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lazione di un altro illustre Romano, vale a dire di Ateio Capitone, il quale davasi il vanto di essere un ardito e libero contradittore6. Era stato accusato qual reo di lesa maestà un Cavalier Romano chiamato Ennio, per la ragione che il medesimo venduta aveva, o impiegata la statua del Principe come l’altro argento, e siccome Tiberio ricusò di porlo nel numero dei colpevoli, così Capitone si oppose col più ardente zelo ad un tal rifiuto. Non è permesso, diceva egli, di togliere ai Padri la facoltà di esaminare, e di decidere su tai materie. Quand’anche l’Imperatore sia così generoso da soffocare il proprio risentimento, tuttavolta egli non può lasciar correre un affronto, che vien fatto a tutto lo stato. Tiberio persistè nondimeno, nella sua risoluzione, e Capitone non ottenne per quella volta altro frutto della sua viltà che la meritata infamia1.

Nè la pubblica infamia, nè le mancate ricompense trattennero però i Delatori dal fare nuovi tentativi, onde prevalersi ed abusarsi dell’inquietudine, e mal umor di Tiberio. È in dubbio se maledir debbasi, o compiangere il genere umano, o piuttosto i Romani di quei tempi, allorchè si legge che un mostro di figlio abbigliato colla maggior eleganza, e con allegro

  1. C. 70. Capito insignitior infamia fuit, quod humani divinique juris sciens, egregium publicum et bonas domi artes dehonestavisset.