Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XIX. La nuova scienza/II.

XIX. La nuova scienza - II.

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Roma bruciava Bruno, Parigi bruciava Vanini. I loro carnefici li dissero atei. Pure Dio non fu mai cosa si seria come nel loro petto. — Andiamo a morir da filosofo — disse Vanini, [p. 244 modifica]avvicinandosi al rogo. Eran detti anche «novatori», titolo d’infamia, che è divenuto il titolo della loro gloria.

Nel 1599 Bruno era giá nelle mani dell’Inquisizione e Campanella nelle mani spagnuole. Nel primo anno del Seicento Bruno periva sul rogo e Campanella aveva la tortura. Cosí finiva l’un secolo, cosí cominciava l’altro. — «Tu, asinus, nescis vivere — dicevano a Campanella amici e nemici: — ne loquaris in nomine Dei». — E lui prendeva ad insegna una campana, con éntrovi l’epigrafe: «Non tacebo». Anche Bruno diceva di sé: «Dormilantium animorum excubitor». La nuova scienza sorge come una nuova religione, accompagnata dalla fede e dal martirio. «Philosophus — diceva il Pomponazzi per esperienza propria — ab omnibus irridetur, et tamquam stultus et sacrilegus habetur; ab inquisitoribus prosequitur, fit spectaculum vulgi: haec igitur sunt lucra philosophorum, haec est eorum merces». Pure, questi uomini nuovi, derisi, perseguitati, spettacolo del volgo, avevano una fede invitta nel trionfo delle loro dottrine. L’accademia cosentina di Telesio avea per impresa la luna crescente, col motto: «Donec totum impleat orbemn». Bruno, perseguitato dal suo secolo, diceva: — La morte in un secolo fa vivo in tutti gli altri. — Campanella paragona il filosofo a Cristo, che il terzo giorno, spezzando la pietra, risorge. Il carattere era pari all’ingegno. Dietro al filosofo ci era l’uomo.

Telesio è detto da Bacone il «primo degli uomini nuovi». Ma la novitá era giá antica di un secolo; e Telesio, che aveva fatto i suoi studi a Padova, a Milano, a Roma, professato a Napoli, quando, stanco di lotte e di persecuzioni, deliberò di ritrarsi nella nativa Cosenza, vi portò il motto del pensiero italiano, la «filosofia naturale», fondata sull’esperienza e sull’osservazione. Il suo merito è di avere esercitata una seria influenza intellettuale tra’ suoi concittadini e di aver fondata sotto nome di «accademia» una vera scuola filosofica. Come Machiavelli, cosí egli non segue altro che l’osservazione e la natura; «poiché la sapienza umana è arrivata alla piú alta cima che possa afferrare, se ha osservato quello che si presenta a’ sensi, e ciò che può esser dedotto per analogia dalle percezioni sensibili». Sincero, [p. 245 modifica]modesto, d’ingegno non grande, ma di grandissima giustezza di mente e di sano criterio, fu benemerito meno per le sue dottrine che per il metodo ed il linguaggio. E in veritá la grande e utile novitá era allora il metodo. Il suo maggiore elogio lo ha fatto Campanella in queste parole: «Telesius in scribendo stylum vere philosophicum solus servat, iuxta verumi naturam sermones significantes condens, facitque hominem potius sapientem quam loquacem». L’obbiettivo era sciogliere il pensiero dalla servitú di Aristotele, «tiranno degl’ingegni», e metterlo in diretta comunicazione con la natura, rifarlo libero: ciò che, con una precisione uguale alla concisione, dice Campanella nel suo famoso sonetto a Telesio:


                                    Telesio, il telo della tua faretra
uccide, de’ sofisti in mezzo al campo,
degl’ingegni il tiranno senza scampo:
libertá dolce alla veritá impetra.
     


L’impresa non era lieve. Resistevano tutte le dotte mediocritá, tutto quel complesso di uomini e d’istituzioni che l’Aretino chiamava la «pedanteria»: i «Polinnii» di Bruno, spalleggiati da francescani, domenicani e gesuiti; e spesso l’ultimo argomento era il rogo, il carcere, l’esilio. Dir cose nuove era delitto non solo alla Chiesa, ma a’ principi, venuti in sospetto di ogni novitá nelle scuole: pure la fede di un rinnovamento era universale, e «Renovabitur» fu il motto del Montano, discepolo di Telesio, nel compendio che scrisse della sua dottrina. Si era fino allora pensato col capo d’altri: gli uomini volevano ora pensare col capo loro. Questo era il movimento. E fu cosí irresistibile, che la novitá usciva anche da’ segreti del convento. Fu lá che si formò ne’ forti studi libera e ribelle l’anima di Bruno. E lá, in un piccolo convento di Calabria, si educava a libertá l’ingegno di Tommaso Campanella. Assai presto oltrepassò gli studi delle scuole, e, fatto maestro di sé, lesse avidamente e disordinatamente tutti que’ libri che gli vennero alle mani. Nella solitudine si fa presto ad esser dotto. Ivi il giovine raccolse immensi materiali in tutto lo scibile. Il suo idolo [p. 246 modifica]era Telesio, il gran novatore; il suo odio era Aristotele, con tutto il suo séguito, e, come Bruno, preferiva gli antichi filosofi greci, massime Pitagora. Venuto in Cosenza, i suoi frati, che giá conoscevano l’uomo, non vollero permettergli di udire né di veder Telesio: ciò che infiammò il desiderio e l’amore. Il giorno che Telesio mori, fu visto in chiesa accanto alla bara il giovine frate, che dovea continuarlo. I cosentini, sentendolo nelle dispute, dicevano che in lui era passato lo spirito di Telesio. La scuola telesiana o «riformatrice», come era detta, gli fu tutta intorno: il Bombino, il Montano, il Gaieta, da lui celebrati insieme col maestro. Il suo primo lavoro fu una difesa di Telesio contro il napoletano Marta. Venuto a Napoli per la stampa dell’opera, attirò l’attenzione per il suo ardore nelle dispute, per l’agilitá e la presenza dello spirito, per la franchezza delle opinioni e per l’immenso sapere. E gl’invidiosi dicevano: — Come sa di lettere costui, che mai non le imparò? — E recavano a magia, a cabala, a scienza occulta ciò che era frutto di studi solitari. Le opinioni telesiane poco attecchivano in Napoli, onde il buon Telesio avea dovuto andar via per le molte inimicizie. Anche il Porta ci stava a disagio, e dovea con le commedie far perdonare alla sua filosofia. Naturalmente, si strinse un legame tra Campanella e l’autore della Magia naturale e della Fisionomia. Disputavano, leggevano, conferivano i loro lavori. Frutto di questa dimestichezza fu il libro De sensu rerum, a cui successe l’altro De investigatione. Ivi si stabilisce per qual via si giunga a ragionare «col solo senso e colle cose che si conoscono pe’ sensi»: ciò che è il metodo sperimentale, base della filosofia naturale. Ci si vede l’influenza di Telesio, di Porta e di tutta la scuola riformatrice.

Porta potè esser tollerato a Napoli, perché era non solo gentiluomo e assai riverito, ma uomo di spirito e amabilissimo. Ma Campanella non sapea vivere, come dicevano i suoi emuli. Era tutto di un pezzo e alla naturale, veemente, rozzo, audace di pensiero e di parola. E venne in uggia a moltissimi, e anche ai suoi frati, che non gli potevano perdonare l’odio contro Aristotele. Come Bruno, lasciò il convento, e indi a non molto [p. 247 modifica]Napoli, e, con in capo giá una nuova metafisica tutta abbozzata, fu a Roma, poi a Firenze, dove il destino faceva incontrare i due grandi ingegni di quel tempo. Campanella e Galilei.

Michelangiolo moriva, e tre giorni prima, il quindici febbraio del i564, nasceva in Pisa Galileo Galilei. Tutto gli rise nel principio, levato maraviglioso grido di sé per le sue invenzioni della misura del tempo per mezzo del pendolo, del termometro, del compasso geometrico, del telescopio. Con questo potente istrumento iniziò le sue speculazioni astronomiche, che rinnovavano il cielo biblico e tolemaico. Parecchi fatti, divinati da Bruno, acquistavano certezza, come ciò che si vede e si tocca. Il suo Nunzio sidereo appariva cosí maraviglioso come il viaggio di Colombo. Le montuositá della luna, le fasi di Venere e di Marte, le macchie del sole, i satelliti di Giove erano tali scoperte a breve distanza, che spoltrivano gli animi oziosamente cullati ne’ romanzi e nelle oscenitá letterarie. La filosofia naturale vinceva ormai le ultime resistenze nella pubblica opinione. Non si trattava piú d’ipotesi e di astratti ragionamenti: i fatti erano lá, e parlavano piú alto che i sillogismi de’ teologi e degli scolastici. La «cosa effettuale» di Machiavelli, il «lume naturale» di Bruno, il «metodo sperimentale» di Telesio, la «libertá dolce alla veritá» di Campanella avevano il loro riscontro nelle belle parole di Galileo: — «Ah viltá inaudita d’ingegni servili, farsi spontaneamente mancipio!». — Il buon Simplicio, il pedante aristotelico, come Polinnio, risponde: — «Ma, quando si lasci Aristotele, chi ne ha da essere scorta nella filosofia?». — E Galileo replica pacatamente: — «... I ciechi solamente hanno bisogno di guida... Ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta». — Il lume soprannaturale, la scienza occulta, il mistero, il miracolo scompariva innanzi allo splendore di questo lume naturale dell’occhio e della mente: la magia, l’astrologia, l’alchimia, la cabala sembravano povere cose innanzi a’ miracoli del telescopio. Colombo e Galileo ti davano nuova terra e nuovo cielo. Sulle rovine delle scienze occulte sorgevano l’astronomia, la geografia, la geometria, la fisica, l’ottica, la meccanica, l’anatomia. E tutto questo era la [p. 248 modifica]filosofia naturale, il naturalismo. «La filosofia — diceva Galileo — è scritta nel libro grandissimo della natura». — E stupendamente diceva Campanella:


                               Il mondo è il libro, dove il Senno eterno
scrisse i propri concetti.
     


Campanella nacque il i568, quattro anni dopo Galileo. Si videro a Firenze: Galileo giá famoso, in grazia della corte, professore, con un concetto dell’universo e della scienza chiaro, intero, ben circoscritto: Campanella, oscuro, conscio del suo ingegno, di concetti molti e arditi e smisurati, in aria di avventuriere che cerchi fortuna piú che di un savio tranquillo e riposato nella scienza. Cercò una cattedra. — Chi è costui? — E il granduca chiese le informazioni al generale di San Domenico, il quale rispose: «Alquanto differente relazione tengo io del padre fra Tommaso Campanella di quella è stata fatta a Vostra Altezza:... io farò prova del valore e sufficienza sua». Le raccomandazioni di Galileo non valsero contro l’ira domenicana. Campanella non riuscí, e la ragione è detta da Baccio Valori:


Procurandosi oggi in Roma per alcuni proibire la filosofia del Telesio, con colore che la pregiudichi alla teologia scolastica fondata in Aristotile, da lui cosí ritrovato, corre qualche risico conseguente [Tommaso Campanella] della medesima scuola, e per ventura il piú terribile per eccellenza de’ suoi concetti, che veramente sono e alti e nuovi.


Campanella aveva allora ventiquattro anni. L’indomabile giovane si vendicò scrivendo una nuova difesa di Telesio. Aveva giá scritto un trattato De sphaera Aristarchi, dove sostiene l’opinione copernicana del moto della terra. Vagheggiava una scienza universale, col titolo De universitate rerum, che diventò piú tardi la sua Philosophia recdis. A lui dovea parere molto modesto Galileo, che lasciava da banda teologia e metafisica ed ogni costruzione universale, contento ad esplorar la natura ne’ suoi particolari. Egli scriveva: «Invero non si può filosofare, senza un vero accertato sistema della costruzione de’ mondi, quale da lei aspettiamo: e giá tutte le cose son poste in dubbio, tanto [p. 249 modifica]che non sapemo se il parlare è parlare». Domandava egli a Galileo una riforma dell’astronomia e della matematica sublime, una vera filosofia naturale. «Scriva pel primo — diceva — che questa filosofia è d’Italia, da Filolao e Timeo in parte, e che Copernico la rubò da’ predetti e dal ferrarese, suo maestro; perché è gran vergogna che ci vincan le nazioni che noi avemo di selvagge fatte domestiche». Ma Galileo rimase fermo nella sua via. Anche lui aveva i suoi pensieri e le sue ipotesi; ma gli parea che il vero filosofo naturale dovesse lasciare il verisimile, e attenersi a ciò che è incontrastabilmente vero. E rispondea a Campanella ch’ei non voleva «per alcun modo, con cento e piú proposizioni apparenti delle cose naturali, screditare e perdere il vanto di dieci o dodici sole, da lui ritrovate, e che sapeva per dimostrazione esser vere». Stavano a fronte la saviezza fiorentina e l’immaginazione napoletana, o, per dir meglio, due colture: la coltura toscana, giá chiusa in sé e matura e veramente positiva, e la coltura meridionale, ancor giovane e speculativa e in tutta l’impazienza e l’abbondanza della giovanezza. In Galileo si sente Machiavelli; e in Campanella si sente Bruno. Vedi la differenza anche nello scrivere. Chi legge le lettere, i trattati, i dialoghi di Galileo, vi trova subito l’impronta della coltura toscana nella sua maturitá: uno stile tutto cose e tutto pensiero, scevro di ogni pretensione e di ogni maniera, in quella forma diretta e propria in che è l’ultima perfezione della prosa. Usa i modi servili del tempo senza servilitá, anzi tra’ suoi baciamano penetra un’aria di dignitá e di semplicitá, che lo tiene alto su’ suoi protettori. Non cerca eleganza né vezzi, severo e schietto, come uomo intento alla sostanza delle cose e incurante di ogni lenocinio. Ma, se cansa le esagerazioni e gli artifici letterari, non ha la forza di rinnovare quella forma convenzionale, divenuta modello. Avvolto in quel fraseggiare d’uso, frondoso e monotono, trovi concetti nuovi e arditi in una forma petrificata dall’abitudine: pure eletta, castigata, perspicua, di un perfetto buon gusto. Al contrario in Bruno e in Campanella la forma è scorretta, rozza, disuguale, senza fisonomia; ma, ne’ suoi balzi e nelle sue disuguaglianze, [p. 250 modifica]viva, mobile, nata dalle cose. Ivi ti par di avere innanzi un bel lago, anziché acqua corrente; non una formazione organica e conforme al contenuto, ma una forma giá fissata innanzi e riprodotta, spesso priva di movimenti interni, sola esterioritá: qui vedi una lingua ancora mobile e in formazione, con elementi giá nuovi e moderni. Alcune pagine di Bruno sembrano scritte oggi.

Ma saviezza fiorentina e immaginazione napoletana erano del pari sospette a Chiesa e Spagna. Il libro della natura era libro proibito, e chi vi leggeva era eretico o ateo. Prima ci capitò Campanella. Fu a Venezia, a Padova, a Bologna, a Roma, co’ suoi manoscritti appresso, e scrivendo sempre per sé e per altri, in verso e in prosa, in latino e in italiano, trattati, orazioni, discorsi, dispute. A Bologna gli furono rubati i manoscritti. E che importa? Rifaceva, rinnovava, con una vena inesauribile. Venuto in sospetto a Roma, torna a Napoli e va a prender fiato a Stilo, sua patria. Ivi sperava riposo; ma «accadde a me quello che vien detto da Salomone: quando l’uomo avrá finito, allora comincerá; quando riposerá sará affaticato». Ivi cominciarono i suoi guai. Avvolto in una cospirazione, fu, come reo di maestá, condotto nelle prigioni di Napoli. Chiarito innocente di un’accusa, se ne suscitava un’altra, perché «gl’iniqui non cercavano il delitto, ma farmi comparir delinquente». — Come sai tu le lettere, se non le imparasti mai? Forse hai addosso il demonio. — «Ma io — rispose il prigioniero — ho consumato piú d’olio che voi di vino». — Lo si fece autore del libro De tribus impostoribus, Mose, Cristo ed Mahumed, stampato trent’anni prima ch’ei nascesse. Fu detto che voleva fondar la repubblica con l’aiuto de’ turchi, e che era un eretico, e aveva dottrina pericolosa, e non credeva a Dio. Invano scrisse Della monarchia e l’Ateismo vinto e la Disputa antiluterana. Fu condannato da Roma e da Spagna, ribelle ed eretico, e tenuto in prigione ventisette anni, sottoposto alla tortura sette volte:


Mi fûr rotte le vene e le arterie; e il cruciato dell’eculeo mi lacerò le ossa,... e la terra bevve dieci libbre del mio sangue:... risanato dopo sei mesi,... in una fossa fui seppellito,... ove non è né luce né aria, ma fetore e umiditá e notte e freddo perpetuo. [p. 251 modifica]

Dopo dodici anni di tali martíri fa questo triste inventario de’ suoi mali:


                                    Sei e sei anni che ’n pena dispenso
l’afflizion d’ogni senso,
le membra sette volte tormentate,
le bestemmie e le favole de’ sciocchi,
il sol negato agli occhi,
i nervi stratti, Tossa scontinuate,
le polpe lacerate,
i guai dove mi corco,
li ferri, il sangue sparso e ’l timor crudo
e ’l cibo poco e sporco.
     


Fra tanti tormenti scriveva, scriveva sempre, versi e prose.

I tempi si facevano piú scuri. Copernico era uomo piissimo, chiuso ne’ suoi studi matematici: era un matematico, non un filosofo, dicea Bruno, che di quel sistema avea saputo fare un cosí terribile uso col suo ingegno libero e speculativo. Il sistema era presentato come una pura ipotesi e spiegazione de’ fenomeni celesti e naturali, e i filosofi avevano sempre cura di aggiungere: «salva la fede». Cosí il libro di Copernico, dedicato a Paolo terzo, fu tenuto innocuo per ottanta anni. Ma la sua dottrina si diffondeva celeremente, propugnata da Bruno, da Campanella, da Galileo e da Cartesio, che si preparava a farne una dimostrazione matematica. Il libro di Copernico parve allora cosa eretica e fu condannato, essendo cosa piú facile scomunicare che confutare. Cartesio pose a dormire la sua dimostrazione. Il povero Galileo, processato e torturato, dovette confessare che «terra stat et in aeternum stabit», ancorché la sua coscienza rispondesse: — Eppur si muove. — E la sua scrittura sulla mobilitá della terra mandò al granduca con queste parole, ritratto de’ tempi:


Perché io so quanto convenga obbedire e credere alle determinazioni de’ superiori, come quelli che sono scorti da piú alte cognizioni, alle quali la bassezza del mio ingegno per se stesso non arriva, reputo questa presente scrittura che gli mando, come quella che è fondata sulla mobilitá della terra, overo che è uno degli [p. 252 modifica]argomenti fisici che io produceva in sostegno di essa mobilitá, la reputo, dico, come una poesia overo un sogno, e per tale la riceva l’Altezza Vostra.


Altrove la chiama una «chimera», un «capriccio matematico», e nasconde la veritá, come fosse un delitto o una vergogna. Di quest’accusa e di questo processo giunse notizia a Tommaso Campanella, e fra’ tormenti del carcere scrisse l’apologiá di Galileo.

Galileo fu lasciato vivere solitario in Arcetri, giá rifugio del Guicciardini, dove i dispiaceri e le malattie prima gli tolsero la vista e poi la vita. Mori nel i642, l’anno stesso che nacque Newton. L’anno dopo Torricelli, suo allievo, trovava il barometro. Tre anni prima moriva Campanella in Francia, dov’erasi rifuggito e dove potè pubblicare la sua filosofia.

A Galileo chiusero gli occhi i discepoli. Le sue scoperte ed osservazioni diedero un impulso straordinario alle scienze, e formarono attorno a lui una scuola di filosofi naturali: Castelli, Cavalieri, Torricelli, Borelli, Viviani, illustri non solo per valore scientifico, ma per bontá di scrivere. Veniva il mondo, di cui erano stati precursori incompresi e perseguitati Alberto Magno e Ruggiero Bacone: Galileo ripigliava la bandiera con miglior fortuna. E l’Italia, maestra di Europa nelle lettere e nelle arti, aveva ancora il primato nelle scienze positive, o, come dicevasi, nella «filosofia naturale». Qui venivano ad imparare gli stranieri, qui Copernico imparava il moto della terra, e qui imparava Harvey la circolazione del sangue. Qui sorgeva l’accademia del Cimento, dove «provando e riprovando», si studiava la natura. Geografia, astronomia, anatomia, medicina, botanica, ottica, meccanica, geometria, algebra ebbero qui i loro primi cultori e propagatori. Tra gli scrittori giova mentovare Francesco Redi, in cui fa la sua ultima comparsa il toscano, giá finito e chiuso in sé, e Lorenzo Magalotti, di una limpidezza giá vicina alla forma moderna.

Altro fu il fato del Campanella. Come Bruno, è un naturalista, e crede che la filosofia non si possa fondare che su’ fatti. Onde Galileo tirava questa conseguenza: che dunque bisognava prima studiare i fatti. In tanta scarsezza di fatti naturali, [p. 253 modifica]morali, sociali ed economici, in tante lacune delle scienze positive, filosofare significava foggiarsi un mondo a modo degli antichi filosofi greci, con l’immaginazione divinatrice, ed avere per risultato l’ipotetico e il probabile anziché il certo e il vero. Questo, pensava Galileo, non è scienza. Pure è chiaro che una certa idea del mondo l’avevano anche i filosofi naturali, e che quel medesimo porre le fondamenta della scienza sull’osservazione, e tagliarne fuori le credenze e le fantasie, era giá mettere in vista un mondo metafisico tutto nuovo, il naturalismo, la natura fatta centro di gravitá dello scibile a spese del Dio astratto, o. per parlare secondo quei tempi, Dio fatto visibile e conoscibile nella natura, un Dio intimo e vivo. Questo era il significato stesso di quel movimento, che tirava gli spiriti dalle astrazioni scolastiche alla investigazione de’ fatti naturali; e Bruno e Campanella non fecero che dare a quel movimento la sua coscienza metafisica e fondarvi sopra tutta una filosofía. Se necessario fu Galileo, non fu meno necessario Bruno e Campanella. Un nuovo mondo si formava, una nuova filosofia era in vista all’orizzonte con lineamenti abbozzati appena e vacillanti. Era quella sintesi poetica e provvisoria, preludio della scienza, il presentimento e la divinazione dell’ultima sintesi, risultato di una lunga analisi e corona della scienza. Quella prima sintesi te la dánno Bruno e Campanella, appassionatissimi degli antichi filosofi greci, a cui rassomigliavano.

È una sintesi inorganica e contraddittoria. E la contraddizione è ancora piu. accentuata in Campanella che in Bruno. Trovi in lui scienze occulte e scienze positive, soprannaturale e naturale, medio evo e Rinascimento, tradizione e ribellione, assolutismo e libertá, cattolicismo e razionalismo; e, mentre combatte, come Bruno, le credenze e le fantasie, nessuno piú di lui dommatizza e fantastica. Pongono in opera tutto quel materiale che hanno innanzi, mancando ancora quel lavoro di eliminazione e di analisi, senza il quale è impossibile la composizione. Hanno fede nell’ingegno, e si mettono all’opera con l’ardore di una speciale vocazione: si sentono attirati da una forza fatale verso quelle alte regioni, verso l’infinito o il divino, [p. 254 modifica]a rischio di perdervisi. Ciò che ispira a Bruno, o all’anonimo autore, questo sublime sonetto:


                                    Poi che spiegate ho l’ali al bel desio,
quanto piú sott’ il piè l’aria mi scorgo,
piú le veloci penne all’aria porgo,
e spregio il mondo e verso il ciel m’invio.
     Né del figliuol di Dedalo il fin rio
fa che giú pieghi, anzi via piú risorgo:
ch’i’ cadrò morto a terra, ben m’accorgo;
ma qual vita pareggia al morir mio?
     La voce del mio cor per l’aria sento:
— Ove mi porti, temerario? China,
ché raro è senza duol tropp’ardimento.
     — Non temer — rispond’ io — l’alta ruina:
fendi sicur le nubi, e muor’ contento,
se il ciel si illustre morte ne destina.
     


Anche Campanella è poeta, e si sente la stessa vocazione. Si chiama «luce tra l’universale ignoranza», «fabbro di un mondo nuovo», «Prometeo che rapisce il fuoco sacro a Giove»:


                                    Con vanni in terra oppressi al ciel men’ volo,
in mesta carne d’animo giocondo;
e’ se talor m’abbassa il grave pondo,
l’ale pur m’alzan sopra il duro suolo.
     


Campanella avea vivo il sentimento di un mondo nuovo che si andava formando, e ci vedea in fondo, ultimo termine, una rediviva etá dell’oro, l’attuazione del divino sulla terra, il regno di Dio, invocato nel «paternostro», quel mondo della pace e della giustizia, appresso al quale sospirava Dante e molti nobili intelletti. Bruno rimane nelle generalitá metafisiche. Campanella abbraccia l’universo nelle sue piú varie apparizioni, e ti delinea tutto quel mondo ideale, di cui spera l’effettuazione.

Nel suo sistema trovi complicati e combinati senza intima fusione tutti gl’indirizzi percorsi dalla moderna filosofia. Il punto di partenza è la coscienza di sé: «io, che penso, sono», divenuto la base del sistema cartesiano. Questa è la sola cognizione [p. 255 modifica]innata, occulta: tutto il resto è cognizione acquisita per mezzo de’ sensi. Qui si sviluppa il sensismo di Telesio non solo come metodo, ma come contenuto. Tutte le cose sono animate: il mondo stesso è «animai grande e perfetto». In ciascuna cosa è la divina Trinitá, i tre principi o «primalitá» com’egli dice: potenza, sapienza e amore. Ciascuna cosa che è può essere: ama il suo essere, e lo ama perché lo conosce, ne ha una certa notizia. Perciò tutte le cose hanno senso. Lo spirito stesso è carne. L’animale pensa come l’uomo: ha fino la facoltá dell’universale. Ci si vede in germe Locke e tutto il sensismo moderno. Ma ci è una facoltá propria dell’uomo e negata all’animale: il sentimento religioso. Perciò, quando il corpo è formato, vi entra l’anima, che esce «fanciulla dalle mani di Dio», come dice Dante. L’anima è la facoltá del divino, o, come si direbbe oggi, dell’assoluto. Ella ti dá la contemplazione di Dio. Non è ragione o dialettica questa facoltá dell’assoluto, e nemmeno discorso o processo intellettivo (ciò che entra nella «mente» o visione di Bruno); ma è intuito, estasi, fede, un ponte fatto alla rivelazione e alla teologia, uno studio di conciliazione tra il medio evo e il mondo moderno. Qui vedi spuntare la moderna filosofia dell’assoluto nel suo doppio indirizzo, razionalista e neocattolico. Tutte le idee e tutti gl’indirizzi, che anche oggi agitano le coscienze, fermentano nel suo cervello.

Come Bruno, Campanella non ha il senso del reale e del naturale; e neppure ha il senso psicologico, ancorché parli spesso di coscienza e di esperienza e le faccia basi del suo filosofare. Aveva, al contrario, quella seconda vista propria degli uomini superiori: facoltá da lui non scrutata, non compresa e non disciplinata, ch’egli confonde con l’estasi e col puro intuito, e che lo gitta in braccio alla teologia, al soprannaturale e alle scienze occulte. Cerca una conciliazione tra’ due uomini che pugnavano in lui, l’uomo di Telesio e l’uomo di san Tommaso, e vi logora le sue forze, senza riuscire ad altro che a mettere in maggior lume la contraddizione. Perciò il suo metodo rimane scolastico, cumulo di argomenti astratti; e la sua filosofia, partendo da Telesio, riesce a san Tommaso. Attendendo da [p. 256 modifica]Galileo la costruzione del mondo, provvisoriamente crede all’astrologia e alla magia; e oggi gli spiritisti e i magnetisti lo chiamano loro precursore.

Nelle applicazioni hai lo stesso uomo. Il mondo è atto della volontá di Dio: atto conforme al disegno o all’idea del mondo preordinato nella sua mente, perciò conforme alla ragione. Dio dunque governa il mondo, e per esso il papa che lo rappresenta in terra, e il cui braccio è l’imperatore. Qui siamo con san Tommaso nel piú puro medio evo, ancora piú indietro di Dante e di Machiavelli, perché l’elemento laico è sottoposto all’ecclesiastico. E si concepisce come il nostro filosofo se la prenda fra tutti col Machiavelli: uomo «senz’alcuna specie di scienza e di filosofia, semplice storico o empirico», che voleva fare della religione uno strumento dello Stato. Ma Campanella non si accorge ch’egli è piú Machiavelli del Machiavelli, perché nessuno ha spinto cosí avanti l’annichilamento dell’individuo e l’onnipotenza dello Stato nella sua doppia forma, ecclesiastica e laica. In quel tempo che la monarchia assoluta si sviluppava nella Spagna e nella Francia coi favore e l’appoggio del papato, egli era la voce dell’assolutismo europeo, e ci mettea una sola condizione: che quell’assolutismo fosse il potere esecutivo del papa, il braccio del papato. Hai il vecchio quadro del medio evo con tinte ancora piú decise. Egli dice a Filippo: — I re sieno tuoi sudditi e la terra sia tua, a patto che tu sii veramente il «cattolico», primo suddito della Chiesa. — Questa è la carta di alleanza fra il trono e l’altare. L’Italia ha perduto l’imperio del mondo, né ci si può piú pensare, perché il passato non torna piú; ma l’Italia si consolerá, perché ha nel suo seno il papato, e per esso dominerá ancora il mondo. Che cosa è l’individuo in questo sistema? Nulla. Egli ha doveri, non ha dritti. Non ha il dritto di scegliersi la sua donna, di crearsi la sua proprietá, di educare ed istruire la sua prole, di mangiare, di dormire, di vivere a suo gusto, di esaminare, discutere, accettare o rigettare: non può dire: — Questo è mio, — e non può dire: — No. — Il dritto è nella societá, e per essa nel papa e nell’imperatore. Hai per risultato il comunismo, [p. 257 modifica]l’assolutismo della societá e l’ubbidienza passiva dell’individuo. Il comunismo è in fondo a tutte queste teorie di monarchia universale e assoluta, di dritto divino; e Campanella va sino in fondo. Il che sempre avviene quando l’unitá è posta fuori dell’umanitá in una volontá a lei estrinseca, e quando l’unitá rimane astratta e tiene non in sé, ma dirimpetto a sé, il vario e il molteplice. In questa unitá va a naufragare ogni particolare: l’individuo, la famiglia, la nazione. Or questa è la filosofia sua, questa è la sua «cittá del sole», la sua rediviva etá dell’oro. Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo. Dio è il senno eterno: il sovrano dee essere anche lui il sapientissimo di tutti. Non è re chi regge, ma chi piú sa. Il vero sovrano è la scienza. E l’obbiettivo della scienza è il progresso e il miglioramento dell’uomo. Si maraviglia come si studi a migliorare la razza cavallina o bovina, e si lasci al caso e al capriccio individuale la razza umana. Egli ha fede nel miglioramento non solo morale, ma fisico dell’uomo, per mezzo della scienza, applicata da un governo intelligente e paterno. E suggerisce provvedimenti sociali, politici, etici, economici, che sono un primo schizzo di scienza sociale nelle sue varie diramazioni ancora confuse, guidato da una rettitudine e buon senso naturale, con uno sguardo delle cose non nella loro degenerazione, «come fecero Aristotele e Machiavelli», ma nella loro origine e purezza natia, «come fecero Platone e gli stoici». E balzan fuori idee, utopie, ipotesi, speranze, aforismi, che sono in parte veri presentimenti e divinazioni del mondo nuovo.

Con tante novitá in capo, la societá in mezzo a cui si trovava non gli dovea parere una bella cosa. Accetta le istituzioni, ma a patto che le si trasformino e diventino istrumento di rigenerazione. Vuole un papato ed un monarcato progressista; ed è chiaro che a Filippo di Spagna poco garbasse trar di prigione un cosí pericoloso alleato, un nuovo marchese di Posa. [p. 258 modifica]

Accanto alla sua ricostruzione ci è dunque un elemento negativo, una critica della societá com’era costituita. Il suo punto di mira sono sofisti, ipocriti e tiranni, come contrafiattori e falsificatori delle tre primalitá, sapienza, amore e potenza, «di tre dive eminenze falsatori»:


                                    Io nacqui a debellar tre mali estremi,
tirannide, sofismi, ipocrisia,...
     che nel cieco amor proprio, figlio degno
d’ignoranza, radice e fomento hanno:
dunque a diveller l’ignoranza io vegno.
     


Dal qual concetto nasce un magnifico sonetto sulla storia del mondo, foggiata dall’amor proprio:


                                    Credulo, il proprio amor fe’ l’uom pensare
non aver gli elementi né le stelle
(benché fusser di noi piú forti e belle)
senso ed amor, ma sol per noi girare:
     poi tutte genti barbare ed ignare,
fuor che la nostra, e Dio non mirar quelle:
poi il restringemmo a que’ di nostre celle:
sé solo alfine ognun venne ad amare,
     e, per non travagliarsi, il saper schiva:
poi, visto il mondo a’ suo’ voti diverso,
nega la provvidenza o che Dio viva.
     Qui stima senno le astuzie: e perverso,
per dominar fa nuovi dèi, poi arriva
a predicarsi autor dell’universo.
     


Se tutt’ i mali sono frutto dell’ignoranza, si comprende il suo entusiasmo per la scienza e per la sua missione. Il savio è invitto, perché vince, anche se tu l’uccidi:


                                    S’e’ vive, perdi, e, s’e’ muore, esce un lampo
di deitá dal corpo per te scisso,
che le tenebre tue non han piú scampo.
     


I guai piú spandono suo nome e gloria, e, ucciso, è adorato per santo; né è sventura ch’ei sia nato di vii progenie e patria, perché illustra egli le sue sorti. Piú è calpesto e piú s’innalza: [p. 259 modifica]

                               E il fuoco, piú soffiato, piú s’accende:
poi vola in alto e di stelle s’ infiora.
     


La sua vita è antica quanto il mondo:


                                    Ben seimila anni in tutto ’l mondo io vissi:
fede ne fan le istorie delle genti,
ch’io manifesto agli uomini presenti
co’ libri filosofici ch’io scrissi.
     


Il mondo è un teatro, dove le anime, mascherate de’ corpi,


                               di scena in scena van, di coro in coro:
si veston di letizia e di martoro,
dal comico fatai libro ordinate.
     


In questa commedia universale l’uomo spesso segue piú il caso che la ragione:


                                    ché gli empi spesso fúr canonizzati,
gli santi uccisi, e gli peggior tra noi
principi finti contro i veri armati.
     


Principi veri sono i savi:


                                    Neron fu re per sorte in apparenza,
Socrate per natura in ventate...
Non nasce l’uom con la corona in testa,
come il re delle bestie...
     


E se non fossero i savi, che sarebbe il mondo?


                                    Se a’ lupi i savi, che ’l mondo riprende,
fosser d’accordo, e’ tutto bestia fora.
     


La vera nobiltá nasce non dal sangue e non dalla ricchezza:


                                    In noi dal senno e dal valor riceve
esser la nobiltade, e frutta e cresce
col ben oprare...
     
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Il savio è re, è nobile; il savio è libero. La plebe è serva per la sua ignoranza:


                                    Il popolo è una bestia varia e grossa,
ch’ignora le sue forze...
     Tutto è suo, quanto sta fra cielo e terra,
ma noi conosce; e se qualche persona
di ciò l’avvisa, e’ l’uccide ed atterra.
     


Quest’apoteosi della scienza è congiunta con un vivo sentimento del divino; anzi la scienza non è che il divino, il senno eterno, che comunica alla natura i suoi attributi o primalitá, la potenza, la sapienza e la bontá, della quale segno esteriore è la bellezza. Tale era la natura nell’etá dell’oro, e tale ritornerá:


                                    Se fu nel mondo l’aurea etá felice,
ben essere potrá piú eh’una volta;
ché si ravviva ogni cosa sepolta,
tornando’1 giro ov’ebbe la radice...
     Se in fatti di mio e tuo sia il mondo privo
nell’util, nel giocondo e nell’onesto,
cangiarsi in paradiso il veggo e scrivo;
     e ’l cieco amore in occhiuto e modesto,
l’astuzia ed ignoranza in saper vivo,
e ’n fratellanza l’imperio funesto.
     


Base dell’etá dell’oro è la fratellanza e uguaglianza umana, l’amor comune sostituito all’amor proprio:


                                    ... chi all’amor del comun Padre ascende,
tutti gli uomini stima per fratelli,
e con Dio di lor beni gioia prende.
     Buon Francesco, che i pesci anche e gli uccelli
«frati» appelli: oh beato chi ciò intende!
     


È ciò che direbbesi oggi «democrazia cristiana», un ritorno alla Chiesa primitiva di Lino e di Callisto, a’ puri tempi evangelici, vagheggiati da Dante e da Campanella, quando si mangiava in caritá, e non ci era ricco né povero, non mio e tuo. Avvezzo a guardare le cose nella loro origine e non nella loro degenerazione, il sogno di Campanella è che il mondo «nel suo giro [p. 261 modifica]torni lá ov’ebbe radice». Il progresso è la ristaurazione del buon tempo antico. Bruno spregia l’etá dell’oro, stato d’innocenza, alla quale contrappone la virtú. Innocenza è ignoranza, virtú è sapienza. Ed è sapienza non infusa e comunicata dal di fuori, ma prodotto della libera attivitá individuale. In questo sistema la libertá è sostanziale, l’ideale è il progresso per mezzo della libertá. In questi due grandi italiani spuntano giá le due vie dello spirito moderno: vedi il razionalista e il neocattolico. L’uno volge le spalle al passato, l’altro cerca di trasformarlo e farsene leva per il progresso.

Attendendo l’etá dell’oro. Campanella vede il mondo nella sua degenerazione, grazie a’ tiranni, a’ sofisti e agl’ipocriti. Tra’ sofisti pone i poeti, seminatori di menzogne:


                                    In superbia il valor, la santitate
passò in ipocrisia, le gentilezze
in cerimonie, e ’l senno in sottigliezze,
l’amor in zelo, e ’n liscio la beltate,
     mercé vostra, poeti, che cantate
finti eroi, infami ardor, bugie e sciocchezze,
non le virtú, gli arcani e le grandezze
di Dio, come facea la prisca etate.
     

Altrove li rampogna che, in luogo di cantare Colombo e gli alti fatti moderni, stieno impaludati nelle favole antiche. Né gli è caro che sciupino l’ingegno in argomenti futili. Bellezza è segno del bene: bella ogni cosa è dove serve e quando, e brutta dov’è inutile o mal serve, e piú s’annoia:

                               Il bianco, che del nero è ognor piú bello,
piú brutto è nel capello...
pur bello appar, se prudenza rassembra.
Belle in Socrate son le strane membra,
note d’ ingegno nuovo; ma in Aglauro
sarian laide: e negli occhi, il color giallo,
di morbo indicio e brutto, è bel nell’auro,
ch’ivi dinota finezza e non fallo.
     
[p. 262 modifica]

Ci s’intravede la nuova critica, che richiama gli spiriti dalle forme alle sostanze, dalle parole alle cose, dal di fuori al di dentro. Di che esempio è lui stesso, che scrive cose nuove e alte nel piú assoluto disprezzo della forma. La sua poesia, nervosa, rilevata, succosa, e insieme rozza e aspra, è l’antitesi di quella letteratura vuota, sofistica e leziosa, venuta su col Marino.

Campanella scrisse infiniti volumi e de omnibus rebus. Nessuna parte dello scibile gli è ignota: scienze occulte e naturali, teologia, metafisica, astronomia, fisica, fisiologia. È un primo schizzo di enciclopedia, un primo albero della scienza. Dovunque fissa lo sguardo, vede o intravede cose nuove. Notabile è soprattutto l’interesse che prende per l’educazione e il benessere del popolo. La scienza fino allora è stata aristocratica, religiosa e politica, rimasta nelle alte cime, piú intenta al meccanismo sociale che al miglioramento dell’uomo. In lui si vede accentuata questa tendenza: che i mutamenti politici sono vani, se non hanno per base l’istruzione e la felicitá delle classi piú numerose. A questo scopo si riferiscono i suoi piú bei concetti: la riforma delle imposte, si che non gravassero principalmente sugli artigiani e i villani, toccando appena i cittadini o borghesi, e niente i nobili; l’imposta sul lusso e su’ piaceri; i ricoveri per gl’invalidi; gli asili per le figliuole de’ soldati; i prestiti gratuiti a’ poveri sopra pegni; le banche popolari; gli impieghi accessi bili a tutti; un codice uniforme; l’uniformitá delle monete; l’incoraggiamento delle industrie nazionali, «piú proficue che le miniere». Lasciare le discussioni astratte, le sottigliezze teologiche, malattia del tempo, e volgersi alla storia, alla geografia, allo studio del reale per migliorare le condizioni sociali, questa è l’ultima parola di Campanella. La prima opera del filosofo, egli dice, è comporre la storia de’ fatti. Ci è giá la nuova societá, che si andava formando sulle rovine del regime feudale. Ci è tutto un rinnovamento sociale, accompagnato, quanto a’ suoi procedimenti, da questo motto profondo: che i moti umani durevoli «son fatti prima dalla lingua e poi dalla spada»; o, in altri termini, che la forza non può fondare niente di durevole, quando non sia preceduta e accompagnata dal pensiero.