Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XX. La nuova letteratura/II.

XX. La nuova letteratura - II.

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ii


In seno a questa societá in dissoluzione si formava laboriosamente la nuova societá. E che ce ne fosse la forza, si vedeva da questo: che non teneva piú gran conto della forma letteraria, stata suo idolo, e che cercava nuove impressioni nel canto e nella musica. Il letterato, che aveva rappresentata una parte cosí importante, cade in discredito. I nuovi astri sono Farinello e Caffarello, Piccinni, Leo, Iommelli. La musica ha un’azione benefica sulla forma letteraria, costringendola ad abbreviare i suoi periodi, a sopprimere il suo cerimoniale e la sua solennitá, i suoi aggettivi, i suoi ripieni, le sue perifrasi, i suoi sinonimi, i suoi parallelismi, le sue trasposizioni, tutte le sue dotte inutilitá, e a prendere un’aria piú spedita e andante. Gli orecchi, avvezzi alla rapiditá musicale, non possono piú sopportare i periodi accademici e le tirate rettori che. E se Metastasio è chiamato «divino», è per la musicalitá della sua poesia, per la chiarezza, il brio e la rapiditá dell’espressione. Il pubblico abbandonando la letteratura, la letteratura è costretta a seguire il pubblico. E il pubblico non è piú l’accademia, ancorché di accademie fosse ancora grande il numero, prima l’Arcadia. E non è piú la corte, ancorché i principi avessero ancora intorno istrioni e giullari sotto nome di «poeti». La coltura si è distesa, i godimenti dello spirito sono piú variati: i periodi e le frasi non bastano piú. Compariscono sulla scena filosofi e filantropi, giureconsulti, avvocati e scienziati, musici e cantanti. La parola acquista valore nell’ugola e nella nota, ed è piú interessante nelle pagine di Beccaria o di Galiani che ne’ libri letterari. Oramai non si dice piú «letterato», si dice «bell’ingegno» o «bello spirito». Il «letterato» diviene sinonimo di «parolaio», e la parola come parola è merce scadente. La parola non può ricuperare la sua importanza se non [p. 343 modifica]rifacendosi il sangue, ricostituendo in sé l’idea, la serietá di un contenuto. E questo volea dire il motto che era giá in tutte le labbra: «Cose e non parole».

Giá nella critica vedi i segni di questa grande rigenerazione. Rimasta fino allora nel vuoto meccanismo e tra regole convenzionali, la critica si mette in istato di ribellione, spezza audacemente i suoi idoli. Mentre ferveva la lotta giurisdizionale tra papa e principi, e i filosofi combattevano il passato nelle sue idee e nelle sue istituzioni, essa apre il fuoco contro la vecchia letteratura, battezzandola senz’altro «pedanteria». L’obbiettivo de’ filosofi e de’ critici era comune. Combattevano entrambi la forma vacua, gli uni nelle istituzioni, gli altri nell’espressione letteraria, ancorché senza intesa.

E come i filosofi, cosí i critici erano avvalorati e riscaldati nella loro lotta dagli esempi francesi e inglesi. Il Baretti veniva da Londra tutto Shakespeare; l’Algarotti, il Bettinelli, il Cesarotti, il Beccaria, il Verri erano in comunione intima con Voltaire e con gli enciclopedisti. Locke, Condillac, Dumarsais avevano allargate le idee e introdotto il gusto delle grammatiche ragionate e delle rettoriche filosofiche. Si vede la loro influenza nella Filosofia delle lingue del Cesarotti e nello Stile del Beccaria. Cosa dovea parere il Crescimbeni o il Mazzucchelli o il Quadrio, cosa lo stesso Tiraboschi, il Muratori della nostra letteratura, dirimpetto a questi uomini, che pretendevano ridurre a scienza ciò che fino allora era sembrato non altro che uso e regola? E non si contentarono, i critici, de’ trattati e de’ ragionamenti, ma vollero accostarsi un po’ piú al pubblico, usando forme spigliate e correnti, che preludevano ai nostri giornali. Tali erano le Lettere virgiliane del Bettinelli, la Difesa del Gozzi, la Frusta letteraria, il Caffè, l’Osservatore. Cosí la nuova critica dava a un tempo l’esempio di una nuova letteratura, gittando in circolazione molte idee nuove in una forma rapida, nutrita, spiritosa, vicina alla conversazione, in una forma che prendea dalla logica il suo organismo e dal popolo il suo tuono. Certo, questi critici non si accordavano fra loro, anzi si combattevano, come facevano anche i filosofi; ma erano tutti [p. 344 modifica]animati dalla stessa tendenza, uno era lo spirito. E lo spirito era l’emancipazione dalle regole o dall’autoritá, la reazione contro il grammaticale, il rettorico, l’arcadico e l’accademico, e, come in tutte le altre cose, cosí anche qui non ammettere altro giudice che la logica e la natura. Secondo il solito, la critica passò il segno e, nella sua foga contro le superstizioni letterarie, toccò anche il sacro Dante onde venne la bella Difesa che ne scrisse Gaspare Gozzi. Ma la critica veniva dalla testa e non aveva radice nell’educazione letteraria, che era stata anzi tutto l’opposto. Il che spiega come i critici, giudici ingegnosi de’ vivi e de’ morti, volendo essere scrittori, facevano mala prova, dando un po’ di ragione a’ retori e a’ grammatici, i quali, chiamati da loro «pedanti», chiamavano loro «barbari». Posti tra il vecchio, che censuravano, ed un nuovo modo di scrivere, chiaro nella loro testa, ma affatto personale, estraneo allo spirito nazionale e non preparato, anzi contraddetto nella loro istruzione, si gittarono alla maniera francese, sconvolsero frasi, costrutti, vocaboli, e, come fu detto poi, «imbarbarirono la lingua». Gaspare Gozzi tenne una via mezzana e, facendo buona accoglienza in gran parte alle nuove idee, non accettò sotto nome di libertá la licenza, e si studiò di tenersi in bilico tra quella pedanteria e quella barbarie, usando un modo di scrivere corretto, puro, classico, e insieme disinvolto. Ma il buon Gozzi, misurato, elegante, savio, rimase solo come avviene a’ troppo savi nel fervore della lotta, quando la via di mezzo non è ancora possibile, standosi di fronte avversari appassionati, confidenti nella loro forza e disposti a nessuna concessione. Stavano nell’un campo i puristi, che, non potendo invocare l’uso toscano, intorbidato anch’esso dall’imitazione straniera, invocavano la Crusca e i classici, e, come non era potuta piú tollerare la prolissitá vacua del Cinquecento, rimettevano in moda il Trecento, quale esempio di scrivere semplice, conciso e succoso; onde venne quel motto felice: «Il Trecento diceva, il Cinquecento chiacchierava». Costoro erano, il maggior numero, cruscanti, arcadi, accademici, puri letterati: tutti brava gente, che avevano in sospetto ogni novitá e non volevano essere turbati nelle loro [p. 345 modifica]abitudini. Nell’altro campo erano i filosofi, che non riconoscevano autoritá di sorta, e tanto meno quella della Crusca; che invocavano la loro ragione e vagheggiavano una nuova Italia cosí in letteratura come nelle istituzioni e in tutti gli ordini sociali. I critici rappresentavano la parte della filosofia nelle lettere, senza occuparsi di politica; anzi spesso la loro insolenza letteraria era mantello alla loro servilitá politica, come fu del gesuita Bettinelli e del Cesarotti. In prima fila tra’ contendenti erano l’abate Cesari e l’abate Cesarotti. Il Cesari, nella sua superstizione verso i classici, cancellò in sé ogni vestigio dell’uomo moderno. Il Cesarotti, di molto piu. spirito e coltura, nella sua irreligione verso gli antichi andò cosí oltre, che volle fare il pedagogo a Omero e Demostene, e andò in cerca di una nuova mitologia nelle selve calidonie. Quando comparve l’Ossian, girò la testa a tutti: tanto eran sazi di classicismo. Il bardo scozzese fu per qualche tempo in moda, e Omero stesso si vide minacciato nel suo trono. Si sentiva che il vecchio contenuto se ne andava insieme con la vecchia societá, e in quel vuoto ogni novitá era la benvenuta. Quei versi armoniosi e liquidi, in tanto cozzo di spade scintillanti tra le nebbie, fecero dimenticare i Frugoni, gli Algarotti e i Bettinelli. Cominciava una reazione contro l’idillio, espressione di una societá sonnolenta e annoiata in grembo a Galatea e a Clori, e piacevano quei figli della spada, quelle nebbie e quelle selve, e quei signori de’ brandi e quelle vergini della neve. Gli arcadi si scandalizzavano; ma il pubblico applaudiva. Per vincere Cesarotti, non bastava gridargli la croce: bisognava fare e piacere al pubblico. Ora l’attivitá intellettuale era tutta dal canto de’ novatori: chi aveva un po’ d’ingegno, «si gittava al moderno», come si diceva, nelle dottrine e nel modo di scrivere; e si acquistava nome di «bello spirito» dispregiando i classici, come di «spirito forte» dispregiando le credenze. La vecchia letteratura, come la vecchia credenza, era detta «pregiudizio», e combattere il pregiudizio era la divisa del secolo illuminato, del secolo della filosofia e della coltura. Chi ricorda l’entusiasmo letterario del Rinascimento, può avere un giusto concetto di questo entusiasmo filosofico [p. 346 modifica]del secolo decimottavo. I fenomeni erano i medesimi. Allora si chiamava «barbarie» il medio evo: ora si chiama «barbarie» medio evo e Rinascimento. Lo stesso impeto negativo e polemico è ne’ due movimenti, foriero di guerre e di rivoluzioni. E ci erano le stesse idee, maturate e sviluppate oltralpe, strozzate presso di noi e rivenuteci dal di fuori. Anzi il movimento non è che un solo, prolungatosi per due secoli con diverse vicissitudini nelle varie nazioni, procedente sempre attraverso alle piú sanguinose resistenze, e ora accentrato e condensato sotto nome di «filosofia», fatto della letteratura suo istrumento. Questo volea dire il motto: «Cose e non parole». Volea dire che la letteratura, stata trastullo d’immaginazione senza alcuna serietá di contenuto e divenuta perfino un semplice giuoco di frasi, dovea acquistare un contenuto, essere l’espressione diretta e naturale del pensiero e del sentimento, della mente e del cuore: onde nacque piú tardi il barbaro vocabolo «cormentalismo». Messa la sostanza nel contenuto, quell’ideale della forma perfetta, gloria del Rinascimento e rimasto visibile nelle stesse opere della decadenza, come nel Pastor fido, nell’Adone, nel dramma di Metastasio, cesse il posto alla forma naturale, non convenzionale, non manifatturata, non tradizionale, non classica, ma nata col pensiero e sua espressione immediata. Perciò il Cesarotti, rispondendo al libro del conte Napione Sull’uso e su’ pregi della lingua italiana, sostenea nel suo Saggio sulla filosofia delle lingue che la lingua non è un fatto arbitrario e regolato unicamente dall’uso e dall’autoritá, ma che ha in sé la sua ragion d’essere; che la sua ragion d’essere è nel pensiero, e quella parola è migliore che meglio renda il pensiero, ancorché non sia toscana e non classica, e sia del dialetto o addirittura forestiera con inflessione italiana. Cosa era quel Saggio? Era l’emancipazione della lingua dall’autoritá e dall’uso in nome della filosofia o della ragione, come si volea in tutte le istituzioni sociali; era la ragione, il senso logico, che penetrava nella grammatica e nel vocabolario; era lo spirito moderno, che violava quelle forme consacrate e fossili, logore per lungo uso, e dava loro un’aria cosmopolitica, l’aria filosofica, a scapito del colore locale e [p. 347 modifica]nazionale. Aggiungendo l’esempio al precetto, il Cesarotti pigliò tutte le parole che gli venivano innanzi, senza domandar loro onde venivano; e, come era uomo d’ingegno e avea mente chiara e spirito vivace, formò di tutti gli elementi stranieri e indigeni della conversazione italiana una lingua animata, armonica, vicina al linguaggio parlato, intelligibile dall’un capo all’altro d’Italia. Gli scrittori, intenti piú alle cose che alle parole e stufi di quella forma, in gran parte latina, che si chiamava «letteraria», screditata per la sua vacuitá, e insipidezza, si attennero senza piú all’italiano corrente e locale, cosí com’era, mescolato di dialetto e avvivato da vocaboli e frasi e costruzioni francesi: lingua corrispondente allo stato della coltura. Cosí si scriveva nelle parti settentrionali e meridionali d’Italia, a Venezia, a Padova, a Milano, a Torino, a Napoli: cosí scrivevano Baretti, Beccaria, Verri, Gioia, Galiani, Galanti, Filangieri, Delfico, Mario Pagano. Resistenza ci era, massime a Firenze, patria della Crusca, e a Roma, patria dell’Arcadia: schiamazzi di letterati e di accademici abbandonati dal pubblico. Lo stesso era per lo stile. Si cercavano le qualitá opposte a quelle che costituivano la forma letteraria. Si voleva rapiditá, naturalezza e brio. Tutto ciò che era finimento, ornamento, riempitura, eleganza, fu tagliato via come un ingombro. Non si mirò piú ad una perfezione ideale della forma, ma all’effetto, a produrre impressioni sul lettore, tenendo deste e in moto le sue facoltá intellettive. I secreti dello stile furono chiesti alla psicologia, a uno studio de’ sentimenti e delle impressioni, base del Trattato dello stile del Beccaria. Al vuoto meccanismo, dottamente artificioso, solletico dell’orecchio, detto «stile classico», e ridotto oramai un frasario pesante e noioso, succedeva un modo di scrivere alla buona e al naturale, vispo, rotto, ineguale, pieno di movimenti, imitazione del linguaggio parlato. Tipo dell’uno era il trattato; tipo dell’altro era la gazzetta. Il principio, da cui derivava quella rivoluzione letteraria, era l’imitazione della natura, o, come si direbbe, il realismo nella sua veritá e nella sua semplicitá, reazione alla declamazione e alla rettorica, a quella maniera convenzionale, che si decorava col nome d’«ideale» [p. 348 modifica]o di «forma perfetta». La vecchia letteratura era assalita non solo nella sua lingua e nel suo stile, ma ancora nel suo contenuto. L’eroico, l’idillico, l’elegiaco, che ancora animava quelle liriche, quelle prediche, quelle orazioni, quelle tragedie, non attecchiva piú: se n’era sazi sino al disgusto. L’eroico era esagerazione, l’idillio era noia, l’elegia era insipidezza; pastori e pastorelle, eroi romani e greci, erano giudicati un mondo convenzionale, giá consumato come letteratura, buono al piú a esser messo in musica, come facea Metastasio. Si volea rinnovare l’aria, rinfrescare le impressioni: si cercava un nuovo contenuto, un’altra societá, un altro uomo, altri costumi. Vennero in moda i turchi, i cinesi, i persiani. Si divoravano le Lettere persiane di Montesquieu. L’Ossian era preferito all’Iliade. Comparve l’uomo naturale, l’uomo selvaggio, l’uomo di Hobbes e di Grozio, l’uomo che fa da sé, Robinson Crusoé. Il cavaliere errante divenne il borghese avventuriere, tipo Gil Blas. E ci fu anche la donna errante, la filosofessa, la «lionne» di oggi, che stimava pregiudizio ogni costume e decoro femminile. Ci fu l’uomo collocato in societá, in lotta con essa in nome delle leggi naturali, e spesso sua vittima; come donne maritate o monacate a forza o sedotte, figli naturali calpestati da’ legittimi, poveri oppressi dai ricchi, scienza soverchiata da ciarlatani; le Clarisse, le Pamele, gli Emili, i Chatterton. Questo nuovo contenuto, conforme al pensiero filosofico che allora investiva la vecchia societá in tutte le sue direzioni, veniva fuori in romanzi, novelle, lettere, tragedie, commedie : una specie di repertorio francese, che faceva il giro d’Italia. Il concetto fondamentale era la legge di natura in contrasto con la legge scritta, la proclamazione sotto tutte le forme de’ dritti dell’uomo dirimpetto la societá che li violava. I capiscuola erano Rousseau, Voltaire, Diderot. Seguiva la turba. Tra questi Mercier ebbe molto séguito in Italia, e vi furono rappresentati i suoi drammi: il Disertore, l’Amor familiare, il Jeneval, l’Indigente. Nel Disertore hai un giovine virtuoso e amabile, che per soccorrere il padre e per amore lascia il suo reggimento, ed è dannato a morte: è il grido della natura contro la legge scritta. Nel l’Amor familiare [p. 349 modifica]è descritta con vivi colori l’oppressione degli eretici ne’ paesi cattolici. Jeneval è il contrario della Clarissa: è un don Giovanni femmina, una Rosalia, che seduce il giovine e inesperto Jeneval fino al delitto. Nell’Indigente è vivo il contrasto tra il ricco ozioso, libidinoso, corteggiato e potente, che fa mercato di tutto, anche del matrimonio; e il povero operoso e virtuoso, disprezzato e oppresso. A contenuto nuovo nomi nuovi. Commedia e tragedia parve l’uomo mutilato e ingrandito, veduto da un punto solo ed oltre il naturale. La critica da’ bassi fondi della lingua e dello stile si alzava al concetto dell’arte, alla sua materia e alla sua forma, al suo scopo e a’ suoi mezzi. Iniziatore di quest’alta critica, che fu detta «estetica», era Diderot. Da lui usciva l’affermazione dell’ideale nella piena realtá della natura, che è il concetto fondamentale della filosofia dell’arte. L’ideale scendeva dal suo piedistallo olimpico, e non era piú un di lá, si mescolava tra gli uomini, partecipava alle grandezze e alle miserie della vita; non era un iddio sotto nome di uomo, era l’uomo; non era tragedia e non commedia, era il dramma. La poesia era storia, come la storia era poesia. L’ideale era la stessa realtá, non mutilata, non ingrandita, non trasformata, non scelta; ma piena, concreta, naturale, in tutte le sue varietá: la realtá vivente. La tragedia ammetteva il riso, e la commedia ammetteva la lacrima: s’inventò la «commedia lacrimosa» e la «tragedia borghese». Il nuovo ideale non era l’iddio o l’eroe de’ tempi feudali: era il semplice borghese in lotta con la vita e con la societá, e che sente della lotta tutt’i dolori e le passioni. Come il bambino entra nel mondo tra le lacrime, cosí l’ideale, uscendo dalla sua astrazione serena, entrava nella vita lacrimoso, era patetico e sentimentale. Le Notti di Young ispiravano ad Alessandro Verri le Notti romane. Rousseau col suo sentimentalismo rettorico faceva una impressione cosí profonda come col suo naturalismo filosofico. Questi concetti e questi lavori, frutto di una lunga elaborazione presso i francesi, giungevano a noi tutt’in una volta, come una inondazione, destando l’entusiasmo degli uni, le collere degli altri. Le quistioni di lingua e di stile si elevavano, divenivano quistioni [p. 350 modifica]intorno allo stesso contenuto dell’arte: in breve tempo la critica meccanica diveniva psicologica, e la critica psicologica si alzava all’estetica. La vecchia letteratura, combattuta ne’ suoi mezzi tecnici, era ancora contraddetta nella sua sostanza, nel suo contenuto. Ritrarre dal vero era la demolizione dell’eroico, com’era concepito e praticato fra noi: cosa divenivano gli eroi di Metastasio? Il patetico e il sentimentale era la condanna di quegl’ideali oziosi, sereni, noiosi, che costituivano l’idillio: cosa diveniva l’Arcadia? Il teatro, si diceva, non è un passatempo, è una scuola di nobili sentimenti e di forti passioni: cosa divenivano le commedie a soggetto? Tutto era riforma. L’abate Genovesi, Verri, Galiani davano addosso al vecchio sistema economico; la vecchia legislazione era combattuta da Beccaria; tutti gli ordini sociali erano in quistione; Filangieri, andando alla base, proponeva la riforma dell’istruzione e dell’educazione nazionale; principi e ministri, sospinti dalla opinione, iniziavano riforme in tutt’i rami dell’azienda pubblica. La vecchia letteratura non poteva durare cosí: ci voleva anche per lei la riforma. Giá non produceva piú, non destava piú l’attenzione: tutto era canto e musica, tutto era filosofia. Si concepisce in questo stato degli spiriti il maraviglioso successo de’ romanzi e delle commedie dell’abate Chiari, che per sostentare la vita adulava il pubblico e gli offriva quell’imbandigione che piú desiderava. Sa rebbe interessante un’analisi delle infinite opere, giá tutte dimenticate, del Chiari, perché mostrerebbe qual era il genio del tempo. Donne erranti, filosofesse, gigantesse, figli naturali, ratti di monache, scontri notturni, finestre scalate, avvenimenti mostruosi, caratteri impossibili, un eroico patetico e un patetico sdolcinato, una filosofia messa in rettorica, un impasto di vecchio e di nuovo, di ciò che il nuovo avea di piú stravagante e di ciò che il vecchio avea di piú volgare: questo era il cibo imbandito dal Chiari. Il Martelli aveva inventato il verso alla francese, come prima si era inventato il verso alla latina. Parve cosa stupenda al Chiari, e ne fece molto uso, e fino la Genesi voltò in versi martelliani. Questo impiastricciatore del Chiari è l’immagine di un tempo, che la vecchia letteratura se ne andava [p. 351 modifica]e la nuova fermentava appena in quella prima confusione delle menti; sicché egli ha tutt’i difetti del vecchio e tutte le stranezze del nuovo. Ben presto si trovò fra’ piedi Carlo Goldoni, costretto dalle stesse necessita della vita a servire e compiacere al pubblico. Per qualche tempo si accapigliarono i partigiani del Chiari e del Goldoni. E tra’ due contendenti sorse un terzo, che die’ addosso all’uno e all’altro: dico Carlo Gozzi, fratello di Gaspare. Usci a Parigi la Tartarici degl’influssi, caricatura di due comici:


                                    Il primo si chiamava «Originale»
ed il secondo «Saccheggio» s’appella...
     I partigiani ogni giorno crescevano,
chi vuole Originale e chi Saccheggio;
tutto il paese a rumore mettevano...
     II parlar mozzo e lo stare infradue
niente vale per trarsi di tedio:...
dir bisognava: Saccheggio è migliore, —
overo: — Originale è piú dottore. —
     


Gozzi avea maggior coltura del Chiari e del Goldoni, era d’ingegno svegliatissimo, avea fatto buoni studi come il fratello, apparteneva all’accademia de’ Granelleschi, che si proponeva di instaurare la buona lingua, della quale quei due si mostravano ignorantissimi. Tutto quel mondo nuovo letterario, predicato con tanta iattanza e venuto fuori con tanta stravaganza, non gli parea una riforma, gli parea una corruzione, e non solo letteraria, ma religiosa, politica e civile:


                                    Usciti son autorevol dotti,
con un tremuoto di nuova scienza,
c’han tutti gli scrittori mal condotti.
     Tratto il lor, di saper non c’ è semenza,
dicono che gli autor morti fúr cotti,
e condannano i vivi all’astinenza...
     Leggonsi certe nuove «Marianne»,
certi «baron», certe «marchese» impresse,
certe fraschette buse come canne,
e le battezzan poi «filosofesse»,
     
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                               che il mal costume introducono a spanne:
credo il dimonio al torchio le mettesse.
Chi dice: — Egli è un comporre alla francese.—
Certo è peggior del mal di quel paese.
     

La sua Marfisa è una caricatura de’ nuovi romanzi, alla maniera del Chiari. Carlo magno e i paladini diventano oziosi e vagabondi; Bradamante una spigolistra casalinga; Marfisa, l’eroina, guasta da’ libri nuovi, vaporosa, sentimentale, isterica, bizzarra, e finisce tisica e pinzochera. La mira era alle donne del Chiari e de’ romanzi in voga. Gli parea che quel predicar continuo «dritti naturali», «leggi naturali», «religione naturale», «uguaglianza», «fratellanza», dovesse render gli uomini cattivi sudditi, ammaestrandoli di troppe cose e avvezzandoli a guardare con invidia al di sopra della loro condizione. Questo pericolo era piú grave, quando massime tali fossero predicate in teatro, che non era una scola, ma un passatempo; e invocava contro i predicatori di cosí nuova morale la severitá dei governi. Il povero Chiari non ci capiva nulla. Goldoni, che era un puro artista come il Metastasio, buon uomo e pacifico e che di tutto quel movimento del secolo non vedeva che la parte letteraria, dovea trasecolare a sentirsi dipingere poco meno che un ribelle, un nemico della societá. Vi si mescolarono gl’interessi delle compagnie comiche, che si disputavano furiosamente gli scarsi guadagni. Gozzi difendeva la compagnia Sacchi, tornata di Vienna e trovato il suo posto preso dalle compagnie Chiari e Goldoni. Il Sacchi era l’ultimo di quei valenti improvvisatori comici, che giravano l’Europa e mantenevano la riputazione della commedia italiana a Vienna, a Parigi, a Londra. Musici, cantanti e improvvisatori erano la merce italiana che ancora avea corso di lá dalle Alpi. La commedia a soggetto, alzatasi sulle rovine delle commedie letterarie, accademiche e noiose, era padrona del campo a Roma, a Napoli, a Bologna, a Milano, a Venezia. Era, della vecchia letteratura, il solo genere vivo ancora, considerato gloria speciale d’ Italia e solo che ricordasse ancora in Europa l’arte italiana. Gli attori venuti in qualche fama andavano a Parigi, dov’erano meglio retribuiti. Ma, come [p. 353 modifica]a Parigi Molière fondava la commedia francese, combattendo le commedie a soggetto italiane, cosí a Venezia Goldoni, vagheggiando a sua volta una riforma della commedia, l’avea forte con le maschere e con le commedie a soggetto. Questo pareva al Gozzi quasi un delitto di lesa-nazione, un attentato ad una gloria italiana. La contesa oggi sembra ridicola, e pare che potevano vivere in buon’amicizia l’uno e l’altro genere. Ma ci era la passione e ci era l’interesse, e i sangui si scaldarono, e molte furono le dispute, insino a che Goldoni, cedendo il campo, andò a Parigi. La sua fama s’ingrandi, e impose silenzio al Baretti e rispetto al Gozzi, soprattutto quando Voltaire lo ebbe messo accanto a Molière. Da tutto quell’arrufffo non usci alcun progresso notabile di critica, essendo i Ragionamenti del Gozzi pieni piú di bile che di giudizio, e vuote e confuse generalitá, come di uomo che non conosca con precisione il valore de’ vocaboli e delle quistioni. Ma ne uscirono i primi tentativi della nuova letteratura, le commedie del Goldoni e le fiabe del Gozzi, la commedia borghese e la commedia popolana.