esalazione melodica, una espressione sentimentale rigirata in se stessa, come un ritornello:


                                    Ombre amene,
amiche piante,
il mio bene,
il caro amante
chi mi dice ove ne andò?
     Zeffiretto lusinghiero,
a lui vola messaggiero:
di’ che torni, e che mi renda
quella pace che non ho.
     


Concetti e immagini oramai comunissime, senza piu. alcun valore letterario, e rimaste interessanti solo come combinazioni melodiche. L’effetto non è nelle idee, ma in quel canto di due amanti a una certa lontananza e nascosti tra le fronde; perché, mentre Licori cerca Tirsi, Tirsi cerca Licori con la stessa melodia:


                                    La mia bella
pastorella,
chi mi dice ove ne andò?
     


È notabile che in questa cheta atmosfera idillica penetra una cert’aria di buffo, un certo movimento vivace e allegro, come è la dichiarazione amorosa di Licori a Orlando, ascoltatore non visto Tirsi. [p. 328 modifica]

La Bulgarelli, celebre cantante, che negli Orti esperidi rappresentava la parte di Venere, prese interesse al giovane autore e lo addestrò in tutt’i misteri del teatro. Il maestro Porpora gl’insegnò la musica. Questa fu la seconda educazione di Metastasio, corrispondente alla sua vocazione. Roma ne avea fatto un arcade: Napoli ne fece un poeta. La Didone abbandonata, scritta sotto l’ispirazione e la guida della Bulgarelli, fissò l’opinione, e Metastasio prese posto d’un tratto accanto ad Apostolo Zeno, che tenea il primato, poeta cesareo alla corte di Vienna. Piú tardi, a proposta dello stesso Zeno, occupò egli quell’ufficio, e menò a Vienna vita pacifica e agiata, universalmente stimato e tenuto senza contrasto principe della poesia melodrammatica. La sua vita fu un idillio; e, se questo è felicitá, visse felicissimo sino alla tarda etá di ottantaquattro anni. Vivo ancora, fu divinizzato. Lo chiamarono il «divino Metastasio».

Se guardiamo al meccanismo, il suo dramma è congegnato a quel modo che avea giá mostrato Apostolo Zeno. Ma il meccanismo non è che la semplice ossatura. Metastasio spirò in quello scheletro le grazie e le veneri di una vita lieta e armoniosa. E fu il poeta del melodramma, di cui lo Zeno era stato l’architetto.

La sua idea fissa fu di costruire il melodramma come una tragedia, tale cioè che anche senz’accompagnamento musicale avesse il suo effetto. E la sua ambizione fu di lasciare le basse regioni dell’idillio e del buffo, e tentare i piú alti, e nobili argomenti del «genere tragico», come se la nobiltá fosse nell’argomento. Questo si vede giá nella Didone e nel Catone in Utica. Piú tardi volle gareggiare coi grandi poeti francesi, e il Cinna di Corneille ebbe il suo riscontro nella Clemenza di Tito, e l’Atala di Racine nel Gioas. Su questa via porse il fianco alla critica, e sorsero dispute se e fino a qual punto i suoi drammi fossero tragedie. Ed ecco in mezzo l’inevitabile Aristotele e le famose quistioni delle unitá drammatiche. Metastasio si mescolò nella contesa, e nell’Estratto dell’«Arte poetica» di Aristotile addusse indirettamente argomenti in suo favore. La critica era ancora cosi impastoiata nell’esterno meccanismo, che molti seriamente domandarono come potesse esser tragedia un dramma [p. 329 modifica]che aveva soli tre atti. A Metastasio pareva quasi una degradazione scendere dall’alto seggio di poeta tragico, ed essere rilegato fra melodrammatici. Pregiudizio instillatogli dal Gravina che non vedea di lá dalla tragedia classica. La Merope del Maffei, che allora levava molto rumore, l’offuscava; e noi lasciava dormire la gloria di Corneille e di Racine. Ranieri de’ Calsabigi, celebre per la polemica ch’ebbe poi con Alfieri intorno al Filippo, sosteneva che quei drammi fossero proprie e vere tragedie. E nella medaglia, che dopo la sua morte i Martinez fecero incidere in suo onore, si leggeva questo motto: «Sophocli italo». Ma il pubblico, che lo idolatrava, si ostinò a chiamare le sue opere teatrali non «tragedie» e neppure «melodrammi», ma «drammi», come quelli che avevano un valore in sé, anche fuori della musica. E il pubblico avea ragione. Sono una poesia giá penetrata e trasformata dalla musica, ma che si fa ancora valere come poesia. Stato di transizione, che dá una fisonomia al nostro «Sofocle». Piú tardi, quei drammi, come letteratura, paiono troppo musicali, e ne nasce la reazione di Alfieri; come musica, paiono troppo letterari, e ne nasce la reazione del melodramma in due atti. Si potrebbe conchiudere che perciò appunto quei drammi sono cosa imperfetta, troppo musicali come poesia e troppo poetici come musica: perciò abbandonati dalla musica e offuscati dalla nuova letteratura. Il che avviene facilmente a chi sta tra due e non ha chiara coscienza di quello che vuol fare.

Pure, è certo che quei drammi ebbero al Ior tempo un successo maraviglioso, e che anche oggi, in una societá cosi profondamente mutata, producono il loro effetto. È noto l’entusiasmo di Rousseau e l’ammirazione di Voltaire per questo poeta. In Italia i critici, dopo un breve armeggiare, gli s’inchinarono, tratti dall’onda popolare. Certi luoghi, che fanno sorridere il critico, movono oggi ancora il popolo, gli tirano applausi. Nessun poeta è stato cosi popolare come il Metastasio, nessuno è penetrato cosi intimamente nello spirito delle moltitudini. Ci è dunque ne’ suoi drammi un valore assoluto, superiore alle occasioni, resistente alla stessa critica dissolvente del secolo decimonono. [p. 330 modifica]

Gli è che quella sua oscura coscienza, quel distacco tra quello che vuol fare e quello che fa, quella poesia che non è ancora musica e non è piú poesia, è non capriccio, pregiudizio o pedanteria individuale, ma la forma stessa del suo genio e del suo tempo. Perciò non è costruzione artificiosa, come la tragedia del Gravina o il poema del Trissino, ma è composizione piena di vita, che nella sua spontaneitá produce risultati superiori alle intenzioni del compositore. Ciò ch’egli vi mette con intenzione e con coscienza, non è il pregio, ma il difetto del lavoro. E intorno a questo difetto arzigogolavano lui e i critici.

Se vogliamo gustarlo, facciamo come il popolo. Non domandiamo cosa ha voluto fare, ma cosa ha fatto, e abbandoniamoci alla schiettezza delle nostre impressioni. Anche il critico, se vuol ben giudicare, dee abbandonarsi alla sua spontaneitá, come l’artista.

Prendiamo il primo suo dramma, la Didone. Volea fare una tragedia. Studiò l’argomento in Virgilio e piú in Ovidio. Ma andate a fare una tragedia con quell’uomo e con quella societá. Non capiva che a quella societá e a lui stesso mancava la stoffa da cui può uscire una tragedia. Fare una tragedia con la Bulgarelli consigliera, con maestro Porpora direttore, con quel Sarro compositore, e col pubblico dell’Angelica e degli Orti esperidi, e in presenza della sua anima elegiaca, idillica, melodica, impressionabile e superficiale, come il suo pubblico! Ne usci non una tragedia, che sarebbe stata una pedanteria nata morta, ma un capolavoro, tutto caldo della vita che era in lui e intorno a lui, e che anche oggi si legge con aviditá da un capo all’altro. La Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche sono soverchiate da impressioni fresche e contemporanee. Sotto nome di «Didone» qui vedi l’Armida del Tasso, messa in musica. La donna olimpica o paradisiaca cede il posto alla donna terrena, come l’ha abbozzata il Tasso in questa tra le sue creature la piú popolare, dalla quale scappan fuori i piú vari e concitati moti della passione femminile, le sue smanie e le sue furie. Ma è un’Armida col comento della Bulgarelli, alla [p. 331 modifica]cui ispirazione appartengono i movimenti comici penetrati in questa natura appassionata, com’è nella scena della gelosia, applauditissima alla rappresentazione. Una Didone cosi fatta non ha niente di classico: qui non ci è Virgilio, e non Sofocle: tutto è vivo, tutto è contemporaneo. La passione non ha semplicitá e non ha misura, e nella sua violenza rompe ogni freno, perde ogni decoro. Se in Didone fosse eminente il patriottismo, il pudore, la dignitá di regina, l’amore de’ suoi, la pietá verso gl’iddii, se in lei fosse piú accentuata l’eroina, il contrasto sarebbe drammatico, altamente tragico. Ma l’eroina, c’è a parole, e la donna è tutto: la passione, unica dominatrice, diviene come una pazzia del cuore, cinica e sfrontata sino al grottesco, e scende dritta la scala della vita sino alle piú basse regioni della commedia. Al buon Pindemonte dánno fastidio alcuni tratti comici, e non vede che sotto forme tragiche la situazione è sostanzialmente comica; sicché, se in ultimo Enea si potesse rappattumare con l’amata, sarebbe il dramma, con lievi mutazioni, una vera commedia. E non giá una commedia costruita artificialmente, ma còlta dal vero, perché è la donna come poteva essere concepita in quel tempo, ispirata dalla Bulgarelli e da quel pubblico nell’anima conforme del poeta, e contro le sue intenzioni e senza sua coscienza. A Metastasio, che voleva fare una tragedia, dire che aveva partorito una commedia in forma tragica, sarebbe stato come dire una bestemmia. Il comico è in quei si e no della passione, in quei movimenti subitanei, irrefrenabili, che scoppiano improvvisi e contro l’aspettazione; nell’ irragionevole, spinto sino all’assurdo; negl’intrighi e nelle scaltrezze di bassa lega, piú da donnetta che da regina: e tutto cosi a proposito, cosi naturale, con tanta vivacitá, che il pubblico ride e applaude, come volesse dire: — È vero. — Fu per il poeta un trionfo. Alcuni motti rimasero proverbiali, come:


                                              Temerario! Che venga!      


quando allora allora avea detto:


                               Mai piú non mi vedrá quell’alma rea.      
[p. 332 modifica]O come:
                               Passato è il tempo, Enea,
che Dido a te pensò.
     


La sua sortita contro Arbace, quasi nello stesso punto che gli aveva promessa la sua mano, quel cacciar via da sé Osmida e Selene nella cecitá del suo furore, le sue credulitá, le sue dissimulazioni, le sue astuzie; tutto ciò è tanto piú comico quanto è meno intenzionale, contemperato co’ moti piú variati di un’anima impressionabile e subitanea: sdegni che son tenerezze, e minacce che sono carezze. C’ è della Lisetta e della Colombina sotto quel regio manto. E tutto il quadro è conforme. Iarba con le sue vanterie e le sue pose rasenta il bravo della commedia popolare; Selene, ch’è l’«Anna, soror mea», rappresenta la parte della «patita» con molta insipidezza; e il pio Enea nella sua parte di «amoroso» attinge il piú alto comico, massime quando Didone lo costringe a tenerle la candela. Il nodo stesso dell’azione ha l’aria di un intrigo di bassa commedia, co’ suoi equivoci e i suoi incontri fortuiti.

La Didone fece il giro de’ teatri italiani. E dappertutto piacque. Metastasio indovinava il suo pubblico e trovava se stesso. Quel suo dramma, a superficie tragica, a fondo comico, coglieva la vita italiana nel piú intimo: quel suo contrasto tra il grandioso del di fuori e la vacuitá del di dentro. Il tragico non era elevazione dell’anima, ma una semplice fonte del maraviglioso, cosi piacevole alla plebe, come incendii, duelli, suicidii. Il comico riconduceva quelle magnifiche apparenze di una vita fantastica nella prosaica e volgare realtá, piccoli intrighi, amori pettegoli, stizze, braverie. Concordare elementi cosi disparati, fondere insieme fantastico e reale, tragico e comico, sembra poco meno che impossibile : pure, qui è fatto con una facilitá piena di brio e senz’alcuna coscienza, com’ è la vita nella sua spontaneitá. L’illusione è perfetta. Una vita cosi fatta pare un’assurditá: pure è lá, fresca, giovane, vivace, armonica e t’investe e ti trascina. Il povero Metastasio, inconscio del grande miracolo, si difendeva con Aristotele e con Orazio: alle vecchie critiche si [p. 333 modifica]aggiunsero le nuove. Oggi la ragione e l’estetica condannano quella vita come convenzionale e incoerente; ma essa è lá, nella sua giovanezza immortale, e le basta rispondere: — Io vivo. — E, se l’estetica non l’intende, tanto peggio per l’estetica.

Metastasio aveva tutte le qualitá per produrre quella vita. Brav’uomo, buon cristiano, nel suo mondo interiore ci erano tutte le virtú, ma in quel modo tradizionale e abituale ch’era possibile allora, senza fede, senza energia, senza elevatezza d’animo, perciò senza musica e senza poesia. Cosi erano Vico e Muratori, bonissima gente, ma senza quella fiamma interiore, dove si scalda il genio del filosofo e del poeta. Erano personaggi idillici, veneranda immagine di una societá tranquilla e prosaica. Vico agitava i piú grandi problemi sociali con la calma di un erudito. E si comprende come la poesia si cercasse in quel tempo fuori della societá, nell’etá dell’oro e nella vita pastorale. Ma nessuno può fuggire alla vita che lo circonda. Patria, religione, onore, amore, libertá operavano in quella vita posticcia, come in quella pacifica societá, con perfetto riposo ed equilibrio dell’anima. Metastasio, che cercava la tragedia con la testa, era per il carattere un arcade, tutto Nice e Tirsi, tutto sospiri e tenerezze. Da questa natura idillica poteva uscire l’elegia, non la tragedia. Aveva, come il Tasso, grande sensibilitá, molta facilitá di lacrime, ma superficiale sensibilitá, che poteva increspare, non turbare il suo mondo sereno. Non si può dir che la sua sensibilitá fosse malinconia, la quale richiede una certa durata e consistenza : era emozione nata da subitanei moti interni, e che passava con quella stessa facilitá che veniva. Questo difetto di analisi e di profonditá nel sentimento manteneva al suo mondo il carattere idillico, non lo trasformava, ma lo accentuava e lo coloriva nel suo movimento; perché l’idillio senza elegia è insipido. Una immaginazione non penetrata dalla serietá di un mondo interiore, appena ventilata dal sentimento, scorre leggiera su questo mondo idillico, e vi annoda e snoda una folla di accidenti, che gli dánno varietá e vivacitá. Sembrano sogni che svaniscono appena formati, ma con tale chiarezza plastica ne’ sentimenti e nelle immagini, che vi prendi [p. 334 modifica]la piu viva partecipazione. Il poeta vi s’intenerisce, vi si trastulla, vi si dimentica:


                               Sogni e favole io fingo; e pure, in carte
mentre favole e sogni orno e disegno,
in lor, folle ch’io son, prendo tal parte,
che del mal, che inventai, piango e mi sdegno.
     


Di sogni e favole ce n’era tutto un arsenale nelle nostre infinite commedie e novelle, dove attingevano anche i forestieri e dove attinge Metastasio. Ciò a cui mira è sorprendere, fare un colpo di scena, guidato dalla sua grand’esperienza del teatro e del pubblico. Ingegno svegliato e rapido, non perde mai di vista lo scopo, non s’indugia per via, divora lo spazio, sopprime, aggruppa, combina, producendo effetti subitanei e perciò irresistibili. Combinazioni drammatiche, che, appunto perché mirano a uno scopo meramente teatrale, mancano di serietá interiore, e spesso hanno aria d’intrighi comici, con quei viluppi, con quegli equivoci, con quei parallelismi. Né solo il comico è nella logica stessa di quelle combinazioni, ma nella natura de’ fatti, che spesso sono episodi della vita comune nella sua forma piú pettegola e civettuola. Cosi un eroico puramente idillico andava a finire ne’ bassi fondi della commedia. Cesare sonava il violino e faceva all’amore. Tale era Metastasio, e tale era il suo tempo, idillico, elegiaco e comico : vita volgare in abito eroico, vellicata dalle emozioni dell’elegia e idealizzata nell’idillio.

Si può ora comprendere il meccanismo del dramma metastasiano. Sta in cima l’eroe o l’eroina, Zenobia o Issipile, Temistocle o Tito. L’eroe ha tutte le perfezioni che la poesia ha collocate nell’etá dell’oro, e sveglia l’eroismo intorno a sé, rende eroici anche i personaggi secondari. Piú l’etá è prosaica, piú esagerato è l’eroismo, abbandonato a una immaginazione libera, che ingrandisce le proporzioni ad arbitrio, con non altro scopo che di eccitare la maraviglia. Il maraviglioso è in questo : che l’eroe è un’antitesi accentuata e romorosa alla vita comune, offrendo in olocausto alla virtú tutt’i sentimenti umani, come [p. 335 modifica]Abramo pronto a uccidere il figlio. Cosi Enea abbandona Didone per seguire la gloria, Temistocle e Regolo vanno incontro a morte per amor della patria, Catone si uccide per la libertá, Megacle offre la vita per l’amico, e Argene per l’amato. Questa forza di soffocare i sentimenti umani e naturali, che regolano la vita comune, era detta «generositá» o «magnanimitá», «forza» o «grandezza di animo», com’ è il perdono delle offese, il sacrificio dell’amore o della vita. Situazione tragica, se mai ce ne fu, anzi il fondamento della tragedia. Ma qui rimane per lo piú elegiaca, feconda di emozioni superficiali, momentanee e variate, che in ultimo sgombrano a un tratto e lasciano il cielo sereno. La generositá degli uni provoca la generositá degli altri; l’eroismo opera come corrente elettrica, guadagna tutt’i personaggi; e tutto si accomoda come nel migliore de’ mondi, tutti eroi e tutti contenti. Di questa superficialitá, che resta ne’ confini dell’idillio e dell’elegia e di rado si alza alla commozione tragica, la ragione è questa : che la virtú vi è rappresentata non come il sentimento di un dovere preciso e obbligatorio per tutti, corrispondente alla vita pratica, ma come un fatto maraviglioso, che per la sua straordinarietá tolga il pubblico alla contemplazione della vita comune. Perciò è una virtú da teatro, un eroismo da scena. Piú le combinazioni sono straordinarie, piú le proporzioni sono ingrandite, e piú cresce l’effetto. I personaggi posano, si mettono in vista, sentenziano, si atteggiano, come volessero dire:— Attenti! ora viene il miracolo. — Temistocle dice:


                                                   Sentimi, o Serse;
Lisimaco, m’ascolta; udite, o voi,
popoli spettatori,
di Temistocle i sensi; e ognun ne sia
testimonio e custode.
     


In questo meccanismo trovi sempre la collisione, il contrasto tra l’eroismo e la natura. L’eroismo ha la sua sublimitá nello splendore delle sentenze. La natura ha il suo patetico nelle tenere effusioni de’ sentimenti. Ne nasce un urto vivace di sentimenti e di sentenze, con alterna vittoria e con crescente [p. 336 modifica]sospensione, come nel soliloquio di Tito; insino a che natura ed eroismo fanno la loro riconciliazione in un modo cosi inaspettato e straordinario, com’è tutto l’intrigo. Tito fa condurre Sesto all’arena, deliberato giá di perdonargli : non gli basta la virtú, vuole lo spettacolo e la sorpresa. Questa, che a noi pare una moralitá da scena, era a quel tempo una moralitá convenuta, ammessa in teoria, ammirata, applaudita, a quel modo che le romane battevano le mani ai gladiatori che morivano per i loro begli occhi. Si direbbe che Tito facesse il possibile per meritarsi gli applausi del pubblico. Appunto perché questo eroismo non aveva una vera serietá di motivi interni e non veniva dalla coscienza, quel mondo atteggiato all’eroica aveva del comico, ed era possibile che vi penetrasse senza stonatura la societá contemporanea nelle sue parti anche buffe e volgari. Prendiamo l’Adriano. Vincitore de’ Parti, proclamato imperatore, Adriano si trova in una delle situazioni piú strazianti, promesso sposo di Sabina, amante di Emirena figlia del suo nemico, e rivale di Farnaspe, l’amato di Emirena. Situazione molto avviluppata, e che diviene intricatissima per opera di un quarto personaggio, Aquilio, confidente di Adriano, amante secreto di Sabina, e che perciò fomenta la passione del suo padrone. Emirena, per salvare il padre, offre la mano ad Adriano. La generositá di Emirena eccita la generositá di Sabina, che scioglie Adriano dalla data fede. La generositá di Sabina eccita la generositá di Adriano, che libera il padre di Emirena, rende costei al suo amato, e sposa Sabina. E tutti felici, e il coro intuona le lodi di Adriano. Ma guardiamo in fondo a questi personaggi eroici. Adriano è una buona natura d’uomo, tutt’altro che eroica, voltato in qua e in lá dalle impressioni, mobile, superficiale, credulo, insomma un buon uomo che rasenta l’imbecille. Non è lui che opera: egli è il paziente, anziché l’agente del melodramma, e, come colui che dá ragione a chi ultimo parla, dá sempre ragione all’ultima impressione. Si trova eroe per occasione, un eroe cosi equivoco, che impedisce ad Emirena di baciargli la mano, tremando di una nuova impressione. Maggiori pretensioni all’eroismo ha Osroa, il re de’ Parti, reminiscenza [p. 337 modifica]di Iarba. Un patriota, che appicca l’incendio alla reggia, che uccide un creduto Adriano, che è condannato a morte, che supplica la figlia di ucciderlo, sarebbe un carattere interessantissimo, se nel pubblico e nel poeta ci fosse il senso del patriottismo. Ma Osroa ha piu dell’avventuriere che dell’eroe, e di un avventuriere sciocco e avventato, che non sa proporzionare i mezzi allo scopo, e nelle situazioni piú appassionate della vita discute, sentenzia. A Emirena, la sua figlia, che ricusa di ucciderlo, risponde:


                                    Non è ver che sia la morte
il peggior di tutt’ i mali:
è un sollievo de’ mortali
che son stanchi di soffrir.
     


Aquilio è una caricatura di Iago, un basso e sciocco intrigante da commedia. Sabina, Emirena, Farnaspe sono nature superficialissime, incalzate dagli avvenimenti, senza intima energia negli affetti, e tratte ad atti generosi per impeti subitanei. Se dunque ci approfondiamo in questo mondo eroico, vediamo con quanta facilita si sdrucciola nel comico e come, sotto un contrasto apparente, in veritá questa vita eroica è in se stessa di quella mezzanitá, che può accogliere nel suo seno il volgare e il buffo della societá contemporanea. Di tal natura è la scena in cui Emirena finge di non riconoscere il suo innamorato, che rimane li stupido e col naso allungato; o l’altra in cui Aquilio insegna ad Emirena l’arte della cortigiana, ed Emirena, botta e risposta, gli fa il ritratto del cortigiano; o quando Adriano si fa menare pel naso da Osroa; o l’arrivo improvviso di Sabina da Roma, e l’imbarazzo di Adriano; o quando Adriano giura di non vedere piú Emirena, e gli si annunzia : — Viene Emirena. — Tutto questo, che in fondo è comico, non è sviluppato comicamente, né c’ è l’intenzione comica; perciò non c’è stonatura: è la societá contemporanea nel suo spirito, nella sua volgaritá e mezzanitá, vestita di apparenze eroiche. Se Metastasio avesse il senso dell’eroico e lo rappresentasse seriamente e profondamente, la mescolanza sarebbe insopportabile, anzi mescolanza [p. 338 modifica]non ci sarebbe; ma concepisce l’eroico come era concepito e sentito in quella volgaritá contemporanea. Il poeta è in perfetta buona fede: non sente ciò che di basso e di triviale è sotto quell’apparato eroico, uno di spirito e di carattere col suo pubblico. Ben ne ha una coscienza confusa, e non è proprio contento, e tenta talora alcunché di piú elevato, come nel Regolo e nel Gioas, senza riuscirvi; si scopre l’antico Adamo. E fu ventura, perché cosi non ci die’ costruzioni artificiose e imitazioni aliene dalla sua natura, ma riuscí artista originale e geniale, l’artista indimenticabile di quella societá.

Questa vita, cosi assurda nella sua profonditá, ha tutta l’illusione del vero nella sua superficie. Approfondire i sentimenti, sviluppare i caratteri, graduare le situazioni sarebbe una falsificazione. La superficialitá è la sua condizione di esistenza. È una vita, di cui vedi le punte e ignori tutto il processo di formazione: una specie di vita a vapore, che nella rapida corsa divora spazi infiniti e non ti mostra che i punti di arrivo. Sbucciano sentimenti e situazioni cosi di un tratto, e spesso ti trovi di un balzo da un estremo all’altro. Sei in un continuo flutto d’impressioni variatissime, di poca durata e consistenza, libate appena, con sentimenti vivacissimi, penetranti gli uni negli altri, come onde tempestose. Scusano questa superficialitá con la musica, quasi che la musica potesse o compiere o sviluppare o approfondire i sentimenti; ma la musica metastasiana non era se non il prolungamento o l’eco del sentimento, il semplice trillo della poesia, il suo accompagnamento, perché quella poesia è giá in sé musica e canto. Una vita cosi superficiale non può essere che esteriore. È vita per lo piú descritta, come giá si vede nel Guarini e nel Marino. I personaggi nella maggior violenza de’ loro sentimenti si descrivono, si analizzano, com’ è proprio di una societá adulta, in cui la riflessione e la critica ti segue nel momento stesso dell’azione. Ti trovi nel piú acuto della concitazione; e quando alla fine ti aspetti quasi un delirio, ti sopraggiunge un’analisi, una sentenza, un paragone, una descrizione psicologica. Licida snuda il brando; vuole uccidere il suo offensore; poi lo volge in sé, e si arresta, e fa la sua analisi: [p. 339 modifica]

                                                   Rabbia, vendetta,
tenerezza, amicizia,
pentimento, pietá, vergogna, amore
mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide
anima lacerata
da tanti affetti e si contrari! Io stesso
non so come si possa
minacciando tremare, arder gelando,
piangere in mezzo all’ ire,
bramar la morte e non saper morire.
     


Il drammatico va a riuscire in un sonetto petrarchesco. Aristea cosi si descrive a Megacle :


                                              Caro, son tua cosi,
che per virtú d’amor
i moti del tuo cor
risento anch’ io.
     Mi dolgo al tuo dolor,
gioisco al tuo gioir,
ed ogni tuo desir
diventa il mio.
     


E Megacle, seguendo l’amico Licida nella sua sventura, esce in questo bel paragone :


                                              Come dell’oro il fuoco
scopre le masse impure,
scoprono le sventure
de’ falsi amici il cor.
     


Questi riposi musicali sono come l’arpa di David, che calmava le furie di Saul : rinfrescano l’anima e la tengono in equilibrio fra passioni cosi concitate. E sono sopportabili, appunto perché mescolati co’ moti piú vivaci, con la piú impetuosa spontaneitá del sentimento, offrendoti lo spettacolo della vita nelle sue piú varie apparenze. Argene, che sfida la morte per salvare l’amato e si sente alzare su di sé, come invasata da un iddio, è sublime:


                                    Fiamma ignota nell’alma mi scende;
sento il nume; m’inspira, m’accende,
di me stessa mi rende maggior.
     
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                                    Ferri, bende, bipenni, ritorte,
pallid’ombre, compagne di morte,
giá vi guardo, ma senza terror.
     

Commovente è la gioia quasi delirante di Aristea nel rivedere l’amato. Di un elegiaco ineffabile è il canto di Timante, quando la madre gli presenta il suo bambino:


                                              Misero pargoletto,
il tuo destin non sai.
Ah; non gli dite mai
qual era il genitor.
     Come in un punto, o Dio,
tutto cambiò d’aspetto!
Voi foste il mio diletto,
voi siete il mio terror.
     


Alcuni motti tenerissimi sono rimasti proverbiali, come:


                                              Ne’ giorni tuoi felici
ricòrdati di me.
     


Questa vita, nei suoi moti alterni di spontaneitá e di riflessione cosi equilibrata, essendo superficiale ed esteriore, ha per suo carattere la chiarezza, è visibile e plastica. Le gradazioni piú fine, i concetti piú diffícili sono resi con una estrema precisione di contorni, e perciò non hanno riverbero : appagano e saziano lo sguardo, lo tengono sulla superficie; non lo gittano nel profondo. Questa chiarezza metastasiana, tanto vantata e cosi popolare, perché il popolo è tutto superficie, è la forma nell’ultimo stadio della sua vita, quando a forza di precisione diviene massiccia e densa come il marmo. La vecchia letteratura vi raggiunge l’ultima perfezione; l’espressione perde ogni trasparenza, e non è che se stessa e sola, e vi si appaga come un infinito. Stato di petrificazione, che oggi dicesi «letteratura popolare», come se la letteratura debba scendere al popolo e non il popolo debba salire a lei. Metastasio vi spiega un talento miracoloso. Quella vecchia forma, prima di morire, manda gli ultimi splendori. La chiarezza non è in lui superficie morta, ma è la vita nella [p. 341 modifica]sua superficie, paga e contenta della sua esterioritá, con una facilitá e una rapiditá, con un giuoco pieno di grazia e di brio. Il periodo perde i suoi giri, la parola perde le sue sinuositá, liscia, scorrevole, misurata come una danza, accentuata come un canto, melodiosa come una musica. Le impressioni che te ne vengono sono vivaci, ma labili; e ti lasciano contento, ma vuoto, come dopo una festa brillante che ti ha divertito e a cui non pensi piú.

Il mondo metastasiano può parere assurdo innanzi alla filosofia, come innanzi alla filosofia pareva assurda la societá eh’esso rappresentava. Come arte, niente è piú vero per coerenza, per armonia, per interna vivacitá. È il ritratto piú fiorito di una societá vicina a sciogliersi, le cui istituzioni erano ancora eroiche e feudali, materia vuota dello spirito che un tempo l’animò, e che sotto quelle apparenze eroiche era assonnata, spensierata, infemminita, idillica, elegiaca e plebea. Guardatela. Essa è tutta profumata, incipriata, col suo codino, col suo spadino, cascante, vezzosa, sensitiva come una donna, tutta «idolo mio», «mio bene» e «vita mia». La poesia di Metastasi© l’accompagna con la sua declamazione, con la sua cantilena; la parola non ha piú niente a dirle; essa è il luogo comune, che acquista valore trasformata in trillo, con le sue fughe e le sue volate, co’ suoi bassi e i suoi acuti; non è piú un’ idea, è un suono raddolcito dagli accenti, dondolato dalle rime, attenuato in quei versetti, ridotto un sospiro. Una poesia, che cerca i suoi mezzi fuori di sé, che cerca i suoi motivi e i suoi pensieri nella musica, abdica giá, pronunzia la sua morte. Ben presto Metastasio sembra troppo poeta al maestro di musica, né il pubblico sa piú che farsi della parola, e non domanda cosa dice, ma come suona. La parola, dopo di avere tanto abusato di sé, non vai piú nulla, e la stessa parola metastasiana, cosi leggiera, cosi rapida, non può essere sopportata. La parola è la nota, e i nuovi poeti si chiamano Pergolese, Cimarosa, Paisiello. Cosi terminava il periodo musicale della vecchia letteratura, iniziato nel Tasso, sviluppato nel Guarini e nel Marino, giunto alla sua crisi in Pietro Metastasio. Oramai si viene [p. 342 modifica]a questo: che prima si fa la musica, e poi Giuseppe secondo dice al suo nuovo poeta cesareo, all’abate Casti: — Ora fatemi le parole.