Storia della decadenza dei costumi delle scienze e della lingua dei romani/Capitolo I

Capitolo I

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Prefazione dell'autore Capitolo II
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I.

STORIA

DEI COSTUMI DE’ ROMANI


Nei primi due secoli dopo la nascita di Cristo, e in primo luogo dell’origine del Despotismo necessariamente prodotto dall’universale immoralità.


Allorché si conosce lo stato dei costumi de’ Romani nell’ultimo secolo della lor liberta  1, appena immaginar si dovrebbe che la prepotenza, e crudeltà dei loro Capi e Condottieri, l’egoismo, la mollezza, e il lusso dei Grandi, la poltroneria e viltà della Plebe, la rilassatezza delle Truppe e della Gioventù, non meno che la sfacciataggine delle Donne, e delle Zittelle, avessero ancora potuto aumentarsi, senza che il corpo dello stato già lacerato nel suo interno dalla preponderante corruttela, ed in tutte le parti in guerra con se medesimo non fosse stato in breve tempo fatto in pezzi, e distrutto. Eppure dopo un serio, e non [p. 10 modifica]interrotto esame si osserva, che quando il popolo Romano piegò l’orgoglioso suo collo al giogo di un Monarca, non era per anche giunto alla metà della strada che lo guidava al precipizio; che tutte le virtù, tutte le nobili qualità, e le buone arti salvate dall’eccidio della Repubblica dovevano ancora per varj secoli andar decadendo, ed al contrario crescere per ugual tempo e proporzione tutti i vizj, e gli abusi prima che alla fine si esaurissero le forze vitali di quello smisurato colosso, e che la sua lunga consunzione terminasse infallibilmente colla di lui morte. Per quanto numerose, ed insanabili fossero le ferite che la Romana Potenza prima della fondazione del Despotismo ricevute aveva dal braccio stesso de’ suoi snaturati figli, ciò non ostante faceva d’uopo che per abbattere quest’immenso Impero, il quale abbracciava presso che tutto il grande ed il bello della Terra allor conosciuta, passassero quasi altrettanti secoli, quanti erano stati necessarj per ergerlo, e la sua caduta costar doveva al genere umano non minore, e forse più sangue di quello che importato ne fosse il di lui ingrandimento. Nello spazio dei cinquecento anni, che durò la decadenza dello Stato Romano, vale a dire da Augusto fino ad Augustolo, parve qualche volta che esso, mediante la provvida mano di saggi Imperatori  2, ricuperata avesse la sua primiera salute e robustezza. Ma questo ristabilimento non fu che di corta durata, o apparente. Il terribil tarlo, che le divorava, e che [p. 11 modifica]i più grandi Sovrani o non ebbero neppur il coraggio di toccare, o indarno procuraron di estinguere, crebbe, e dilatossi in tal guisa, che cader ne fece un membro dopo l’altro, e per ultimo giunse a distruggerne anche il cuore ed il capo.

La serie de’ quadri, che per ordine andrò esponendo, non può al certo inspirare agli accurati osservatori se non che vicendevoli sentimenti di raccapriccio e abominio, o piuttosto della più viva e leal compassione. Spero per altro che quanto i sensibili Lettori soffrir dovranno nelle seguenti descrizioni, verrà loro a sufficienza ricompensato dal racconto di molti fatti importanti del pari che dalle osservazioni, e dai paralelli che ricavar ne potranno da lor medesimi. Dee senza dubbio arrecar sorpresa, e rincrescimento ad ognuno che la Romana corruttela in estensione e grandezza superasse tanto quella delle più libertine, e screditate Metropoli della nostra moderna Europa, quanto gli Stati più potenti dei tempi nostri in popolazione, e in circonferenza cedono il vanto al Romano; che la stessa immoralità quando è giunta una volta ad un certo grado si lasci così poco tener a freno da leggi e gastighi, come coi più dolci espedienti; e che persino le già derubate, e del continuo affluenti ricchezze di tutta la Terra, e il copioso numero delle Legioni, composte di popoli i più valorosi ed illustri dell’antico Mondo, salvar non potessero dalla sua caduta la forte, ed ampiamente dominante Roma, a cui [p. 12 modifica]gli sfrenati suoi vizj la incalzavano. Nè Gibhon, nè alcun altro a me noto Istorico ha fatto la debita riflessione allo stato dei costumi de’ Romani nei primi secoli dopo la nascita di Cristo, e perciò negli avvenimenti e nei fatti, che essi raccontano, trovansi piuttosto uniformi, od enimmatici resultati d’ignote molle di quello che un fedele, e veramente istruttivo prospetto delle prime lor cause, ed ultime conseguenze, che per lo meno nei monumenti di quei lontani tempi scuoprir si possono . Finche la Storia politica rimarrà una galleria di retorico-filosofiche declamazioni, come assai di frequente lo è in Gibbon, l’osservatore, e il pittor dei costumi, della lingua, dell’educazione, e dell’arti, e scienze degli antichi e moderni popoli dovranno andar d’appresso, o tener dietro allo Storico-politico, onde supplire a quanto si è dal medesimo passato sotto silenzio.

La caduta della libertà fra i Romani, e 1'assoluta sovranità degli Imperatori, eretta su le rovine della Repubblica, non furono tanto 1'effetto dell'insaziabile ambizione di alcuni Cittadini, che aspiravano a formarsi un ingiusto dominio, quanto ebbero esse piuttosto origine dal destino di que’ tempi, dall’attual sistema della Repubblica, e segnatamente dalla viltà e dappocagine della Plebe, dalla debolezza del Senato, e dalle avanie, e da altri perniciosi vizj dei Grandi e Potenti del Popolo. Quand'anche non fossero venuti al mondo un Cesare, un Augusto, un Tiberio, pure sarebbero stati in Roma [p. 13 modifica]generati, ed universalmente bramati varj altri Monarchi, a cui la misera Plebe, e il non meno schiavo Senato avrebbero anche contra lor voglia conferito un assoluto potere, e dato animo a porlo in esecuzione, come realmente successe.

Il bisogno, ed il comun desiderio di ottenere un nuovo sistema di governo, oltre la testimonianza, ed alle chiare ragioni del più perspicace Romano Istorico, si rendono altresì ad evidenza manifesti da tutto ciò, che fecero Cesare, e Augusto, e specialmente quest’ultimo, onde ricongiungere i membri, per così dire, già andati in brani del corpo dello Stato, e dar loro nuova vita e nuovo vigore . Dopo che dice Tacito, tutto lo Stato Romano si fu esaurito di danaro e di Truppe, stante le lunghe e sanguinose guerre da lui sostenute, ogni ceto di persone, e le provincie non vedevano di mal occhio che Augusto a poco a poco tirava a se l’autorità del Popolo e del Senato, non che quella de’ membri più rispettabili dei Magistrati. Il di lui dominio soddisfaceva, ed allettava le armate a motivo delle grandi ricompense, con le quali Egli premiava i loro servigj; la Plebe pei ricchi donativi, e per le copiose distribuzioni di viveri, con cui la nutriva; le provincie a cagione dell’impotenza del popolo, e del Senato, e per le quindi nascenti contese, e ruberie dei Grandi, contra i quali non aveva giammai potuto difenderle alcuna legge; i Nobili, e i più distinti soggetti mercè le ricchezze e dignità, che essi ottenevano in contraccambio della loro ubbidienza [p. 14 modifica]ed attaccamento; e tutti in fine pel dolce riposo, e per la sicura pace, in cui ognuno poteva liberamente goder del suo. Quindi è che allorquando Augusto si accostava all’ultimo dei suoi giorni, pochi eran quelli, i quali parlassero, e senza trovare ascolto, dei privilegi, e vantaggi della libertà, giacché i più arditi ed orgogliosi fra i Romani, che ricever non volevano le stesse ricchezze, e cariche luminose dal favor di un solo, cessato avevan di esistere jper le guerre civili, o nelle proscrizioni. I più giovani, eran nati quasi tutti dopo la vittoria Aziaca, come i più vecchj nel tempo dell’interne discordie, di modo che non rimaneva che un piccol numero di persone, le quali veramente avesser veduta, e conosciuta la libera lor Repubblica. La massima parte del popolo, e dei Grandi temeva la guerra civile, e andava quindi con ansietà in traccia di un Sovrano, a cui sottoporsi. Erasi già da lungo tempo deposta qualunque pretensione di una politica libertà, e viceversa introdotta l’abitudine di considerare i comandi del Principe come leggi, e la sua grazia qual sorgente d’ogni fortuna. Saputasi pertanto la notizia della morte di Augusto, e che Tiberio eragli succeduto nel Trono, i più rispettabili Personaggi corsero a gara a presentarsi al loro nuovo Monarca, e con le più artifiziose e umilianti adulazioni formarono un mescuglio di condoglianze, e di congratulazioni, di lacrime, e di contrassegni di allegrezza ad oggetto di assicurarlo della loro fedeltà e [p. 15 modifica]soggezione. Inoltre allorquando poco tempo dopo fu dal popolo conferita al Senato l’ombra che ancora restava della passata libertà, di scegliere, cioè, secondo le raccomandazioni del regnante Imperatore i membri che compor dovevano i Magistrati, la Plebe ne mormorò in un modo inconcludente, ed appena inteso; ed i Grandi gioirono per l’annichilamento dell’ultimo avanzo del loro antico governo, poiché in quel punto venivano essi sciolti dalle gravose corruzioni, e da qualunque altro anche più gravoso intrigo, e maneggio, che esercitando andavano presso una plebe da loro disprezzata e abborrita. Questo fedel prospetto dello stato in cui trovavansi le cose in Roma sul principio della moderata Sovranità di Augusto, e del Despotismo di Tiberio persuaderà ognuno che il Popolo ed il Senato Romano non erano più meritevoli e capaci di possedere, ed esercitare, l’autorità e i privilegi, di cui avevano goduto, e fatto uso fino a quell’Epoca; e che non solamente gli eserciti e le provincie, ma la Plebe stessa ed i Grandi desideravano una Monarchia qual fu quella d’Augusto, per la ragione che allora la prima viveva sicura del proprio sostentamento, e de’ suoi sollazzi, e gli altri speravano, o per nascita, o a forza di protezioni di giugnere al possesso di quei beni, di cui credevansi suscettibili e degni essi soli, e che facendo ritorno la libertà conseguito giammai non avrebbero se non col mezzo di grandi virtù e prerogative, con indefessa attività, e pericolosi [p. 16 modifica]contrasti coi loro emuli1. Ma quand’anche tutte le classi delle persone fra i Romani, e tutti i Popoli ad essi soggetti bramato non avessero un nuovo ordin di cose, tutta volta sarebbesi reso in breve tempo necessario d’istituirlo stante i [p. 17 modifica]difetti, e l’impotenza del precedente governo, mentre in caso diverso l'intero stato Romano non avrebbe sicuramente potuto evitare di soggiacere in poche generazioni ad un total rovescio e annichilamento. Se il potente genio di Cesare trionfato non avesse dell’inferiore spirito tutelare di Pompeo, e se i guerrieri e gli Eroi da lui formati giunti non fossero ad abbattere i nemici di Augusto, allora sarebbonsi rinnovate tutte le scelleraggini, e mostruosità della guerra civile, fino a tanto che i vincitori divorato avrebbero la lor preda (che come tale veniva considerato lo stato Romano dagli stessi compagni di Pompeo e d’Antonio), spopolata affatto la terra ai Romani soggetta, o spinti tutti i popoli alla disperazione ed alla rivolta. In uno stato, in cui le leggi, e le autorità erano così impotenti, e disprezzate, i Comandanti delle Truppe e delle Provincie così egoisti e rapaci, gli Eserciti così indisciplinati e baldanzosi contra la loro Patria, e tutto il popolo in tal modo depravato e corrotto, come appunto scorgevasi nella moribonda Repubblica Romana; in tale stato, io dico, era impossibile di restituire alle leggi e ai Magistrati la lor dignità, alle Armate e ai Comandanti ubbidienza, disciplina e buon ordine, ai Grandi moderazione, e continenza, e ai Plebei industria e patriottismo. Come che adunque erano dal tutto spariti i buoni costumi, unica base e sostegno del passato governo, così doveva in vece sorgere un Monarca fornito di assoluto dominio, il quale se con ordini, proibizioni, [p. 18 modifica]minacce e gastighi non trovavasi capace di creare virtù e patriotti, poteva per altro distruggere i vizj, e i malvagj, che a quel tempo infuriavano impunemente, ovvero tenerli a freno, e atterrirli. Augusto sull’esempio del suo gran Predecessore messe in opera tutto ciò che in tale stato, in tale situazione di cose, e coi detti mezzi eseguir potea, onde ristabilire, ed assodare il Romano Impero; e quanto Egli fece prova ad evidenza, secondo il mio giudizio, l’impossibilità di mantenere, e conservare l’antecedente governo del pari che l'assoluto bisogno di crearne un nuovo: e dimostra che già Cesare con ragione dichiarò, che la Repubblica altro non era allora che un nome privo di senso, e che Augusto meritamente si dava il vanto di aver da capo fondata la Romana Potenza, ed introdotto un nuovo, e miglior ordin di cose2.

Allorchè Augusto prese in mano le redini dello Stato Romano, la maggior parte dei Templi [p. 19 modifica]era stata posta a sacco e rovinata al pari degli altri pubblici edifizj, e singolarmente delle strade primarie. Il letto stesso del Tevere trovavasi ingombro di materie e rottami di edifizj, e le inondazioni e gli incendi devastato avevano e distrutto interi tratti della Città. Egli non fu contento di ristabilire tutto ciò che era andato in rovina, ma abbellì Roma in modo che a ragione dir poteva di se medesimo marmoream se relinquere urbem, quam lateritiam accepisset3. Dopo che egli ebbe, per così dire, riedificata la città, e le strade, che a lei conducevano, diedesi la cura di provvedere alla sicurezza dell’una, e dell’altre. Perciò divise Roma in diversi quartieri più o meno grandi, e ne istituì i respettivi Governatori; creò sentinelle, e guardie per estinguer gli incendj; e stabili tanto per la città che per la campagna varie pattuglie, o picchetti di soldati ad oggetto di por freno ai viepiù sempre cresciuti latrocinj e massacri, che vi si andavano commettendo. Prima di lui i ladri e i sicarj4 avevano la baldanza di farsi pubblicamente veder qua e là armati di tutto punto, ed altre persone di malfare univansi persino in numerose società, onde sotto varj nomi attentare alla libertà, sicurezza, vita, e sostanze dei loro concittadini. Non eravi allora cosa più comune che i viaggiatori tanto [p. 20 modifica]liberi che schiavi assaliti fossero sulle pubbliche strade, e in seguito strascinati in quelle orribili prigioni, nelle quali si racchiudevano gl’incatenati schiavi de’ Grandi. Ad onta delle correzioni, che Cesare proposte aveva rapporto al Calendario, non trovavasi questo in minor confusione e disordine di quello che lo fosse il senato stesso. A motivo delle proscrizioni, e della total inerzia di tutti i Tribunali nel tempo delle cittadinesche discordie, gli effetti, i debiti, e i non debiti dei rimasti Romani erano divenuti così incerti, che niuno precisamente sapeva se alcuna cosa, e quanto, conservar dovesse, ricevere, o pagare, ed eziandio se potesse correr pericolo di esser qual debitore sottoposto ad accusa, o condanna. Augusto anche in questa parte richiamò l’ordine e la sicurezza, abolendo gli antichi debiti e reclami, confermando nelle loro proprietà i possidenti, e prescrivendo tempo e norma a chiunque aveva dei crediti, onde perseguitar in giudizio i suoi debitori.

Questi suoi grandi meriti furono altresì da lui accresciuti col ripulire e correggere il Senato, l’Qrdine Equestre, ed il Sacerdozio con nuovi regolamenti sulle pubbliche rendite e spese, non meno che rispetto alle armate, flotte, e provincie, col ristabilire, e migliorare i Tribunali, col creare nuovi ed importanti impieghi5, col fondare altre colonie, e finalmente [p. 21 modifica]con un copioso numero di nuove e salutari leggi, mediante le quali l’educazione della Gioventù, la santità dei matrimonj, la morale d’ambi i sessi, la sicurezza degli alleati e dei sudditi, e la decenza dei pubblici divertimenti vennero, per quanto si rese possibile, sostenute, e promosse . Prima del suo Governo erano in Roma spariti per la confusione, e malvagità dei tempi tutti i vantaggi resultanti dalle civili istituzioni, ed all’opposto coi vizj, e cogli abusi delle grandi società andava d’accordo il libertinaggio di popoli barbari e feroci. Augusto in somma restituì allo Stato Romano riposo e dignità, e ai Romani, leggi, proprietà e sicurezza. Essi per altro non mancarono di sentire di quanto erano debitori al loro Sovrano, imperocchè tanto il Senato, che il Popolo con espressioni della più viva, e sincera filial benevolenza e gratitudine gli conferirono l’onorevol nome dì Padre della Patria, che venne da lui accettato con interno trasporto, quantunque d’altronde fosse alieno da qualsivoglia umiliante, e invidiabile adulazione, e onorificenza. Nella risposta pertanto, che Egli diede a Valerio Messala6, nell'atto in coi gli furono dal medesimo notificati i concordi e sinceri sentimenti del Popolo e del Senato, colle lagrime agli occhi così si espresse. = Ora sono compiuti tutti i miei voti, nè d’altro favore prego gli immorali Dei, se non se di conservarmi fino [p. 22 modifica]all’ultimo momento della mia vita l’affetto del Popolo e de’ suoi Nobili = .

La total rovina dell’antico sistema governativo dei Romani non fu al certo l’effetto primario dell’insaziabile ambizione di alcuni potenti Cittadini, e molto meno il quindi in breve nascente illimitato Despotismo dei Romani Imperatori ebbe origine dai continui, e premeditati sforzi di varj tra questi ultimi onde farsi strada ad un assoluto potere, mentre agli stessi vizj piuttosto pei quali erasi reso indispensabile un cambiamento di governo attribuir devesi la vera causa del suddetto furibondo despotismo, che è stato il più terribile di quanti siensi mai posti in opera sopra un popolo valoroso, e dotato di ottimi sentimenti. La general corruttela dello spirito e del cuore investì dopo Augusto i Romani Monarchi anche più degli stessi lor sudditi abitanti in Roma, imperocché si rendeva assolutamente impossibile che in mezzo agli smoderati, e non naturali desiderj e appetiti, che in quei Despoti venivano a bella posta prodotti, o infiammati, germogliasse, o sussistesse qualche reale virtù, o sublime, e nobil tendenza. Essi erano del continuo attorniati da favoriti a lor simili, ai quali soprattutto importava di rendere i proprj signori al maggior segno infingardi, voluttuosi, e crapuloni ad oggetto di potere con più libertà e sicurezza dominare, e impadronirsi dell’altrui sostanze. Tali Sovrani, e tali Favoriti però, che consideravano come proprio nemico qualunque soggetto facoltoso [p. 23 modifica]e dabbene, non avrebbero così di leggieri perseguitata l’innocenza e la virtù, ed oltraggiata la maestà del genere umano, come realmente facevano, se i ministri delle loro dissolutezze e dei lor delitti eseguito non avessero, il vile senato approvato, e l’indegna plebe sofferto, e applaudito tutto ciò che essi determinavansi di comandare, o intraprendere . In vece che il senato, il quale era composto dei più ragguardevoli e facoltosi individui della Nazione, e che per conseguente teneva al suo servizio una turba, per così dire, innumerevole di clienti e di schiavi, avesse dovuto con altri costumi atterrire anche i più arditi Despoti, e i loro ministri, preveniva piuttosto quasi sempre colle sue risoluzioni i desiderj de’ proprj sovrani, e de' loro favoriti, e approvava, o suggeriva certe azioni, per cui rinvenuto non sarebbesi un adeguato e giusto gastigo, producendo esse persino nei medesimi loro empj autori rimorsi tali di coscienza, che non di rado gli trasportavano alla fronesia ed al delirio. Se adunque il senato con tal prontezza e facilità prostituivasi del continuo ai suoi Despoti, qual maraviglia se anche le guardie del corpo, e la plebe, che soltanto accarezzate vennero dai più crudeli tiranni, favorissero soprattutto quei Monarchi, dai quali maggiormente speravano di trar profitto?

Cesare derideva senza dubbio il Dittator Siila per la follia ch’Egli ebbe di spogliarsi volontariamente della suprema autorità dello [p. 24 modifica]stato7. Lo stesso Cesare pure non solo rimase soddisfatto di possedere la detta suprema carica, ma desiderò eziandio (massima, e veramente incomprensibile debolezza del più grande fra gli uomini) di ottenerne il nome, e le insegne, e forse ambiva del pari, se non il titolo, almeno il diadema di Re8. Ma quantunque Cesare bramasse, ed ottenesse più di quello che avrebbe dovuto per la sua propria sicurezza, tuttavolta il vile Senato si affrettò di offerire al vincitore varie altre distinzioni e privilegj di gran lunga superiori a quanto erasi da lui bramato. In fatti Egli non solo concesse a Cesare il perpetuo Consolato, la perpetua Dittatura, e Censura, e gli onorevoli nomi d’Imperatore, e di Padre della Patria unitamente ad una statua fra i Re, ed un distinto e più alto posto nell’Anfiteatro, ma lo ricolmò altresì di onori divini, quasi che il medesimo non fosse stato unicamente il primo, e il più potente genio dei Romani, ma il supremo Dio tutelare del Romano Impero9. Siccome il [p. 25 modifica]Senato si faceva lecito di usare queste disonorevoli adulazioni verso di un uomo, il quale, lungi dallo smentire la propria clemenza, aveva anzi con benefizj tratti al suo partito, o confusi i suoi maggiori nemici e calunniatori: così si può facilmente supporre che anche a quel tempo il Senato era per la maggior parte composto di certi meschini individui, i quali non già per timore, ma sulla speranza di conseguire colle loro viltà ed umiliazioni ricchezze ed impieghi onorifici dalla generosa mano di Cesare, vendevano il proprio decoro, e quello dell’illustre Popol Romano .

Dopo che Augusto con la disfatta, ed oppressione di tutti i suoi nemici ebbe fatto acquisto di quel dominio stesso, che a Cesare non erasi potuto togliere se non con un assassinio, allora l’adulatore Senato, e la Plebe offersero da capo al loro nuovo Sovrano tutte quelle più sublimi e invidiabili dignità, e divine onorificenze, le quali talmente irritato avevano i nemici di Cesare che da ultimo ne affrettaron la morte. Ma Augusto, il quale era molto meno vanaglorioso e superbo, o, se questa espressione sembra troppo avanzata, molto meno disprezzante de’ suoi nemici, come del Senato, e della plebe, di quello che lo fosse stato Cesare, e che in sostanza [p. 26 modifica]sapeva assai meglio di lui regolarsi con prudenza e moderazione nella fortuna, rinunziò costantemente, e sul serio il Consolato perpetuo, la Dittattura, e soprattutto l’offertagli Divinità e adorazione divina, unicamente contentandosi di essere considerato qual capo e protettore del popolo10. Ad onta però di questi suoi noti sentimenti, e del sincero contraggenio da Lui spesse volte manifestato verso qualsivoglia umiliante ed indegna adulazione, Egli dovette per tutto il corso del suo Governo lottar del continuo contro la servile compiacenza, che il Senato e la Plebe nutrivano di dedicarsi alla schiavitù del pari che contro l’assoluto Despotismo, di cui volevasi investirlo a qualunque costo11. Augusto carezzava così poco la Plebe, s’affaticava talmente a correggere i primi ordini dello stato, permetteva che il popolo, ed [p. 27 modifica]il senato prendessero parte in tanti pubblici affari, conduceva una vita così semplice e privata nell’interno del suo palazzo, uguagliavasi a tal segno in tutte le circostanze agli nitri senatori, e con tale e cotanta sollecitudine sfuggiva l’occasione di far comparsa di ogni arbitrario, e militar potere12, che se i Romani stati fossero capaci di una moderata costituzion di governo, o di una Monarchia limitata dall’influenza del popolo, e dall’autorità dei Grandi, n’avrebbero potuto gettar le basi sotto lo stesso Principe13. Ma i vizj del popolo a fronte di tutti gli sforzi, e dell’ottime disposizioni di Augusto strascinarono senza indugio il Senato al despotismo, di maniera che devesi soprattutto e unicamente attribuire al prelodato Monarca, se il di Lui governo non si rese così arbitrario e tirannico come lo furono quelli dei suoi più prossimi successori. Augusto aveva così poco aspirato a formarsi un assoluto dominio, ed era così poco rimasto contento di trovarsene in possesso che per ben due volte pensò seriamente di deporre ancora la dignità di Capo, e di Protettore di tutto il popolo . Il motivo però, che oltre alla sua propria sicurezza risolver lo fece a ritenere questa prima carica dello Stato, già [p. 28 modifica]da Lui accettata, fu l’intima e fondata persuasione che il Romano Impero non avrebbe potuto sussistere se Egli di nuovo lasciato l’avesse in balìa del senato, e del popolo di quel tempo14. Un’egual opinione era pure stata la causa dell’eroica indifferenza, con cui Cesare se ne stava alle voci d’insidie e di congiure, che tramavansi contro la di Lui vita. Importa, egli diceva15, più al comun bene che a me la conservazione, e la durata del viver mio. Già da lungo tempo io ho fatto bastante acquisto di gloria e di potere. Se mai soggiacer [p. 29 modifica]dovessi a, qualche sinistro accidente, lo Stato caderebbe di nuovo in preda alla confusione ed al disordine; e le quindi nascenti guerre civili non verrebbero intraprese e condotte a fine con quella stessa moderazione e facilità, con cui furono da me estinte le ultime. Questa terribile predizione venne pur troppo confermata da quanto in breve ne accadde.

Benché Tiberio avesse dati fin dalla sua prima gioventù non pochi indizj di un animo orgoglioso, duro e sanguinario, ciò nonostante sul principio del suo governo calcò sì bene le traccie dell’illustre suo Predecessore, che parmi di poterne concludere che Egli del continuo avrebbe saputo far forza al proprio temperamento, e regnare con lo spirito di Augusto, se i di lui confidenti, e se il Senato, ed il Popolo stati fossero di altri costumi. Egli ricusò mai sempre tutti i titoli onorevoli, e gli omaggi che vennergli offerti, e tra i primi quei medesimi, che accettati furono da Augusto16. Non meno di Lui aveva in orrore tutte le servili adulazioni, e con ugual eroismo disprezzava i calunniatori, e i libelli infamatorj17. Di più esponeva al Consiglio tutti gli affari importanti del governo, e non solo tollerava che il medesimo si regolasse colla maggior libertà rispetto ai voti, e alle [p. 30 modifica]deliberazioni, ma gle ne porgeva Egli stesso il coraggio, e faceva i più vivi rimproveri ai Comandanti delle truppe e delle provincie, allorché questi spedivano a Lui, e non al Senato, i loro rapporti, e le loro suppliche e inchieste. Quando Tiberio incominciò a spiegare, e porre in esercizio il poter di un Principe, non lo fece per molto tempo che nella sola circostanza, in cui bisognava togliere, o punire certi abusi, a cui il Senato non voleva in alcuna guisa metter riparo18. Qual fu dunque il motivo, che in seguito obbligò Tiberio a sottrarsi per sempre dagli sguardi del suo Popolo, e che in un’età, in cui negli nomini anche più corrotti le passioni ed i vizj sogliono aver fine, scatenaronsi ad un tratto da1 di lui spirito i più mostruosi difetti? E che altro se non la frode, la crudele ambizione, e l’infedeltà di Sejano suo confidente? Che altro se non l’infausto e scelerato zelo, con cui una copiosa turba di delatori delle primarie famiglie calpestavano la virtù e l’innocenza? Che altro se non la sommissione vergognosa, degna soltanto degli Schiavi Orientali, e le adulazioni del Senato e del Popolo? Che altro se non la prontezza e la facilità, con cui un infinito numero di malvagi procuravano di dare sfogo ai desiderj, e segnatamente alla crudeltà del loro Monarca? [p. 31 modifica]E fìnalmente che altro se non quei non naturali, e scaltri libertini, ì quali serpeggiando nei palazzi dei Grandi giunsero a sorprendere anche lo stesso vecchio Tiberio nella sua tirannica impenetrabil grotta di Capri? Se Tiberio invece di Sejano, di delatori, di micidiarj, di ministri di libertinaggio, e dello schiavo Popolo e Senato trovato avesse un collega, come per lungo tempo ne fu degno, eroici protettori dell’innocenza, illuminati amici e coraggiosi difensori dei diritti, delle proprietà, e della vita dei Cittadini, non sarebbesi giammai stabilito da Lui il despotismo, che inevitabilmente ebbe origine tosto che lo stesso Principe divenne simile al rimanente del Popolo, e che lungi dall’opporsi ai pravi appetiti e vizj, che s’introducevano da tutte le parti, ne rimase Egli pure miseramente strascinato e corrotto.

Tiberio non commetteva quasi mai alcuna ingiuria, ingiustizia, o crudeltà se non che ad altrui istigazione e consiglio, e spesse volte dopo aver alquanto differito a determinarvisi. I primari Romani non solo perduto avevano ogni sentimento del proprio grado ed onore, ma ben anche di umanità e di giustizia; nè davasi laidezza, o scelleraggine, per quanto enormi esse fossero, di cui i primi membri de’ magistrati non si credessero autorizzati a far uso ogni qual volta essi potevano con tal mezzo acquistarsi la grazia del Sovrano, o del suo favorito, ovvero preservarsi da qualche rischio. Si detesti pure Tiberio quanto si vuole; tuttavolta il [p. 32 modifica]Senato, i delatori, e i carnefici di tanti innocenti sono assai più di Lui meritevoli di abborrimento e disprezzo nel tempo stesso, per la ragione che i medesimi non solo venivano per lo più ad essere gli autori, e i promotori di false accuse, e d’ingiuste sentenze, ma spingevano altresì il tradimento, le insidie, e gli odj ad un grado molto maggiore di quello, che si praticava dal proprio Tiranno da lor temuto, e venerato qual Nume. Subito che costoro scuoprivano in esso il primo germe di qualche rea passione, o di personale disgusto, allora nutrivano, ed infìammavan la prima coi più artifiziosi incentivi, e sagrificavano all’altro i più meritevoli ed innocenti soggetti. I fatti e le testimonianze, che avrò luogo di addurre in seguito, appartengono agli eterni monumenti della corruttela di que’ tempi, e possono considerarsi come altrettanti sicuri maestri di questa innegabile e trista verità; che quando i vizj più enormi giungono a rendersi famigliari e comuni producono indispensabilmente anche senza il concorso, e persino contro la volontà dei respettivi Monarchi, il più terribile e fiero despotismo.

I tempi di Tiberio, dice Tacito19, erano a tal segno corrotti, e così sfacciatamente luridi per le adulazioni dei Grandi, che non solo [p. 33 modifica]i primi signori dello Stato, che assicurar dovevano la loro grandezza coll’ubbidienza, e colla rassegnazione, ma anche tutti i Consolari, una gran parte dei già Pretori, e molti persino dei comuni membri del senato gareggiavano tra loro nel fare in ogni congiuntura i più stravaganti, e disonorevoli progetti, o nel dar consimili voti. Raccontasi pertanto che Tiberio ogni qual volta partiva dalle adunanze del Consiglio pronunziava in greco idioma queste parole — : O miserabili, veggo che già voi siete disposti alla schiavitù! Anche a colui, soggiunge Tacito, il quale non bramava la libertà del popolo, rincrescevano senza dubbio l’abjezione della schiavitù, e le servili adulazioni del senato.

Il senato, racconta Tacito in un altro luogo20, non prendevasi alcuna pena se la maestà dello stato Romano veniva infamata fine agli ultimi suoi confini. Un interno e per così dire domestico terrore aveva talmente ingombrato tutti gli animi, che indarno se ne andava cercando un rimedio nell’adulazioni. In conseguenza benché i Padri del Popolo interrogati fossero da Tiberio sopra molti affari relativi al Governo, ciò nonostante invece di pensare a dar risposta alle domande di lui, decretavan essi piuttosto che si ergesse un altare alla Grazia, ed un altro all’Amicizia, e si collocassero intorno ai [p. 34 modifica]medesimi le statue di Tiberio e di Sejano, rinnovando sempre più le lor premurose e importune istanze che sì questo, che quello accordassero al senato il favore, di venerarli personalmente. Tiberio all’opposto, e il suo favorito non venivano, a cagion di questo giammai in città o nelle vicinanze di essa, ma abbandonando appena qualche volta la loro Isola toccavano soltanto la ferma spiaggia della Campania. Tostochè per altro giungevane in Roma la nuova, i Senatori, i Cavalieri, e una gran parte del Popolo correvano a quella volta, disputavansi a gara la sorte di veder Sejano, stavano giorno e notte in aspettazione di questa grazia, non solo soffrivano colla maggior pazienza l’alterigia, e la ruvidezza di costui, ma ben anche quelle de’ suoi schiavi portinaj ed uscieri, e credevan poscia di esseri più felici di tutti gli uomini, coloro che eran giunti al suo cospetto, come all’opposto pieni di angustia e di spavento se ne tornavano in città gli altri, cui egli accolti non aveva, o degnati di qualche particolar conferenza. È noto ad ognuno, dice Tacito, che l’orgoglio di Sejano si accrebbe oltremodo per la vergognosa umiliazione, che i primarj Romani spiegavano pubblicamente in tal circostanza21. Costoro, che si facevano conoscere sempre più vili ed abietti di quello che erano [p. 35 modifica]stati supposti, meritavano certamente sotto tutti i rapporti di esser trattati in un modo non diverso da quello, che con essi praticavano Tiberio e Sejano.

Come che i Senatori per un’ansiosa cura di conservare la lor vita, e le, loro sostanze, ed autorità, o a motivo di un eccessivo e cieco desiderio di far acquisto di ricchezze, e di cariche luminose, non osservavano alcun termine e misura nelle loro adulazioni, così non di rado accadeva che i medesimi colle proprie artifiziose espressioni di soggezione e d’attaccamento eccitavano piuttosto la diffidenza del Tiranno, ed invece della sperata grazia ne riscuotevano i più amari rimproveri, o il più mordace dileggio22. Allorchè un giorno i discendenti dei Scipioni, dei Silani, e dei Cassi si furono in particolar modo segnalati con servili progetti ed approvazioni, credette un oscuro ed insignificante loro collega, chiamato Togonio Gallo di potere, e dover emulare questi gran Nomi. Tiberio, il quale del continuo faceva vista di volersene tornar in Roma, ma se ne stava sempre lontano, aveva in una sua lettera scritta al Senato dimandata la salvaguardia di un Console, ad oggetto di potersi con sicurezza [p. 36 modifica]trasferire in città dalla di lui Isola. Tal dimanda parve importante e sincera a Togonio Gallo, cosicché fu da costui proposto che si supplicasse il Monarca a scegliere un certo numero di Senatori, da cui ventiquattro estrar se ne potessero a sorte, e al medesimo dare in iscorta ogni qual volta gli piacesse di presentarsi in Senato. Il buon Togonio Gallo venne su questo particolare inteso con derisione e disprezzo nel Consiglio, non tanto perchè la sua proposizione sembrasse più indegna, e inconsiderata di qualunque altra, quanto a motivo chè Esso, ad onta della propria oscurità ed insignificanza, erasi preso l’ardire di adular Tiberio in tal guisa, come se ciò fosse stato unicamente convenevole alle più nobili famiglie, e ai primi soggetti dello stato23. Tiberio per altro con simulata serietà rese grazie al Senato rapporto alla proposta di Togonio, lodò lo zelo che dimostrato avevano i padri per la sua propria conservazione, e quindi chiese ironicamente quali membri del Consiglio conveniva scegliere, quali tralasciare, e quindi s’Ei poteva ritener del continuo gl’istessi ‘’soggetti. Inoltre se questi esser dovevano, giovani, o vecchj, [p. 37 modifica]e persone che coperto avessero o no qualche illustre carica: e in fine quale specie farebbe nel pubblico, se si vedesse una parte del Consiglio armata di spade sulla soglia del Palazzo, ove il medesimo teneva le proprie adunanze? In ultimo poi soggiunse, che Egli non amava tanto la vita per desiderare di essere sempre difeso colle armi in mano.

Le adulazioni però de’ primarj Romani erano molto meno dispregevoli e vili di quello che esecrandi fossero le arti, colle quali i medesimi stimolavano l’inquietudine, la diffidenza, e l’ingenita crudeltà di Tiberio, e mandavano poscia in rovina un’infinita moltitudine d’innocenti, e per ultimo anche lor stessi . Siccome Tiberio era di sua natura più accessibile ai falsi spioni, che ai vili adulatori, così ridonda a di lui onore l’essersi egli per lungo tempo difeso dai primi, e l’aver persino ne’ suoi giorni più critici sparso meno sangue, e gettato a terra un minor numero di famiglie illustri di quello che voluto avrebbero i Delatori, e il Senato.

Tiberio sul principio del suo governo si dimostrò, conforme eran già stati Cesare e Augusto24, inflessibile ad ogni rapporto, o scritto calunnioso, pronunziando francamente quell’aureo detto; che in uno Stato libero lo spirito e la lingua non dovrebbero avere alcun freno. [p. 38 modifica]Di più quando il Senato lo eccitava ad intraprendere varj rigorosi esami sopra certe calunnie, e calunniatori: Noi non abbiamo, egli rispondeva, tanto tempo d’avanzo per incaricarci di ulteriori intrighi ed affari. Se voi aprite questa porta, di null’altro avrete da occuparvi, e sotto questo pretesto tutte le personali inimicizie vi animeranno alla vendetta. Tiberio si spiegò pure un giorno in Senato nel seguente modo contro un calunniatore: Se costui, diss’egli, ha diversamente parlato di me, io voglio dare il più esatto conto di quanto ho detto ed operato, e se nondimeno prosegue ad insultarmi colle sue calunnie, l’avrò del pari in orrore.

Dopo così chiare e ripetute dichiarazioni, che Tiberio certamente non avrebbe fatte se state non fossero sincere, Egli non si sarebbe almeno per lungo tempo arrischiato di punire come delitti di lesa Maestà liberi, o imprudenti discorsi e scritti, e molto meno le più innocenti parole ed azioni, se il Senato, e i primi membri de’ magistrati non ve l’avessero di bel nuovo provocato, e sospinto. Tosto che si osservò che l’animo di Tiberio incominciava a intorbidarsi, ed inasprirsi per le continue satire che uscivano rapporto al suo orgoglio, alla sua crudeltà, e ai di lui contrasti con la propria Madre  3, allora il Pretore Pompeo Macro, quasi che costui scandagliando attentamente l’umor del Principe avesse potuto allontanare da se medesimo qualche pericolo di morte, o riceverne una corona, dimandò se egli [p. 39 modifica]desiderava che si desse luogo a processi, e sentenze di lesa Maestà? A tal dimanda rispose Tiberio che si eseguisse la Legge. La Legge, dice Tacito, secondo la quale si puniscono i delitti di lesa Maestà, è molto antica, ed ebbe per luogo tempo lo stesso nome; ma una volta i delitti di lesa Maestà erano ben diversi da quelli, che sotto quest’aspetto venivano portati in giudizio sotto il governo di Tiberio. Nei tempi della Libertà non si consideravano come tali se non se i tradimenti delle truppe, le congiure, e le sedizioni della plebe, e finalmente ogni non virile, e indegna condotta nella guerra, e contro i nemici della patria, per cui la maestà del popolo Romano ne rimanesse oscurata, e avvilita25. Allora venivano accusati soltanto i fatti, e impuniti restavano i discorsi26. Al contrario sotto tutti gl’Imperatori, che porgevano ascolto agli spioni, i più gravi delitti non ricevevano per lo più alcuna pena, e [p. 40 modifica]gastigavansi viceversa in persone innocenti le parole, i sospiri, le lagrime, e persino le mancanze, o la disgrazia de’ proprj congiunti. Fa d’uopo, dice Tacito, di riferire i primi tentativi di quelle accuse, che in seguito produssero la sventura di tutto ciò che trovavasi di grande, nobile, e ricco, e che in line gettarono nella comun rovina anche quei medesimi, che stati n’eran gli autori27.

Coloro centra i quali soprattutto s’incominciò a porre in opera sì fatte accuse furono Falanio, e Rubio, ambidue Cavalieri Romani di mediocre fortuna e considerazione, attesoché il primo aveva tra i Sacerdoti, o adoratori di Augusto, che tenevansi in ogni casa non affatto oscura, ammesso il Comico Cassio, soggetto di cattiva fama per le sue non naturali dissolutezze, venduta unitamente ad alcuni orti la statua del suddetto Imperatore  4, e F altro erasi fatto lecito di giurare il falso pel nome, o per la Divinità dello stesso Principe. Il Senato non ebbe il coraggio di scacciare dalla sua presenza gl’iniqui delatori di tali soggetti colle loro insulse accuse, nè di atterrirli mediante la sua dignità. Tiberio per altro dichiarò ai capi del Senato stesso, che non fosse più aggiudicato a suo Padre  5 alcun divino onore, affinchè questo non divenisse per i cittadini una causa di rovina e di lutto; che in quanto al Comico Cassio, il [p. 41 modifica]medesimo non aveva che preso parte ai giuochi ordinati da Livia sua madre per celebrare la memoria di Augusto consorte di lei; che non facevasi alcun affronto alla Religione, e alla Divinità, vendendo unitamente alle case, e ai giardini la statua di Augusto con quelle degli altri Dei; e che finalmente lasciar dovevasi agli Dei stessi la cura di punire le offese, che loro vengon fatte cogli spergiuri.

I primi mal riusciti tentativi non spaventarono però i delatori poiché essi ben conoscevano che la loro condotta andava d’accordo coll’indole di Tiberio, e che presto o tardi potuto avrebbero a lor vantaggio trarre dalle di lui passioni una sorgente d’autorità e di ricchezza. In conseguenza poco dopo l’assoluzione dei due mentovati Cavalieri accusato venne Marcello, per l’addietro Pretore, e Comandante in Bitinia, dal proprio Questore Cepione Crispino, al quale serviva come di scorta e d’appoggio un certo Romano Ispone, per la ragione che egli pretendeva che il detto accusato fosse reo di lesa maestà. Quest’ultimo, dice Tacito28, scelse un tenor di vita, che ben presto la calamità dei tempi, e l’audacia degli uomini hanno reso pur troppo rinomato e comune; imperocché essendo egli povero ed ignoto, ma divorato da un’inquieta ambizione, procurò di rendersi potente ed illustre coll’insinuarsi per mezzo di [p. 42 modifica]segrete denunzie nell’animo e nel favor del Monarca. Quest’iniquo espediente ridusse di fatti in poco tempo quel miserabile pericoloso alle persone più ragguardevoli. Egli non curava l’odio di tutti nel mentre che andava acquistando influenza, e potere presso l’Imperatore; ed il suo esempio eccitò in breve molti altri ad inalzarsi in ugual modo dalla povertà, e dalla bassezza dei lor natali all’acquisto di ricchezze e di cariche luminose, fabbricando in primo luogo l’altrui, ed in seguito la loro propria disgrada e rovina. Ispone non altro rimproverar poteva Marcello, se non che d’essersi permesso di sparlar di Tiberio, di porre la propria statua più in alto che quelle degli Imperatori, e segnatamente di aver troncato il capo ad una statua di Augusto, e postovi invece uno di quelli di Tiberio. Sì fatte accuse inasprirono, ed irritarono Tiberio per modo che egli ad un tratto protestò di volersi apertamente spiegare su tal proposito, e secondo il già da lui prestato giuramento, emettere il suo voto per servire agli altri di norma. A tale espressione chiese Gneo Pisone in qual punto si fosse da Tiberio pensato di dare il suo voto, dicendo, che se esso lo dava il primo, egli avrebbe saputo come imitarlo; e se all’opposto lo avesse dato dopo allora ei temeva di allontanarsi imprudentemente dal di lui volere. Questa dimanda fece immediatamente rientrar Tiberio in stesso. Egli comprese di essersi troppo lasciato trasportar dalla collera, e permise che l’accusato fosse assoluto dal delitto di lesa maestà. [p. 43 modifica]Quest’esempio ancora è una riprova del potere, che la fermezza del Senato avuto avrebbe sullo spirito di Tiberio, se tutti i suoi membri uniti si fossero con una stretta alleanza, onde a guisa di scudo proteggere con la loro autorità l’innocenza ed il merito. Ma la maggior parte dei Senatori temevano di perdere colla giustizia, e colla costanza ciò che i falsi accusatori speravano di guadagnare col tradimento (imperocchè oltre alla grazia del Sovrano accordavasi loro la quarta parte delle sostanze dei condannati), e quanto essi andavano sempre più strappando alle persone di poco spirito. Il numero dei delatori, e degli accusatori crebbe di giorno in giorno29, cosicchè quasi tutte le case grandi rovesciate furono dalle inique frodi di questi mostri. L’accusa di lesa maestà divenne il compimento e la conclusione di qualunque accusa e mancanza30, e tali ne erano le conseguenze che niuno arrischiavasi di prender la difesa dei suoi più prossimi, ed innocenti congiunti31.

Quanto più importanti e sacrosanti divenivano i falsi accusatori32, tanto più cresceva [p. 44 modifica]l’impegno con cui i più nobili ed illustri Romani si dedicavano allo spionaggio; e quanto più costoro si avvilivano a far uso delle più studiate adulazioni, e dei più servili e bassi artifizj, onde formare con sollecitudine la propria fortuna colla rovina dei lor conoscenti, tanto più si dimostrava pronto il Senato ad opprimere gli accusati coi più orribili gastighi e supplizj. Fra gli accusatori di Silano v’erano alcuni soggetti delle prime famiglie, i quali coperti avevano i più insigni impieghi. Uno di essi per nome Mamerco Scauro, già Console, cercò di giustificare la sua odiosa condotta con addurre varj esempi dei più cospicui romani vissuti nei tempi della Repubblica33; ed un altro, il quale dava di se le più brillanti speranze, credè di aprirsi più presto l’adito a ricchezze, e ad onori mediante il perfido mestiere di delatore, che con tutte le buone arti; persuasione che, secondo la testimonianza di Tacito, sedusse eziandio molt’altre persone fornite di buon senso34. Cornelio Dolabella, non pago di [p. 45 modifica]accusar Silano, cercò altresì nel tempo istesso con un’ingegnosa ed accorta adulazione di cattivarsi sempre più la grazia ed il favor di Tiberio. Egli propose adunque che in avvenire non fosse più spedito nelle provincie in qualità di Comandante chiunque condotta aveva una vita licenziosa e immorale, e che lasciar si dovesse all’Imperatore la scelta dei Candidati. Tiberio per altro disapprovò colle più sode ragioni questa proposta, e raddolcì del pari la pena, di cui volevasi aggravar Silano35. In simil guisa egli confuse pure un giorno [p. 46 modifica]l’adulazione di un altro illustre Romano, vale a dire di Ateio Capitone, il quale davasi il vanto di essere un ardito e libero contradittore  6. Era stato accusato qual reo di lesa maestà un Cavalier Romano chiamato Ennio, per la ragione che il medesimo venduta aveva, o impiegata la statua del Principe come l’altro argento, e siccome Tiberio ricusò di porlo nel numero dei colpevoli, così Capitone si oppose col più ardente zelo ad un tal rifiuto. Non è permesso, diceva egli, di togliere ai Padri la facoltà di esaminare, e di decidere su tai materie. Quand’anche l’Imperatore sia così generoso da soffocare il proprio risentimento, tuttavolta egli non può lasciar correre un affronto, che vien fatto a tutto lo stato. Tiberio persistè nondimeno, nella sua risoluzione, e Capitone non ottenne per quella volta altro frutto della sua viltà che la meritata infamia36.

Nè la pubblica infamia, nè le mancate ricompense trattennero però i Delatori dal fare nuovi tentativi, onde prevalersi ed abusarsi dell’inquietudine, e mal umor di Tiberio. È in dubbio se maledir debbasi, o compiangere il genere umano, o piuttosto i Romani di quei tempi, allorchè si legge che un mostro di figlio abbigliato colla maggior eleganza, e con allegro [p. 47 modifica]aspetto ebbe il cuore alla presenza del Senato, e del Principe di imputare il più inverisimile alto tradimento all’innocente suo Padre, che coperto dal sucidume, e dallo squallor della carcere gli scuoteva in faccia le sue pesanti catene37. Lo snaturato figlio faceva le parti di testimone, e d’accusatore nel tempo stesso, atteso che un illustre Romano, da lui nominato qual complice di suo Padre, erasi da se stesso tolta la vita subito che intesa ne aveva la detta accusa, mentre il sospetto, il pericolo della morte, e l’eccidio non andavano quasi mai disgiunti. Come che però l’innocenza di costui, che si uccise di propria mano, e quello dell’ingiustamente incolpato Padre erano oltremodo chiare ed incontrastabili, così la compassione per questi, e lo sdegno contra l’infame accusatore ispirarono ad alcuni membri del Senato il coraggio di proporre, che le ricompense destinate agli accusatori non dovessero avere effetto allorquando l’accusato ucciso si fosse da se [p. 48 modifica]medesimo prima di riceverne la condanna. Tiberio però si oppose a questa proposizione, e disse esser meglio annullare le stesse leggi di quello che avvilirne i custodi38, credendo egli realmente che gli spioni fossero le vere guardie, e i protettori della sua vita poiché si figurava di trovarsi in continui pericoli. Ad onta dei frequenti ed atroci gastighi, che da Tiberio prescritti venivano, e fatti eseguire, egli non s’accorse almeno per lungo tempo dell’ingiusta e barbara sua condotta, poiché ogni accusa portavasi al Senato, e da questo pronunziavansene tutte le sentenze. Nulla gli riuscì quindi più nuovo ed inaspettato del racconto delle maldicenze, e detrazioni pronunziate contra di esso da un certo Vozieno Montano, che un vecchio guerriero accusator di costui ripeteva un giorno colla maggiore ingenuità alla sua presenza ed a quella dell’intero Senato, per quanto si cercasse d’interromperlo. Tiberio rimase in tal guisa stupefatto all’udire il male che erasi di lui detto, e segnatamente per la nuova già sparsasi rispetto alla crudeltà e barbarie, con cui egli [p. 49 modifica]trattati aveva alcuni individui innocentemente accusati, che ad un tratto esclamò di volersi giustificar sul momento ovvero nella continuazion del processo. I rimproveri pertanto, che il medesimo intese farsi quai punti di accuse nelle deposizioni dei Delatori, furono la causa primaria per cui egli si ritirò maggiormente dalle adunanze del Consiglio, e che il suo animo per se stesso torbido e infermo divenne sempre più misantropico e oscuro39.

L’eccesso della Romana corruttela, e segnatamente il favore, che il crescente Despotismo otteneva dai vizj dei Grandi appena rendonsi così palesi mediante l’orribile accusa del figlio contra il Padre, come pel seguente complotto, e tradimento di quattro membri di magistrato40. Dopo la morte di Germanico  7, la casa di questo giovine Principe venne abbandonata da tutti i suoi antichi partigiani, ed adoratori . Un solo rispettabile cavalier Romano per nome Tizio Sabino seguitò a dimostrare alla vedova, e ai figli del suo morto protettore il medesimo rispetto, ed attaccamento, che professato aveva a lui stesso nell'auge della sua maggior fortuna. Questa costanza rese altrettanto odioso Sabino a tutti i nemici della virtù, quanto essa gli procacciò amore, e lodi dai suoi seguaci. Quattro membri pertanto del Consiglio, che [p. 50 modifica]già coperto avevano la Pretura, destinarono di levarlo daL mondo, ad oggetto di acquistarsi col sacrifizio della sua vita la grazia di Sejano, ed il Consolato, giacche l’uno e l’altra ottener non potevansi se non col mezzo di grandi misfatti. Latinio Laziare, Porzio Catone, Petilio Rufo, e M Opsio ebbero dunque l’impudenza, e la barbarie di comunicarsi a vicenda l’orribil trama, che essi tender volevano a Sabino per trargli di bocca i più segreti sentimenti, e quindi conseguito che avessero il lor disegno accusarlo qual reo di lesa maestà. A norma di detta trama Laziare, il quale per l’innanzi non aveva che una lontana relazion con Sabino, procurò di contrarre la sua più stretta conoscenza e amicizia; cosa, che gli riuscì tanto più facile, quanto che egli intraprese con simulata schiettezza a lodare la costante fedeltà del medesimo verso la casa di Germanico, ad esaltare quest’illustre soggetto, e a far conoscere qualche compassione per Agrippina. Tali espressioni commossero a segno l’angustiato cuor di Sabino, che egli da prima abbandonossi alle lagrime, ed ai lamenti sopra il destino di Germanico e della sua Sposa, e poscia proruppe in amari rimproveri contro Sejano e Tiberio.

Quando Laziare indotto ebbe Sabino ad aprirgli confidenzialmente il suo cuore, e che questi incominciava già a fargli spontaneamente qualche visita, allora i congiurati tennero fra loro consiglio sul modo che usar dovevano, onde potere senz’esser visti, uditi, e neppur presi in [p. 51 modifica]sospetto intender tutto quello che Sabino detto avrebbe a Laziare. Dopo serie ponderazioni ed indagini scopersero finalmente questi in addietro Pretori e Candidati del Consolato, che il mezzo più sicuro per giungere al loro intento era quello di nascondersi nella soffitta di una remota stanza, ed accostare più che fosse possibile le loro orecchie alle più piccole fessure della medesima. Tosto che costoro trovati si furor d’accordo in questo vile, e detestabile spionaggio, allora Laziare andò in traccia di Sabino e lo introdusse con false dimostrazioni di amicizia nella sua più occolta stanza. Ivi esso ripetè tuttociò di cui entrambi eransi doluti insieme altre volte, e cercò di porre nella maggior agitazione il fedele adorator di Germanico col fargli il racconto di nuovi pericoli che sovrastar dovevano alla casa di quel morto Principe  8 . Sabino fece quanto erasi da lui atteso . Egli si sfogò più che mai in imprecazioni, e in lamenti contro gli infami persecutori dell’infelice Agrippina. Tanto il presente quanto i nascosti traditori non perdettero una parola di ciò che Sabino lasciossi scappar di bocca, ne resero subito inteso Tiberio, e gli indicarono inoltre quai prove del loro zelo servile gli obbrobriosi artifizj da essi impiegati per obbligare l’amico della casa di Germanico già a quel monarca sospetta di scuoprir loro il suo interno. L’animo di Tiberio da lungo tempo oppresso dalla diffidenza, e dal terrore s’infuriò ed inasprì a tal segno ai rapporti di questi iniqui delatori, cui egli dovuto avrebbe [p. 52 modifica]trattar con disprezzo, che scrivendo al Senato una lettera di lieto augurio per l’anno nuovo, non potè contenersi di accusar Sabino qual suo pericoloso nemico, e domandargliene in oscuri sensi vendetta. Un mezzo cenno fu più che bastante per indurre il Senato a dar ordine che quell’infelice accusato tratto fosse in prigione, ed ucciso inoltre nello stesso primo giorno dell’anno. Sabino alzò le grida, per quanto la turata bocca e le compresse fauci gliel permisero, sull’ingiustizia a cui veniva sottoposto; ma dove la sua voce e i suoi sguardi penetrarono, n’avvenne fuga e silenzio di morte . Le strade e le pubbliche piazze rimasero spopolate e deserte, e solo alcuni tornarono indietro, e fecersi veder di nuovo sul timore di aver dato colla loro fuga qualche indizio di spavento e sospetto. Non mai, dice Tacito, la città intera si trovò in una così generale angustia e terrore come dopo un tal fatto . Si temevano i colloqj e la compagnia dei più prossimi congiunti e dei più confidenti amici, si evitavano cognite ed incognite orecchie, ed esaminavansi attentamente pareti e soffitte, muti ed inanimati oggetti, prima d’intraprendere un discorso. Quei tempi, prosegue Tacito in un altro luogo, nulla di più pericoloso ed iniquo producevano quanto le segrete o pubbliche delazioni dei più cospicui membri del Senato. Tali traditori non facevano alcuna differenza fra conoscenti e stranieri, fra amici e nemici, fra ciò che era stato detto e fatto di recente o da molto tempo, a tavola, nei [p. 53 modifica]luoghi pubblici, oppur di nascosto. Molti divennero delatori per avarizia e per ambizione, altri per la lor propria salvezza, ed i più perchè il tradimento erasi reso un male quasi contagioso e comune41. I più iniqui delatori peraltro caddero anche sotto lo stesso Tiberio nel medesimo precipizio, in cui essi gettato avevano tanti infelici. Il tiranno proteggeva, è vero, gli stromenti della sua vendetta contro chiunque ardiva di offenderlo, ma allorquando aveva fatto acquisto di nuovi servi capaci di dare sfogo ai di lui progetti, allora aunajavasi degli antichi, e quindi soccomber facevagli al par degli altri42.

Quanto più Tiberio prestava orecchio alle calunnie ed accuse de’ suoi delatori, tanto più si aumentavano i suoi sospetti e comparivano agli occhi di lui delitti degni di morte le più innocenti, o insignificanti parole ed azioni. Quanto più egli puniva o credeva di dover punire, tanto più riceveva alimento e vigore la sua natural barbarie; ed a misura che questa andava crescendo ne accadeva, che non pochi indegni individui mossi o da uno spirito di vendetta o d’avarizia o d’ambizione, ovvero per timore, o ad oggetto di prevenire gli altri acquistavano maggior coraggio per vie più accusare, ed opprimere gli innocenti lor proprj concittadini. Ivi esisteva [p. 54 modifica]adunque, come pur troppo succede spesse volte, un tristo circolo di vizj e di delitti, rispetto ai quali poteva dirsi con sicurezza che gli uni traevan origine dagli altri, e che a vicenda agivano e reagivano tra loro stessi; ma è però incerto quali ne fossero o divenissero le prime o piuttosto le più efficaci cause motrici. I delatori non si restrinsero più alla sola città di Roma e all’Italia, ma inondarono altresì la Spagna la Grecia, ed altre provincie, accusando sempre i facoltosi, i quali altro delitto non avevano che quello delle loro ricchezze43. In Roma fino alla morte di Sejano i soli uomini, e soprattutto i più riguardevoli eransi trovati esposti alle accuse di lesa Maestà, ma in appresso anche le primarie Matrone involte rimasero nello stesso pericolo. Siccome però non potevano esse incontrar la traccia di essersi maneggiate per inalzarsi alla suprema dignità dello Stato, così imputavansi loro a delitto le proprie lagrime, conforme accadde a Vizia Dama Romana, la quale uccisa venne per aver pianto la morte di suo figlio44. I pretesti con cui accusavansi tali persone divennero, come il testè riferito esempio dimostra, sempre più e per tal modo insulsi, che se gli accusati non fossero stati posti a morte, riputar potevansi come semplici farse le accuse, e quai buffoni i Gindici che le [p. 55 modifica]ammettevano. Si puniva qual delitto di lesa Maestà il percuotere i proprj schiavi, e il rivestirsi in vicinanza di una statua di Augusto; il portare in un luogo indecente l’immagine di questo stesso Imperatore scolpita in monete, o in anelli, e il profanare col più piccol biasimo la sua memoria45. Un soggetto rispettabile perir dovette in una lontana colonia per aver lasciato correre che decretati gli fossero certi onori nel giorno medesimo, in cui questi erano stati conferiti ad Augusto46; ed un ricco Greco, a cui per giustizia dir non potevasi che le sue ricchezze formavano il suo maggior delitto, fu accusato qual reo di lesa Maestà sotto pretesto che Teofane di Mitilene, uno de’ suoi Antenati, era stato confidente di Pompeo, ed aveva ottenuto dai Greci divini onori47. Un Poeta, ed un Istorico finalmente perdettero la vita per la ragione che il primo erasi fatto lecito di biasimare senza alcun riguardo Agamennone, e l’altro nominato avea Bruto e Cassio come gli ultimi dei Romani48. [p. 56 modifica]

Tale era il carattere, e l’umor di Tiberio che si rendeva assolutamente impossibile che questo Monarca non rimanesse in fine, per così dire, sopraffatto, e vinto dall’ingegnosa malvagità degli accusatori, e dalla servile prontezza, con cui il Senato condannava a morte qualunque accusato, ed i Carnefici ne eseguivano le sentenze; e che il suo animo per se stesso torbido, inquieto e poco suscettibile di dolci, ed umani affetti non si esacerbasse ed inferocisse in modo, per le continue accuse e carnificine, non meno che pei sentimenti di vendetta, d’angustia e di furore, a cui esse dan luogo, che egli da ultimo traboccar dovette in una specie di sanguinano e crudel delirio, nel quale provava una troppo non natural compiacenza rispetto ai tormenti e supplizj degli altri uomini. Tiberio incominciò un giorno una lettera al Senato nei sedenti termini. La maledizione di tutti gli Dei mi perseguiti ancora più di quel che ha fatte fino al presente, se io so cosa o come scrivere vi debba, o non scrivere. Ciò dimostra, dice Tacito, fino a qual punto i vizj e i misfatti di questo Tiranno divennero i suoi continui carnefici; ed egualmente vera che bella è l’espressione di quel filosofo, che se si potessero spogliare, ed aprir le anime dei Tiranni, scuoprirebbonsi in esse orribili ferite e piaghe, [p. 57 modifica]mentre il loro spirito non resta meno percosso e lacerato dalle prave concupiscenze ed azioni, di quello che esser lo possa un corpo dai flagelli. Lo stesso Tiberio non veniva in tal modo difeso e protetto dalla propria solitudine, ed assoluta possanza, così che non fosse qualche volta costretto a confessare pubblicamente i rimorsi della sua coscienza e le proprie pene49.

Tiberio trovavasi senza dubbio in balìa ad un funesto assalto di sanguinario e crudel delirio, allorché diede ordine che tratti fossero a morte tutti coloro che erano stati accusali quai complici di Sejano, ed attendevano nelle carceri la lor condanna. A questa risoluzione del Tiranno, dice Tacito50, cadde una infinita moltitudine d’infelici d’ogni grado, sesso ed età. Nobili e plebei giacevano or qua or là sparsi, ed ora senza alcuna differenza di nascita, o di colpa ammucchiati confusamente l’un sull’altro. Non era permesso ad alcuno di vedere e di compiangere i proprj giustiziati amici e congiunti, e molto meno di toccarli e render loro gli ultimi onori. Ogni luogo era occupato da guardie crudeli, le quali dovevano far attenzione all’abbattuto volto di quelli che s’avanzavano, e nel tempo medesimo procurare che i cadaveri gettati nel Tevere, se mai fermati si fossero all’una od all’altra sponda, o vi [p. 58 modifica]venissero spinti, segnissero di nuovo la corrente dello stesso fiume. Angustia e terrore troncato avevano ogni società fra gli uomini, e la stessa compassione per gli infelici andava scemando a misura che la crudeltà del Monarca e i pericoli dei superstiti aumentavansi di giorno in giorno.

Tosto che Tiberio venne in cognizione finalmente del tradimento di Sejano  9, e molto più della terribil nuova che Druso suo figlio non era già morto come si credeva di malattia, o in conseguenza della propria intemperanza, ma per la perfidia di sua moglie e di Sejano suo adultero, s’inquietò e incrudelinne a tal segno che penose ricerche divennero la sua più cara occupazione, e gli spasimi dei tormenti e della morte degli accusati l'unico sollievo del proprio spirito viepiù sitibondo di vendetta e di sangue51. Non passava quasi alcun giorno, in cui non si vedesse qualche sanguinoso supplizio, e talvolta se ne contavano fin venti in un giorno solo; nè giustiziavansi unicamente i colpevoli o gli accusati per sospetto, ma ben anche le loro donne e i loro figli. In tal circostanza Tiberio peggiorò in una maniera non più intesa la condizione di quegli infelici che rimanevano nelle più tetre carceri; fece uso di varie sorte di tormenti del tutto nuovi; costrinse coloro che volevansi uccidere da lor medesimi a condurre [p. 59 modifica]una vita angustiata dagli strapazzi e dal continuo timor della morte e di atroci gastighi; non omesse di trovarsi presente ai più crudeli martirj; e cangiò il Senato in una turba di carnefici, e in un sanguinoso palco il luogo delle sue adunanze. Si strascinavano semivivi o moribondi d’innanzi al Senato non pochi accusati, i quali avevano già preso il veleno, od eransi mortalmente feriti, affinchè producessero le lor difese o ne riportassero una più barbara morte52. Dopo che Tiberio ebbe quasi del tutto spenta la famiglia di Germanico avrebbe altresì recisi gli ultimi germogli del tronco de’ Cesari, se stato non ne fosse sconsigliato dal suo proprio Astrologo. Tiberio andava dicendo che Priamo almeno era stato felice per aver avuta la sorte di sopravvivere a tutti i suoi; orribile espressione, che solo uscir poteva dalla bocca di un Tiranno caduto come lui in una misantropica ed incurabilefrenesia53.

Si possono, oltre a quelli già addotti, riferire molti altri esempi che l'animo di Tiberio negli ultimi anni del suo governo trovavasi del continuo in uno stato di non natural confusione e disordine, e che per conseguente egli cadeva bene spesso e di leggieri in preda ad un vero furore, in cui non era più arbitro di se [p. 60 modifica]medesimo, e perdeva eziandio ogni cognizione dell’esser suo. Infatti nel mentre che egli se ne stava per interi giorni indefessamente occupato intorno alla ricerca e all'esame dei colpevoli della morte di suo figlio, chiamar fece alla sua presenza uno de’ suoi commensali di Rodi, presso il quale erasi trattenuto lungo tempo, ed avevalo di più invitato a Roma ad oggetto di ricolmarlo di onori. La mente però di Tiberio era in quel punto così del tutto ripiena d’immagini e di progetti di tormenti, di morte e di vendetta, che ad un tratto ordinò che sul momento posto fosse alla tortura il predetto di lui commensale, e quindi accortosi d’essersi ingannato lo fece privar di vita affinchè non si divulgasse il suo sbaglio54. Ma molto più di tale funesto avvenimento recò sorpresa e terrore la condotta che egli tenne dopo la morte di Druso figlio di Germanico, fatto da lui perire in conseguenza di una crudel fame di nove giorni55. Estinto pertanto che fu questo povero Giovine, Tiberio procurò d’infamarne altresì la memoria coll' attribuirgli e supporgli i più odiosi disegni e delitti; e per dar maggior forza alle accuse prodotte da lui contro di esso, legger fece i Diarj che due Liberti Imperiali (uno de’ quali era Centurione) durante la prigionia di Druso compilati avevano rapporto alla condotta di questo [p. 61 modifica]povero Principe, ed a quella da lor tenuta verso il medesimo. In tali Diarj erasi notato colla massima esattezza quante volte coloro percosso avevano e con aspre parole maltrattato quello sfortunato giovine, come miserabile e stentata fu la sua morte, ed in quali imprecazioni proruppe contro Tiberio negli ultimi periodi del viver suo. I membri del Consiglio appena potevano prestar fede alle loro orecchie intendendo che il detenuto Druso avesse per tanti anni avuto ai suoi fianchi varie crudeli guardie, le quali preso si fossero l’incarico di segnarne le diverse mutazioni del volto, i lamenti e i più segreti sospiri, e che il suo nonno stato fosse capace non solo di fare, ed udir leggere siffatti rapporti ma di renderli altresì pubblicamente noti, e palesi. Ciò che poi cagionò sopra modo maraviglia e spavento ad ognuno fu il vedere che Tiberio, il quale altre volte con tanta premura nascondeva e sapeva così bene tener occulti i proprj misfatti, fosse giunto ad un tal grado di temerità e di barbarie da aver il coraggio di abbattere, per così dire, le mura della carcere di Druso e mostrare a dito in qual guisa quello sfortunato Giovine sotto le percosse del Centurione, e fra gli strapazzi degli schiavi, avesse indarno supplicato e pianto per ottenere il suo necessario alimento. La causa per cui Tiberio s’indusse a smentire del tutto il proprio carattere e a far leggere in Senato ciò che (conforme egli medesimo giustamente riflettendo avrebbe dovuto accorgersene) invece di giustificarlo lo [p. 62 modifica]accusava assai più della stessa morte di Druso, non fu già, secondo che fa creder Tacito, un premeditato orgoglio o una soverchia fiducia nell’assoluto suo potere, ma bensì un terribile, e funesto acciecamento derivato senza dubbio da una crudele, e particolar follia.

Quegli inumani, che tormentarono Druso durante la suo prigionia e nel punto della sua morte con una così fredda ed insultante crudeltà, sono a parer mio molto più detestabili e infami del tiranno medesimo, di cui essi volevano con tal mezzo acquistarsi la grazia; e simili istrumenti delle più orribili torture e specie di morte, che presentavansi a Tiberio in maggior copia di quella che egli ne avesse d’uopo56, [p. 63 modifica]potevansi unicamente trovar presso un popolo resosi già abbastanza meritevole di tal tiranno. Gli stessi uccisori di Druso però non oltraggiarono tanto l’umana natura quanto fece il carnefice dei figli di Sejano. Dopo che l'odio del popolo contro Sejano, la sua famiglia e suoi partigiani, erasi quasi del tutto spento o mitigato pei frequenti supplizj, che già avevano avuto luogo, allora il Consiglio decretò57 che anche gli altri teneri figli di costui tratti fossero a morte. Venne adunque portato in prigione il superstite suo bambino unitamente alla più giovine sua sorella. Quello era ben presago di quanto gli sovrastava, ma questa supponeva così poco la sua vicina morte, che andava frequentemente dimandando qual delitto avesse fatto e dove venisse così condotta? Indi soggiungeva che essa non sarebbe più tornata a commetterlo, e che di buon grado sofferto avrebbe la sferza qualora avesse realmente mancato. Comecché non erasi mai inteso che una tenera fanciulla perir dovesse per le mani di un manigoldo, così quell’iniquo mostro fece prima violenza all’acerba sua natura e quindi le recise il capo. I cadaveri di questi due innocenti pargoletti furono insepolti gettati là con quelli di tutti i pretesi rei di lesa maestà  10.

Tiberio ed i suoi carnefici erano altrettanto degni di abborrimento, quanto vili ed inetti [p. 64 modifica]comparivano i più illustri Romani, i quali a guisa di schiavi, di donne e di ragazzi por lasciavansi a morte senza alcun ostacolo, od uccidevansi invece da lor medesimi. Questa imbelle sofferenza e il trasporto al suicidio, che di giorno in giorno andava crescendo, furono al pari della crudeltà, che il tiranno ed i suoi ministri esercitavano, un tristo effetto della corruttela dei costumi, giacché l'esperienza di tutti i tempi c’insegna che i popoli deboli o resi tali si trovano tanto più facilmente sottoposti alle vessazioni e alla stessa morte, di quello che al pericolo di riceverla quanto più codardi o avviliti essi sono. Tiberio fece massacrare centinaja e migliaja dei più cospicui soggetti, senza che un sol Romano avesse il maschio e nobil coraggio di pensare a liberar la patria da un tiranno e vendicare il sangue innocentemente sparso de’ proprj amici e congiunti. Tacito sentiva bene quanto vili fossero e indegni i Romani, de’ quali sotto Tiberio e Nerone perir dovette in Roma senza difesa e vendicatori un numero di migliaia di gran lunga superiore a quello che involato ne avessero le più ostinate e sanguinose battaglie58. Gli Istorici anteriori a Tacito passato avevano sotto silenzio i pericoli e le pene di molti, temendo [p. 65 modifica]di annojare il Lettore col racconto di ciò che a loro stessi, ed ai proprj contemporanei era stato cagione di soverchia tristezza59. Tacito giunse a far acquisto di notizie più circostanziate, ed esatte di quelle già raccolte da’ suoi antecessori, e le narrò altresì con maggior precisione, ed accuratezza, essendo egli di parere che tramandar debbasi ai posteri la memoria delle geste, e della morte degli Uomini illustri siccome i loro cadaveri onorati vengono di magnifica, e particolar sepoltura60. Nel tempo stesso però egli si lagna in più luoghi della fastidiosa uniformità de’ suoi racconti, e dell’ingrata, e lagrimevol materia, di cui intraprese a tesser l’Istoria61. Quand’anche, dice quest’Istorico, io raccontassi straniere guerre, e la gloriosa morte di alcuni Cittadini incontrata per la patria, con una tale uguaglianza di avvenimenti, e di fatti, quale or si trova ne’ miei Annali, tuttavolta mi avrebbe già da lungo assalito la noia, e molto più dovrei aspettarmi che i miei Lettori disprezzar potessero gli ultimi benché lodevoli pur sempre tristi, e troppo consimili destini dei guerrieri. Quanto più non debbo io dunque temerlo al presente che la servile pazienza dei viventi, e dei moribondi, e tanto sangue sparso, e perduto in tempo di pace. [p. 66 modifica]stancano, e rattristan lo spirito! I più antichi Istorici trattenevano, e dilettavano i lor Lettori colla narrativa del sito, e delle proprietà di varj paesi, dei costumi di diversi popoli, dei vicendevoli avvenimenti di battaglie, e della gloriosa morte d’illustri capitani, e soldati. Io all’opposto null’altro narrar posso se non che crudeli comandi, continue accuse, proditorie amicizie, e la rovina di cotanti innocenti; e benché tali racconti non manchino di esser utili, pure è ben difficile che i medesimi arrecar possano sollievo, e compiacenza ad alcuno.

Se Tiberio rese malagevole ai susseguenti Tiranni il superarlo in crudeltà, egli ebbe però del continuo sopr’essi la distinta prerogativa di non aver malamente profuso alla Plebe e alle Legioni i tesori dello Stato e il succo vitale delle Provincie. È vero che egli a norma del perfido consiglio di Sejano riunì in un campo presso la Città le Coorti Pretoriane, che per l’innanzi se ne stavano sparse nella medesima, e fondò ad un tempo in queste stesse Guardie del corpo i più forti appoggi, e i più pericolosi nemici del Despotismo62; ma fu d’altronde estremamente rigoroso, ed economo, tanto verso le dette Pretoriane Coorti, quanto colle Legioni delle Provincie63. Tiberio, simile anche in ciò ad Augusto, non solo non concorse ad accrescere il [p. 67 modifica]numero della miserabil Plebe della Città, e i suoi dominanti vizj, vale a dire, la poltroneria, e il trasporto per gli spettacoli, ma procurò, per quanto fu in suo potere, di reprimergli al pari della corruttela dei Grandi. In conseguenza egli non diede mai alcun pubblico spettacolo, di rado intervenne a quelli, che dati furono dai membri de’ Magistrati, diminuì il salario dei Comici, e il numero delle coppie dei combattenti nei giuochi dei Gladiatori64, e pose un freno alla sfacciataggine, e alla licenza dei primi, come agli ammutinamenti della Plebe con leggi, e pene le più rigorose65. Tiberio peraltro potè così poco come Augusto ridonare al Popol Romano il suo nobile, e puro sangue, e le sue antiche virtù. La viltà della Plebe, e i vizj dei Grandi andarono piuttosto aumentandosi sotto ogni susseguente governo, e tanto l’una quanto [p. 68 modifica]gli altri stabilirono sempre più il Despotismo da loro infallibilmente prodotto66.

Note dell'autore

  1. Tac. An. I. c. 1. Qui (Augustus) cuncta discordiis civilibus fessa, nomine Principis sub imperium accepit. c. 2. Ne Julianis quidem partibus, nisi Caesar, dux reliquus: posito Triumviri nomine, Consulem se ferens, et ad tuendam plebem Tribunicio jure contentum; ubi militem donis, populum annona, ounctos dulcedine otii pellexit; insurgere paullatim, munia senatus, magistratuum, legem in se trahere, nullo adversante, cum ferocissimi per acies, aut proscriptione occidissent: ceteri nobilium, quanto quis servitio promptior, opibus, et honoribus extollerentur: ac novis ex rebus aucti, tuta et praesentia, quam vetera, et periculosa mallent. Neque provinciae illum rerum statum abnuebant, suspecto senatus, populique imperio ob certamina potentiom, et avaritiam magistratuum: invalido legum auxilio, quue vi, ambito, postremo pecunia turbabantur. c. 3 . juniores post Actiacam victoriam, etiam senes plerique inter bella civium nati: quotusquisque reliquus, qui rempublicam vidisset? c. 4. Omnes, exnta aequalitate, jussa Principis aspectare. = Pauci bona libertatis incassum dìsserere; plures bellum pavescere; alii cupere; pars multo maxima imminentes dominos variis rumoribus differebant. c. 7. At Romae ruere in servitium Consules, Patres, eques: quanto quis inlustrior, tanto magis falsi ac festinantes, vultuque composito, ne laeti excessu Principis, neu tristiores primoedio, laorymas, gaudium, questus, adulatione miscebant =. Veggasi ancora il c. 15.
  2. Svet. in Jul. Caes. c. LXXVII. Nec minoris impotentiae voces propalam edebat, ut T. Ampius scribit: Nibil essu Rempubliram adpellationem modo, sinecorpore ao specie = E in Augusto al c.28 leggesi il seguente squarcio di un editto di questo Imperatore = Ita mihi salvam ac sospitem Rempublicam sistere in sua sede liceat, atque ejus rei fructum percipere, quam peto, ut optimi status auctor dicar: et moriens, ut feram mecum spem, mansura in vestigio suo fundamenta Reipublicae, quae jecero.
  3. Svet. in Aug. c. 29.
  4. ib. c. 32.
  5. Svet. in Aug. c. 57.
  6. Svet. in Aug. c. 58.
  7. Syllam nescisse litteras qui Diotaturam deposuerit. Svet. c. 77.
  8. ib. c. 79.
  9. Svet. c. 76. Sed ampliora etiam humano fastigio decerni sibi passusest: sedem auream in Curia, et pro Tribunali, thensam et ferculum Circensi pompa, templa, aras, simulacra juxta Deos, pulvinar, flaminem, lupercos. = Vi furono persino alcuni vili, i quali proposero che fosse concesso al Dittator Cesare di considerare le Donne di tutti i Romani come sue proprie.
  10. Svet. in vita Aug. c. 52. 53.
  11. Svet. in Aug. c. 53. Domini adpellationem, ut maledictum et opprobrium semper exhorruit. Cum spectante eo ludos pronuntiatum esset in mimo: o dominum aequum et bonum! et universi quasi de ipso dictum exultantes comprobassent: et statim manu vultuque indecoras adulationes repressit, et insequenti die gravissimo corripuit edicto, dominumque se posthac adpellari, ne a liberis quidem aut nepotibus suis, vel serio vel joco, passus est. — e nell’antecedente capitolo leggesi quanto segue: Dictaturam magna vi offerente populo, genu nixus, dejecta ab humeris toga, nudo pectore deprecatus est.
  12. Svet. in Ang. c. 53.
  13. Augusto dovette inclusive con varj artifici e gastighi costringere i priimarj Romani a portarsi in Senato. Dio Cass. L. 55. c. 3.
  14. Svet. in Aug. c. 28. Sed reputans, et se privatum non sine pcriculo fore, et illam (Rempublicam) plurium arbitrio temere committi, in retinenda perseveravit: dubium, eventu meliore an voluntate = I discorsi e le ragioni che Agrippa, e Mecenate esposero ad Augusto nella circostanza, in cui furono da Lui consultati rapporto al conservare, o deporre il supremo potere, trovansi in Dione Cassio sul principio del libro 52, conforme ha luogo altresì presso il medesimo Autore al libro 53, c. 3. e seguenti quello che lo stesso Augusto deve aver detto in Senato su tal proposito. Il contenuto di siffatti discorsi è tutt’al più verosimile, ma il loro adornamento appartiene ad un Greco Retore. Quasi col medesimo spirito giudica qualche volta Dione dell’idee di Augusto (lib. 53, c. 12), mentre gli rende altrove la meritata giustizia, Lib. 53, c. 32 e specialmente lib. 56, c. 45.
  15. Svet. in vita Caes. c. 86.
  16. Svet. in Tib. c. 26. e segg. Veggasi ancora Dione Cassio al lib. 57. c. 7. 8.
  17. Ib.
  18. Svet. in Tib. c. 33.
  19. Annal. III. 65.
  20. Annal. IV. 74.
  21. Satis constabat auctam ei arrogantiam foedum illud in propatulo servitium spectanti. I c.
  22. Tacito al cap. 17 dell’Annal. IV, e al cap. 2 dell’Annal. VI racconta varj notabili, ed anche ridicoli esempj di tali sciocche adulazioni, che offendevan Tiberio.
  23. Scipiones haiec, et Silani, et Cassij iisdem ferme aut pauliim immutatis verbis adseveratione multa censebant; cum repente Togonius Gallus, dum ignobilitatem suam magnis nominibus inserit per deridiculum auditor Tac. An. VI. c. 1.
  24. Vedi Svetonio al cap. 29. della di lui vita.
  25. Annal. I. 72.
  26. Ib. Facta arguebantur, dicta impunia erant = Ciò non è per altro del tutto vero. Ad una nobile Claudia fu imputato a delitto di lesa maestà l'aver detto, per l’impazienza cagionatale dal ritardo che provava il suo cocchio a motivo dell’eccessivo concorso della plebe, che ella desiderava che tornasse a vivere il di lei fratello, e perdesse una battaglia navale contro i Cartaginesi, affinché venisse a diminuirsi la folla della gente dentro la città. Svet. in Tib. c. 2. e Val. Massim. lib. VIII. c. 1.
  27. An. I. c. 75. 74.
  28. Annal. I. 74.
  29. Tac. Annal. III. 25.
  30. Ib. III. 28. Addito majostatis crimine quod tum omnium accusationum complementum erat.
  31. Et ne quis necessariorum juvaret periclitantem, majestatis crimina subdebantur vinculum, et necessitas silendi. III. 67.
  32. Nam ut quis districtior accusator velut sacrosanctus erat. Annal. IV. 36.
  33. Annal. III. 66. Mamercus antiqua exempla jaciens L. Cottam u Scipione Africano, Ser. Galbam a. Citone Censorio, P. Rutilium a M. Scauro accusatos. Videlicet Scipio et Calo talia ulciscebantur, aut ille Scaurus, quem proavum suum, opprobrium majorum Mamercus infami opera dehonestabat.
  34. Brutidium artibus honestis copiosum, et si rectum iter pergeret, ad clarissima quaeque iturum, festinatio exstimulabat, dum aequales, deinde superiores, postremo suasmet ipse spes anteire parat. Quod multos etiam bonos pessumdedit, qui spretis, quae tarda cum securitate, praematura vel cum exitio properant. Ibid.
  35. Ib. c. 69. Neque posse (disse Tiberio fral’altre cose) principem sua scientia cuncta complecti, neque expedire ut ambitione aliena trahatur. Ideo leges in facta constitui, quia futura in incerto sint. = Satis onerum principibus, satis etiam potentiae; minui jura, quoties gliscat potestas; nec utendum imperio ubi legibus agi possit. Quanto rarior apud Tiberium popularitas tanto laetioribus animis accepta. Atquo ille prudens moderandi, si propria ira non impelleretur, addidit, isulam Gyarum immitem, et sine cultu hominum esse. = Qui ha luogo uno di quei casi, in cui potrebbesi accusar Tacito di non esser stato sempre uguale nei suoi giudizj. Si faccia il confronto dell’ultime parole di questo passo con quanto si legge nei due precedenti Capitoli.
  36. C. 70. Capito insignitior infamia fuit, quod humani divinique juris sciens, egregium publicum et bonas domi artes dehonestavisset.
  37. An. IV. c. 28. Iisdem Consulibus miseriarum ac saevitiae exemplum atrox, reus pater, accusator filius, nomea utrique Vibius Serenus, in Senatum inducti sunt. Ab exilio retractus, inluvieque ao squalore obsitus, et tum catena vinctus, perorante filio, pater. Paratus adolescens multis munditiis, alaori vultu. = At contra reus, nihil infracto animo, obversus in fìlium, quatere vincula, vocare ultores Deos, ut sibi quidem redderent exilium, ubi procul tali more ageret; filium autem quandoque supplicia sequerentur.
  38. Ib. c. 30. Ibaturque in eam sententiam, ni durius contraque morem suum palam pro accusatoribus Caesar, inritas leges, Rempublicam in praecipiti conquestus esset. Subverterent potius jura quam custodes eorum amoverent. Sic delatores genus hominum publico exitio repertum, et poenis quidem nunquam satis coercitum per praemia eliciebatur.
  39. Ib. IV. 42.
  40. Annal. IV. c. 68. 70.
  41. Annal. VI. 7.
  42. Annal. IV. 71.
  43. Annal. VI. 18. 19. Svet. c. 49
  44. Ib. VI. 10.
  45. Svet. c. 58.
  46. Ib.
  47. Tac. Annal. VI. 18.
  48. Svet. c. 61. Tac. IV. 34. Merita di esser letta con attenzione presso Tacito la difesa di Cremuzio Cordo, il quale aveva nominati Bruto e Cassio come gli ultimi dei Romani, imperocché dessa fa conoscere in un modo istruttivo la diversa maniera di pensare e di regnare di Giulio Cesare, di Augusto e di Tiberio. Rispetto alle mal fondate accuse veggasi ancora Senec. de Benef. III. 26.
  49. Tac. VI. 6.
  50. Annal. VI 19:
  51. Svet. in ips. vit. c. 61. 62.
  52. Svet. ib. e Tac. VI 18.
  53. Svet. c. 62.
  54. Suet. in Tib. c. 62.
  55. Tac. Annal. VI 23.
  56. Si può rilevare dal seguente fatto qual fosse lo spirito dei carnefici di Tiberio. Negli ultimi tempi del governo di quest’Imperatore, il Senato emanò un ordine, il quale portava che non si dovesse dar esecuzione ad alcuna condanna di morte, se non dopo dieci giorni dacchè la medesima era stata pronunziata. Il giorno appunto, nel quale morì Tiberio, era uno di quelli, in cui dovevan esser giustiziati molti accusati. Questi infelici imploravano in lor soccorso il Cielo e la terra. I soli carnefici non fecero attenzione alle loro suppliche, ed ai lor lamenti, e per levarsi da qualunque imbroglio troncaron ad essi il capo senza aspettare la decisione del nuovo Sovrano. Svet. in Tib. cap.75. Dione Cassio al contrario riferisce che tutti i carcerati ottennero la richiesta grazia. Lib. 58. c. 27. pag. 900. Ediz. Reimar.
  57. Annal. V 9.
  58. Nequo aliam defensionem ab iis quibus ista noscentur exegerim quam ne oderim tam segn iter pereuntes. Annal. XVI l6.
  59. Annal. VI 7.
  60. ib. XVI 16.
  61. ib. IV 33 XVI 16.
  62. Annal. IV 2. Svet. c. 37.
  63. Svet. c. 48.
  64. Svet. c. 34, 47.
  65. Ibid. c. 37. Annal. I. 77, IV. 14. La rarità, con cui allora si dava in Roma qualsivoglia spettacolo, fu cagione che un Liberto non lungi da quella Città intraprese di darne uno assai gradito ai Romani di quei tempi, vale a dire un combattimento di Gladiatori, ed a tal oggetto egli costruì un immenso Anfiteatro di legno. Quest’Anfiteatro per altro non essendo abbastanza forte n’accadde che esso andò in rovina nel mentre che era pieno di spettatori; motivo, per cui 50000 persone vi perdettero la vita, o almeno ne rimasero mutilate, o malconcie. IV. 62.
  66. Augusto (Svet. in Aug. c. 4l, 42) aveva già cercato d’impedire l’ulteriore degenerazione dei Romani, che risultava dal congiungersi, che essi facevano con sangue estero, e schiavo, e si diede pure il pensiero di togliere le copiose distribuzioni di danaro, e di viveri, le quali impoverivano le Provincie, accrescevano la poltronerìa della Plebe, e fomentavano il pericoloso concorso della gente di Campagna verso la Dominante; ma poi s’accorse bene che era impossibile di potere in questa parte mandare ad effetto i di lui desiderj; lo che in seguito accadde pure a Tiberio per rispetto alla restrizione del lusso. Tac. Annal. III. 54. 55.

Note del traduttore

  1. [p. 277 modifica]Vedasi l’altra bell’Opera del Signor Meiners, già tradotta in Francese, la quale tratta specialmente della decadenza de’ costumi tra i Romani negli ultimi tempi della lor Repubblica.
  2. [p. 277 modifica]Vespasiano, Trajano, Adriano, e i due Antonini furono quelli, che primieramente, e in particolar modo tentarono ogni mezzo per restituire, siccome fecero, allo Stato Romano la sua antica gloria, e stabilità. In seguito vennero essi su ciò molto bene imitati da alcuni altri Imperatori, tra i quali si distinsero soprattutto Settimio Severo, Probo, Caro, e Aureliano, e qualch’altro, che per brevità tralascio. Istoria Augusta.
  3. [p. 277 modifica]Le differenze insorte tra Tiberio, e sua Madre Livia ebbero da prima origine dal giusto odio, che Ella portava a Sejano iniquo di Lui ministro, e favorito, e in secondo luogo perchè il detto Imperatore [p. 278 modifica]non la voleva per compagna, e sua eguale nel Trono dalla medesima procuratogli. Suet. in Tib. Tac. Annal. 4.
  4. [p. 278 modifica]Mi è sembrato per maggior chiarezza di ciò che immediatamente si legge in quest’Opera di dover aggiungere nella mia Traduzione il secondo punto dell’accusa contro Falanio, riferito da Tacito nell’annale primo, ed omesso dal Sig. Meiners, ovvero dal suo Edittore.
  5. [p. 278 modifica]Tiberio era della nobile Famiglia Claudia, una di quelle, che dal paese dei Sabini vennero a stabilirsi in Roma col Re Tazio. Esso non apparteneva nè a Cesare, nè ad Augusto se non in quanto, che quest’ultimo dopo aver presa in Moglie la di Lui Madre Livia lo adottò per figliuolo, e gli fece in seguito sposare la sua propria figlia Giulia. Suet. in Aug. e in Tib.
  6. [p. 278 modifica]I Contradittori erano una specie di Procuratori, o Avvocati fiscali, i quali sotto pretesto di proteggere il Trono, o lo Stato peroravano in favore di tutte le accuse di lesa Maestà, portate in giudizio contro i più facoltosi, ed illustri Cittadini, ad oggetto specialmente di acquistare una parte delle loro sostanze. Cujaccio.
  7. [p. 278 modifica]L’ottimo, e valoroso Germanico nipote, e figlio adottivo di Tiberio finì di vivere di soli 33. anni nella Città d’Antiochia in conseguenza di un lento veleno, che il medesimo Imperatore gli fece dare per [p. 279 modifica]mezzo di Lucio Pisone. Si pretende, che il vero motivo, onde s’indusse Tiberio ad ordinare la morte di quell’insigne Capitano fosse la maligna invidia ch’esso concepito aveva delle sue famose vittorie, e dell’alta stima, e benevolenza, con cui lo veneravano i suoi soldati, ed il Popolo. Suet. in Tib. et in Calig. Tac. Annal. 1. 2.
  8. [p. 279 modifica]Il racconto, che Laziare fece a Sabino circa ai pericoli, dai quali era tuttor minacciata l’infelice famiglia del defonto Germanico, non mancava alcerto di fondamento poichè oltre a Druso, la cui deplorabil fine è così bene descritta dal Sig. Meiners, Tiberio volle che perissero ancora la virtuosa Agrippina madre del medesimo, e il terzo di lei figlio chiamato Nerone. ibid.
  9. [p. 279 modifica]Al principio dell’Annale IV. di Tacito trovasi un’esatta, e precisa descrizione dell’origine, e dei perfidi costumi di Sejano, non che delle mire che costui ebbe di rendersi assoluto padrone dell’Impero, seducendo in primo luogo ai di lui desiderj Livia moglie di Druso figlio di Tiberio, ed impegnandola in seguito ad uccidere per mezzo di un potente veleno lo stesso suo Consorte. Rincresce assaissimo agli Eruditi che l’Annale V. del predetto Istorico manchi di un triennio, ove fra le altre cose accadde che Tiberio scoperta in fine l’orribil trama di Sejano le fece privar di vita con molti de’ suoi complici, congiunti, [p. 280 modifica]ed amici conforme rilevasi in parte da varj altri Autori Latini, e Greci.
  10. [p. 280 modifica]Alcuni Scrittori dei tempi di Tiberio, dice Tacito, ( Annal. V. c. 6.) asseriscono che in allora i cadaveri dei così detti rei di lesa maestà venivano gettati nelle scale Gemonie, pozzo di Roma a cui forse diede il nome colui, che lo fece, o vi fu gettato il primo.