Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XIX. La nuova scienza/III.
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iii
Ugual soffio spirava da Venezia. Centro giá di lettere e di coltura con Pietro Bembo, ora diveniva il centro italiano del libero pensiero. Celebre era la scuola materialista di Padova. La stessa indipendenza si sviluppava in materia politica. Di lá all’Italia serva giungevano i liberi accenti di Paolo Paruta. Dal Machiavelli in poi pullulavano scritti politici sotto i nomi di Tesoro politico, Principe regnante, Segretario, Chiave del gabinetto, Ambasciatore, Ragion di Stato, guazzabuglio di luoghi comuni e di erudizione indigesta. I fatti piú tristi vi sono giustificati: la notte di san Bartolomeo e le stragi del duca d’Alba. Il che non toglie che tutti non se la prendano col Machiavelli, accusandolo e insieme rubandogli i concetti. Fra gli altri è degno di nota il Botero nella sua Ragion di Stato, dove combatte il Machiavelli e segue i suoi precetti, applicandoli contro i novatori e gli eretici. Quel libro è il codice de’ conservatori. A lui sembra che tutto sta benissimo come sta, e che non rimane che a prender guardia contro le novitá : «bonum est sic esse». Nacque nel i540, lo stesso anno che nasceva Paolo Paruta, il piú vicino di spirito e di senno a Nicolò Machiavelli. Mentre l’Italia sonnacchiava tra l’assolutismo papale e spagnuolo, e si fondavano in Europa le monarchie assolute, lo storico veneto scriveva che, «tolta la libertá, ogni altro bene è per nulla, anzi la stessa virtú si rimane oziosa e di poco pregio»; che il vero monarca è la legge; e che «chi commette il governo della cittá alla legge, lo raccomanda ad un dio; chi lo dá in mano all’uomo, lo lascia in potere di una fiera bestia». «Nascere e vivere in cittá libera», è per lui l’ideale della felicitá. Ne’ suoi Discorsi politici trovi il successore di Machiavelli e il precursore di Montesquieu, il senso pratico veneziano e l’acume fiorentino. Il sentimento politico era in lui contrastato dal sentimento religioso. Il dispotismo papale e spagnuolo, base della restaurazione cattolica, parevagli minaccioso alla libertá veneziana, e non guardava senza speranza nel moto germanico, dove gli pareva di trovare il contrappeso. La contraddizione era piú profonda nella sua intelligenza, dove ragione e fede contendevano senza possibilitá di conciliazione. Nel suo Soliloquio s’intravedono quegli strazi interiori, che amareggiarono ancora i primi anni del Tasso. La qual contraddizione non risoluta lo tiene in una certa mezzanitá di spirito, e gli toglie quella fisonomia di originalitá e di sicurezza, propria degli uomini nuovi. Non altre erano le condizioni morali dello spirito veneto in quel tempo di transizione. Erano buoni cattolici, ma gelosi della loro libertá, avversi alla curia e soprattutto a’ gesuiti, giá temuti per la loro abile ingerenza nelle faccende politiche, né erano disposti a tener vangelo tutte le massime della Chiesa, specialmente in fatto di disciplina. Con queste disposizioni gli animi doveano essere accessibili alle dottrine della Riforma, né senza speranza i luterani aveano scelto Venezia come loro base di operazione per la diffusione dello scisma in Italia. Sorsero molti opuscoli e trattati in favore e contro; né le dispute religiose poterono esser frenate dall’ Inquisizione, che in cittá cosi difficile procedea mite e rispettiva. Alle contenzioni religiose si mescolavano contensioni di giurisdizione tra il governo e il papa, per le quali non dubitò Paolo quinto di fulminare l’interdetto su tutta la cittá, che sortí un effetto contrario al suo intento: rese ancora piú viva e piú tenace la lotta.
Il personaggio, intorno a cui si raccoglie tutto questo movimento, è Paolo Sarpi, l’amico di Galileo e di Giambattista della Porta, e della stessa scuola. Teologo, filosofo e canonista sommo, non era meno versato nelle discipline naturali : fisica, astronomia, architettura, geometria, algebra, meccanica, anatomia: a lui si attribuisce la scoperta della circolazione del sangue. Mescolato nella vita attiva, non specula, come Bruno e Campanella, e non inventa, come il Galileo; ma scende nella lotta tutto armato e mette le sue cognizioni in servigio del suo patriottismo. Sceglie le sue armi con la sagacia dell’uomo politico anziché con la passione del filosofo e del riformatore; perché il suo scopo non è puramente filosofico o scientifico, ma è pratico, indirizzato a raggiungere certi effetti. Mira a interessare nella lotta i principi, come facevano i protestanti, sostenendo la loro indipendenza verso il potere ecclesiastico. Continuando Dante e Machiavelli, nega al papa ogni potestá su’ principi, e vuole al contrario ricondurre i chierici sotto il dritto comune, non altrimenti che semplici cittadini. Emancipare lo Stato, secolarizzarlo, assicurargli la sua liberta dirimpetto alla corte di Roma, questo era un terreno comune, dove spesso s’incontravano principi e riformatori. Paolo Sarpi ebbe il buon senso di mantenervisi, con una chiarezza e fermezza di scopo assai rara in scrittore italiano. D’ingegno sveltissimo e di amplissima coltura, non lascia tralucere delle sue idee se non quello solo che può avere un effetto pratico a quel tempo e in quella societá, usando una moderazione di concetti e di forme piú terribile che non l’aperta violenza. Taglia nel vivo con un’aria d’ingenuitá e di semplicitá, come chi ti faccia una carezza. Cinque volte si tentò di ammazzarlo; e all’ultima, colpito dal ferro assassino, esclamò:— Conosco lo stile della romana curia. —
La sua Storia del concilio di Trento è il lavoro piú serio che siasi allora fatto in Italia. Quel concilio era la base della restaurazione cattolica, o, piuttosto, reazione, e delle pretese della corte romana. Vi fu consacrato il potere assoluto del papa e la sua supremazia sul potere laicale. Ivi aveano radice i dritti giurisdizionali, che curia e gesuiti cercavano di far valere negli Stati, concitando contro di sé non solo i protestanti, ma i principi cattolici. Era il medio evo rammodernato nella superficie, di apparenze piú corrette e meno rozze. Scrivere la storia di quel concilio, e dimostrare la sua mondanitá, cioè a dire i fini, le passioni e gl’ interessi mondani, che resero possibili quei decreti e prevalenti le opinioni estreme e violente, era un attaccare il male nella sua base. A questa impresa si accinse il Sarpi. E se la passione politica fosse in lui soprabbondata. tirandolo a violenza d’idee e di espressioni e a volontarie alterazioni e mutilazioni di fatti, il suo scopo sarebbe mancato. La sua forza è nella sua moderazione e nelle sua sinceritá. Né questo egli fa solo per sagacia di uomo politico, ma per naturale probitá e per serietá di storico e letterato. La storia nelle sue mani non è solo un istrumento politico: è un sacro ufficio, che egli non sa prostituire alle passioni contemporanee, e al quale si prepara con ogni maniera di studi e d’investigazioni. E qui è l’interesse di questo libro. Ha voluto scrivere una storia imparziale con sinceritá e gravitá di storico, e riesce parzialissimo, perché l’uomo, con le sue passioni, con le sue simpatie e antipatie, co’ suoi fini politici, con le sue opinioni, traspare da ogni parte e si fa valere. La parzialitá non è volontaria e non è nella materialitá de’ fatti, ma è nello spirito nuovo che vi penetra, non solo nella sua generalitá dottrinale, ma nelle sue piú concrete determinazioni politiche ed etiche. Non ci è autoritá che tenga : Sarpi studia tutto, sente tutti; ma decide lui. L’autoritá legittima è nella sua ragione. Il suo ideale è la Chiesa primitiva ed evangelica, sgombra di ogni temporalitá e non di altro sollecita che d’interessi spirituali. Condanna soprattutto la gerarchia, «nata di ambizione papale e d’ignoranza de’ principi». Né per questo fra Paolo si crede men cattolico del papa, anzi è lui che vuole una vera restaurazione cattolica, riconducendo la religione nella prisca sinceritá e bontá, e rendendo possibile quella conciliazione fra tutte le confessioni, che dovea essere procurata, e fu impedita, dal concilio. Perciò chiama il concilio l’«Iliade del secolo», per i mali effetti che ne uscirono, e la sua opera giudica non una riforma ma una «difformazione». Qual era la riforma da lui desiderata, traspare da’ concetti che attribuisce a quel buon papa di Adriano sesto, «uomo germano, e pertanto sincero, che non trattava con arti e per fini occulti», il quale confessava il male esser nato dagli abusi e dalle usurpazioni della monarchia romana, e prometteva piena riforma, «quando anche avesse dovuto ridursi senza alcun dominio temporale, e anco alla vita apostolica».
Grande è in questo libro l’armonia tra il contenuto e la forma. Il concetto fondamentale del contenuto è questo: che, come la veritá è nella sostanza delle cose, non nei loro accidenti e apparenze, cosi la religione ha la sua essenza nella bontá delle opere, e non nella osservanza delle forme o nelle concessioni e grazie pontificie; e parimenti non è la diligente narrazione de’ peccati, ma il proposito di mutar vita, che assicura efficacia alla confessione. Questo è lo stesso concetto dello spirito nuovo, che, giá adulto, dalla molteplicitá delle forme e degli accidenti saliva all’unitá e alla sostanza delle cose. È lo spirito che animava Machiavelli, Bruno, Campanella e Galileo e Sarpi, e che in questa Storia penetra anche nella forma letteraria. Perché qui la forma non è niente per sé, e non è altro che la cosa stessa, liberata da ogni elemento fantastico e rettorico: è il positivo e il reale; proprio l’opposto della letteratura in voga. Il Pallavicino, che per commissione della curia scrisse una storia del concilio in confutazione di questa, dice: «Il fuoco delle ribellioni non si smorza se non o col gielo del terrore o con la pioggia del sangue». Dice cosa gravissima con lo spirito distratto dalla forma, cercando metafore. Qui la forma non è espressione, ma ostacolo; né da questi lisci può venire la grave impressione che pur dee fare sullo spirito un pensiero cosi feroce, base dellInquisizione. Sarpi fa dire il medesimo a papa Adriano: nella forma vi penetra una energia e una precisione di colorito, che ti rende la cosa nella sua crudeltá e insieme nella sua ragionevolezza. Ci è la cosa come sentimento e come idea:
Se non potranno con le dolcezze — dice Adriano a’ principi tedeschi — ridur Martino e i suoi seguaci nella dritta via, vengano a’ rimedi aspri e di fuoco, per risecare dal corpo i membri morti.
Si vede nel Pallavicino la vanitá della forma nella indifferenza del contenuto; si vede nel Sarpi l’importanza del contenuto nella indifferenza della forma, una forma che è il contenuto stesso nel suo significato e nella sua impressione. Trovi in lui una elevatezza d’ ingegno, che gli fa spregiare i lenocini e gli artifizi letterari, una viva preoccupazione delle cose, una chiarezza intellettiva accompagnata con un vigore straordinario d’analisi, e quel senso della misura e del reale che lo tien sempre nel vivo e nel vero. Aggiungi l’assoluta padronanza della materia, la conoscenza de’ piú intimi secreti del cuore umano, la chiara intuizione del suo secolo e della societá in mezzo a cui viveva, ne’ suoi umori, nelle sue tendenze e ne’ suoi interessi; e si può comprendere come sia venuta fuori una prosa cosí seria e cosí positiva. L’attenzione, vòlta al di dentro e non curante della superfície, ti forma un’ossatura solida, una viva logica, maravigliosa per precisione e rilievo, ma scabra e ruvida. Manca a questa prosa quell’ultima finitezza, che viene dalla grazia, dalla eleganza, dalle qualitá musicali. È il difetto della sua qualitá, piú spiccato in lui, non toscano e con l’orecchio educato piú alla gravitá latina che alla sveltezza del dialetto natio.
Machiavelli, Bruno, Campanella e Galileo e Sarpi non erano esseri solitari. Erano il risultato de’ tempi nuovi, gli astri maggiori, intorno a cui si movevano schiere di uomini liberi, animati dallo stesso spirito. Cosa volevano? Cercare l’essere dietro il parere, come dicea Machiavelli; cercare lo spirito attraverso alle forme, come dicea la Riforma; cercare il reale e il positivo, e non ne’ libri, ma nello studio diretto delle cose, come dicea Galileo; o, come diceano Bruno e Campanella, cercare l’uno attraverso il molteplice, cercare il divino nella natura. Sono formole diverse di uno stesso concetto. Riformati e filosofi nelle loro tendenze s’incontravano su di un terreno comune. Camminavano con disugual passo: molti erano innanzi troppo, altri restavano a mezza via; ma per tutti la via era quella. Volevano squarciar le forme addensate dalla superstizione e dalla fantasia e fatte venerabili, e guardare le cose svelate nella loro sostanza o realtá; guardarle col proprio sguardo, col lume naturale. La lotta contro Aristotele e gli scolastici, contro le forme e le dottrine ecclesiastiche, contro le «intrusioni umane» nella Chiesa, contro i simboli, le fantasie, i dogmi, il soprannaturale, era il lato negativo di questo movimento. Lato positivo era il reale, come metodo e come contenuto : l’uomo e la natura studiati direttamente dall’intelletto, prendendo per base l’esperienza e l’osservazione. Paolo Sarpi trasportava la lotta dalle generalitá filosofiche in mezzo agl’ interessi, dove potea aver favorevoli i principi e i popoli: perciò fu piú temuto ed ebbe piú influenza.