Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro IV/Capo II

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CAPO SECONDO.

Sollevazioni de’ Borboniani nelle province. Geste del re di Sicilia e degl’Inglesi contro la repubblica. Geste in difesa di lei.

XI. Cessato lo sbalordimento del quale i Borboniani furono presi per la guerra infelice, la patita conquista ed il nuovo stato, e non repressi i primi tumulti nelle province da’ battaglioni francesi sempre annunciati, non mai visti, sursero le scontentezze discorse nel precedente capo; e in varii punti dello stato, ribellioni e armamenti. Stavano le moltitudini contro gli ordini nuovi; per la [p. 225 modifica]opposta parte, giovani scarsi di numero e di credito; facevano i prudenti, non per odio alla repubblica o per amore al passato, ma perchè prevedevano i mali e i pericoli del futuro. Nelle città corse dal nemico s’imputavano i danni sofferti, meno alla guerra e alle ragioni della conquista, che alla indisciplina delle milizie alla intemperanza de’ capi; e le città non ancora tocche temevano gli stessi Francesi e gli stessi danni; era universale lo scontento. I Dalmati, gli armigeri baronali, le squadre delle udienze, e que’ tanti che vivevano di stipendii d’armi, uniti a torme, andando in scorreria con motivo o pretesto di fede all’antico re, arricchivano di bottino e di spogli.

Negli Abruzzi dove le armi borboniane rimasero per poco tempo sospese, non mai deposte, si ribrandirono più fieramente che innanzi sotto i capi Pronio e Rodio. Pronio ne’ suoi primi anni fu cherico; ma spinto da malo ingegno prese patente di armigero nelle squadre baronali del marchese del Vasto; quindi, reo di omicidii, andò condannato alle galere, dalle quali per forza ed industria fuggitivo, passò a correre le campagne. Fattosi partigiano de’ Borboni, combattè fortunato contro Duhesme; e scelto capo dagli uguali, acquistò fama, sicurtà e riechezze. Rodio, di civili natali, studioso di lettere latine, dottore in legge, scaltro, ambizioso, previde le sventure della repubblica, e parteggiò per i contrarii. Fu accolto dalle turbe; e avvegnachè primo esempio d’uomo gentile non macchiato di colpe che abbracciasse quelle parti sino allora seguite da’ peggiori, lo gridarono capo. La città Teramo, ed alcune altre terre tornarono alla obbedienza dell’antico re; i Francesi guardavano i forti di Pescara, Aquila, Civitella, e correvano intorno intorno a predar viveri, a rialzare gli alberi abbattuti della libertà, ad animare i seguaci loro, a punire i contrarii. Gli altri paesi delle tre province, divisi per genio, e seguitando l’ingegno vario de’ più potenti, stavano per la signoria o per la libertà; e poichè gli odii e le contese di municipio nemicavano ab antico i popoli confinanti, dipendeva spesso la scelta di governo dalla scelta contraria del vicino; maggiore incitamento a sdegnarsi, a combattere, alle rovine, e stragi.

Nella Terra di Lavoro molti paesi del confine stavano sotto l’impero di Michele Pezza, nato in Itri di bassi parenti, omicida e ladro; cosicchè da due anni per bando del governo pericolava sotto taglia il suo capo; ma per continue venture o scaltrezze, vincitore ad ogni cimento, scampava i pericoli; e la nostra plebe, però che dice scaltrissimi ed invincibili il diavolo e i frati, lo chiamò fra Diavolo; ed egli, per argomento di prodezza e fortuna, ritenne il soprannome nelle guerre civili e sino a morte. Audace, valoroso, spregiatore d’ogni virtù, fattosi capo di numerosa torma, tenendosi agli agguati [p. 226 modifica]fra le rupi e le boscaglie del suo paese, e vedendo da lungi, non visto, disponeva gli assalti contro a’ soldati francesi che andavano soli o a piccole partite, e spietatamente gli uccideva. Correndo da Portella al Garigliano trucidava i corrieri e qualunque gli desse ombra di recar lettere o ambasciate; rompeva il cammino tra Napoli e Roma.

Nella stessa provincia ma in altra contrada, quella di Sora, guerreggiava capo di molti Gaetano Mammone mulinaro; la ferità del quale tanto si scosta dalla natura degli uomini e si avvicina alle belve crudelissime, che io con animo compreso di orrore dirò di lui come di mostro terribile. Ingordo di sangue umano, lo bevea per diletto; beveva il proprio sangue ne’ salassi suoi; negli altrui, lo chiedeva e tracannava: gradiva, desinando, avere su la mensa un capo umano, di fresco reciso e sanguinoso; sorbiva sangue o liquori in teschio d’uomo e gli era diletto a mutarlo. Immanità che non avrei narrate nè credute se il pubblico grido, che spesso amplifica i fatti maravigliosi, non fosse confermato da Vincenzo Coco, uomo ed autore pregiatissimo, consigliere di stato, magistrato integerrimo, che da istorico narra e da testimonio accerta le riferite crudeltà. Mammone in quelle guerre civili spense quattrocento almeno Francesi o Napoletani, e tutti di sua mano, facendo trarre dal carcere i prigionieri per ucciderli a gioja del convito, stando a mensa coi maggiori della sua torma. Eppure a tal uomo, o a questa belva, il re Ferdinando e la regina Carolina scrivevano: «Mio generale e mio amico.»

Prosieguo a descrivere lo stato interno de’ popoli. Torma numerosa guerreggiava nella provincia di Salerno. Una stretta nominata di Campestrino, difficile, intrigata, era guernita di borboniani, che la cedevano solamente alle poderose colonne di milizia, e combattendo. Di là correvano le terre del Cilento, i monti di Lagonegro, e gli stessi dintorni della città capo della provincia; perciò il cammino delle Calabrie ingomberato da’ borboniani era chiuso ad ogni altro. La città di Capaccio e le terre di Sicignano, Castelluccio, Polla, Sala, inalzata bandiera regia, minacciavano i paesi di repubblica. Il vescovo Torrusio, dopo ribellata la città di Capaccio, combatteva con armi spirituali e guerriere; mentre nelle altre terre della stessa provincia dirigeva le armi per il re Gherardo Curci soprannomato Sciarpa; già capo degli armigeri della udienza, congedato da quell’uffizio, ributtato quando egli chiese di servir la repubblica, e ingiuriato del nome di satellite della tirannide.

XII. Guerra più sanguinosa travagliava la Basilicata, combattendo quei popoli ciecamente; che l’essere governati a repubblica o a signoria non era sentimento ma pretesto a sfogare odii più antichi: vedevi perciò d’ambe le parti molte truppe, molti corpi, [p. 227 modifica]combattimenti giornalieri, stragi continue. Nelle quali domestiche sventure due casi avvennero degni di ricordanza. La piccola città di Picerno, che avea festeggiato con sincera allegrezza il mutato politico reggimento, assalita da’ borboniani sbarrò le porte; e ajutandosi del luogo, allontanò più volte gli assalitori. Sino a che, declinando le sorti universali della repubblica, torme più numerose andarono all’assedio; e fu agli abitanti necessità combattere dalle mura. Finita dopo certo tempo la munizione di piombo e consultato del rimedio in popolare parlamento, fu stabilito che si fondessero le canne d’organo delle chiese, poscia i piombi delle finestre, in ultimo gli utensili domestici e gl’istrumenti di farmacia; con i quali compensi abbondò il piombo come abbondava la polvere. I sacerdoti eccitavano alla guerra con devote preghiere nelle chiese e nelle piazze; i troppo vecchi, i troppo giovani pugnavano quanto valeva debilità del proprio stato; le donne prendevano cura pietosa de’ feriti; e parecchie, vestite come uomini, combattevano a fianco de’ mariti o fratelli; ingannando il nemico meno dalle mutate vesti che per valore. Tanta virtù ebbe mercede, avvegnachè la città non cadde prima che non cadessero la provincia e lo stato.

Presso a Picerno, in Potenza, città grande, oggi capo della provincia, era vescovo Francesco Serao, lo stesso rammentalo con debita lode nel secondo libro di queste istorie: il quale già travagliato per giansenista dalla santa sede, sostenuto in quel tempo dal re, ma poi, per mutata politica di governo, venutogli a tedio, era tenuto settario di repubblica e de’ Francesi. Cosicchè ai primi tumulti assalito nella casa vescovile, trovato in atto di preghiera innanzi alla croce, fu trascinato nella strada, ucciso, troncato del capo, e ’l capo in punta di lancia portato in giro per la città. Furono i manigoldi pochi di numero, diciassette, nessun plebeo. Un cittadino di Potenza, Niccolò Addone, ricco, fiero per natura, devoto della cristiana religione, amante di repubblica, ma occulto perchè temeva nelle dubbietà di quello stato arrischiare le sue ricchezze, quando vide lo spettacolo atroce, giurò vendicarlo: e nol potendo apertamente, usò d’inganni. Conciossiachè fingendosi borboniano, allegro della morte del vescovo, chiamò a convito gli uccisori, e, dopo lauta mensa e bevere trasmodato, tutti gli spense; nè già di veleno ma di ferro, e più col braccio proprio che de’ suoi fedeli, che pure a mensa o nascosti nella casa attendevano il comando della strage. Orrida scena, che spiacque a’ partigiani medesimi di repubblica; e l’Addone, ciò visto, fuggì di Potenza, e tenutosi lungo tempo ne’ boschi, si riparò in Francia. Anni appresso, perdonato di que’ misfatti per decreti del nuovo re Giuseppe Bonaparte, tornò in regno; e l’età nostra lo vide accusatore calunnioso di delitti di maestà, a [p. 228 modifica]pro de’ Borboni, e a danno di onesti cittadini. Nè fu punito; e vive ancora tra ricchezze avite, o mal tolte.

XII. Sommovevano le Puglie contro la repubblica quattro Corsi, de Cesare, Boccheciampe, Corbara e Colonna; de’ quali de Cesare era in patria servitor di livrea, Boccheciampe antico soldato di artiglieria e disertore, Colonna e Corbara vagabondi e viventi di male arti: tutti e quattro fuggitivi di Corsica per delitti; e da Napoli, per timor de Francesi, cercavano imbarco nei porti della Puglia per Sicilia o Corfù. E giunti a Montejasi, alloggiando per ventura nella casa del massaro Girunda, ingegnoso fabbro di brighe, concertarono sollevare i popoli a pro de’ Borboni, figurando Corbara il principe Francesco erede al trono; Colonna, il contestabile, suo cavaliero; Boccheciampe il fratello del re di Spagna; e de Cesare, il duca di Sassonia. Girunda, in quelle trame, sarebbe precursore, testimonio e tromba delle fallacie. Il vero principe Francesco era stato in Puglia, come dicemmo nel terzo libro. poco tempo innanzi; ma Girunda confidò nella credulità degli stolti, e ne’ guadagni che gli astuti trarrebbero da quelle scene. Concertate nella notte le parti, va Girunda, prima che il giorno spuntasse, a palesare per la città misteriosamente l’arrivo de’ principi e la fortuna di essere primi a seguirli. È creduto, e numeroso stuolo di plebe accorrendo alla piccola casa dove quei grandi alloggiavano, si offrono per grida guerrieri e servi. Esce il Colonna su la strada; rende grazie in nome del principe allo zelo de’ presenti, ma li accommiata. Il Girunda in quel tempo avea provveduto una carrozza, e nell’entrare in essa i quattro Corsi simularono riverenza al principe Francesco; il quale dicendo agli astanti: «Io mi abbandono in braccio de’ miei popoli»; e salutandoli benignamente, si chiuse in legno e partirono verso Brindisi.

Ne’ Corsi abbonda il talento di ventura; cosicchè adoperavano, secondo i casi, alterigia, magnanimità, grandezza di principi: si partivano da luoghi abitati prima del giorno, giugnevano all’entrar della notte, andava innanzi di molte miglia il Girunda a preparare alloggiamenti e credenze. E perciò mille bocche accertavano la presenza dei principi, ognun dicendo: «Io gli ho veduti»; ed aggiungendo, come suole nel racconto delle maraviglie, fatti non veri ma creduti. I successi avanzarono le speranze; popoli armati seguivano la carrozza, circondavano la casa degl’impostori, ed abbattendo i segni di repubblica, ristabilivano il regno. Il finto principe Francesco rivocava magistrati, ne creava novelli, vuotava le casse dell’erario, imponeva taglie gravissime alle case dei ribelli: obbedito più di vero principe perchè più ardito, e secondato da popolo pronto alle esecuzioni. L’arcivescovo d’Otranto che da lungo tempo conosceva [p. 229 modifica]il principe Francesco, e che l’anno innanzi in quella stessa città era stato seco alle cerimonie della chiesa e della reggia, oggi partecipe agl’inganni, ed egli medesimo ingannatore, accertò dal pergamo essere il presente quel desso, come che dopo un anno, per i travagli di guerra e di regno, apparisse mutato nell’aspetto.

Rivolsero quegl’impostori cammino verso Taranto, dove giunti videro approdare il vascello che portava in Sicilia le vecchie principesse di Francia, fuggitive da Napoli. Non ismarrirono gli audaci, ed il Corbara preceduto da imbasciate, rivelanti alle principesse i fatti maravigliosi di quella popolare credulità, andò con pompa regale e fidanza di parente a quelle donne; le quali, benchè superbe come ci stirpe regia borbonica, per giovare alla causa del re, accolsero da nipote quell’uomo abbietto; gli diedero titolo di altezza e gli prodigarono i segni di riverenza e di affetto. Così confermate le credenze de’ popoli, armi numerose adunaronsi per le parti regie, e gli stessi increduli, o i certi della impostura unendosi alla fortuna, tre province di Puglia ribellarono. Corbara, dopo ciò, desideroso di porre in salvo le male acquistate ricchezze, bandì ch’egli, portando seco il contestabile Colonna, andava in Corfù per tornare con poderose schiere di Russi; e che lasciava luogotenenti e generali nel regno il fratello del re di Spagna e ’l duca di Sassonia. Si partì. Uscito appena dal golfo, preso da pirati, perdè ricchezza e vita; il Colonna non mori, ma il suo nome scomparve. Boccheciampe, difendendo il castello di Brindisi da vascello francese, fu morto; e de Cesare condottiero fortunato di numerese torme, occupò senza guerra Trani, Andria, Martina, città grandi e forti, mentre le minori e la più parte delle terre Pugliesi, debellate dal grido, ubbidivano al re.

XIV. Rimane a dire delle Calabrie. Benchè lo stato di repubblica trovasse maggior numero di seguaci ne’ Calabresi, avidi forse di vendicare le patite ingiurie da feudalità più tiranna, o perchè nella ruvidezza de’ costumi e del vivere serbassero le virtù primitive di libertà, pure tenevano dalla parte del re innumerevoli cittadini; potendo affermare che i repubblicani dello stato intero stavano a’ contrari come il dieci al mille. I Borboniani calabresi spedirono al re nella vicina Sicilia fogli e legati per avvisarlo delle condizioni di quelle province, e pregarlo mandasse milizie, come che poche, ed armi assai, e personaggi di autorità, e leggi, e bandi per ajutare lo zelo delle genti già mosse; soccorresse il suo regno; impietosisse de’ suoi fedeli esposti alle vendette de’ nemici esteriori ed interni. Altri messi da Napoli e dalle Puglie accertavano i popolari tumulti, e la facilità di scacciare i Francesi, di opprimere i ribelli. Ma il re, fermo nella idea di tradimenti, non prestando fede a que’ fogli, ma credendoli nuovo inganno, confidava solamente nell’armi dei suoi [p. 230 modifica]alleati; egli nascondeva a sè medesimo i proprii torti; la regina ed Acton onestavano per il tradimento i falli di governo; Mack in un lungo scritto copriva i suoi mancamenti con quelli dell’esercito; i fuggitivi dal campo scusavano per lo stesso trovato le loro colpe; il capitano generale Pignatelli accusava traditori gli eletti della città, I Sedili, la più parte de’ nobili. Cosicchè non altro udivasi nella reggia che tradimenti, traditori, pene future e vendette.

Ma le vecchie principesse di Francia giunte in Palermo narrando le scene di Taranto dicevano vere e grandi le mosse popolari nella Puglia; mentre gli uffiziali inglesi, mandati sopra navi, esploratori delle nostre marine riferivano le cose istesse. Tenuto consiglio, fu deciso secondare quei moti; e poichè tra’ consiglieri mostravasi ardente per la guerra il cardinale Fabrizio Ruffo, il re gli diede carico di andare in Calabria ne’ feudi della casa; vedere, sentire lo stato della provincia, e secondo i casi avanzarsi nel regno o tornare in Sicilia; il grado, il nome, la dignità gli sarebbero ajuto all’impresa, e scudo contro la malvagità de’ nemici. Andò voglioso con pochi seguaci, meno danaro, autorità senza limiti, larghe promesse, Fabrizio Ruffo, nato di nobile ma tristo seme, scaltro per natura, ignorante di scienze o lettere, scostumato in gioventù, lascivo in vecchiezza, povero di casa, dissipatore, prese ne’ suoi verdi anni il ricco e facile cammino delle prelature. Piacque al pontefice Pio VI, dal quale ebbe impiego supremo nella camera pontificia; ma per troppi e subiti guadagni, perduto uffizio e favore, tornò dovizioso in patria, lasciando in Roma potenti amici acquistati, come in città corrotta, co’ doni e i blandimenti della fortuna. Dimandò al re di Napoli ed ottenne la intendenza della casa regale di Caserta; indi tornato nelle grazie di Pio, fu cardinale, andò a Roma, e là restò sino al 1798, quando per le rivoluzioni di Roma prese in Napoli ricovero, e poco appresso in Palermo seguendo il re.

XV. Giunto nel febbrajo di quell’anno 1799 al lido di Calabria, essendosi prima inteso coi servi e gli armigeri della sua casa, decorato della croce e de’ segni delle sue dignità, sbarcò in Bagnara dove fu accolto riverentemente dal clero e da’ notabili, e con pazza gioja dalla plebe. Divolgato l’arrivo e ’l disegno, accorsero da’ vicini paesi torme numerose di popolani guidate da gentiluomini e da preti o frati, che quendo videro andar capo un porporato non isdegnarono quella guerra disordinata e tumultuosa. Il colonnello Winspeare già preside in Catanzaro, l’auditore Angelo Fiore, il canonico Spasiani, il prete Rinaldi, e insieme a costoro numero grande di soldati fuggitivi o congedati, e di malfattori che poco innanzi correvano da ladri le campagne, e di malvagi usciti ne' tumulti delle carceri, si offrirono guerrieri per il re; ed il cardinale, viste le prime fortune, pubblicato il decreto che lo nominava [p. 231 modifica]luogotenente e vicario del regno. uscì di Bagnara circondato da stuolo numeroso e disonesto, col quale, senza guerra, soggettò per grido le città o terre sino a Mileto. Dicevasi che la forte città di Monteleone tenesse le parti di repubblica: ma intimata di cedere e minacciata di esterminio, riscattò la fama per denaro, cavalli, viveri ed armi. Stando il cardinale a Mileto, convocò quanti poteva vescovi, curati, altri cherici di grado, e antichi magistrati del re, e militari, e impiegati, e cittadini potenti per nome o ricchezza; ed esponendo i ricevouti carichi, la causa giusta del trono, santa della religione, bandì che i cittadini fedeli al re, devoti a Dio dovessero unirsi a lui, portando al cappello per insegna e riconoscimento la croce bianca e la coccarde rossa de’ Borboni; avrebbero oltre i premii celesti, le esenzione delle taglie fiscali per sei anni, e i guadagni della guerra sopra i beni de’ ribelli da quel giorno medesimo incamerati alla finanza regia, e su le taglie che sarebbero poste alle città o terre contrarie; abbattuti gli alberi infami della libertà, alzerebbero in que’ luoghi le croci; l’esercito si chiamerebbe della Santa Fede, per dir col nome l’obbietto sacro di quella guerra. E poscia processionando nella chiesa, e benedicendo ad alta voce le armi, progredì, non mai combattendo, sempre trionfatore, per Monteleone e Cutro, sopra Cotrone.

Cotrone, città debolmente chiusa, con piccola cittadella sul mare Ionio, era difesa da’ cittadini e da soli trentadue Francesi, che venendo d’Egitto, si erano là riparati dalla tempesta; ma comunque animoso il presidio, scarso d’armi, di munizioni e di vettovaglie, assalito da molte migliaja di borboniani, dopo le prime resistenze dimandò patti di resa; rifiutati dal cardinale, che non avendo danari per saziare le ingorde torme, nè bastando i guadagni poco grandi che facevano sul cammino, aveva promesso il sacco di quella città. Cosicchè dopo alcune ore di combattimento ineguale, perchè da una parte piccolo stuolo e sconfortato, dall’altra numero immenso e preda ricca e certa, Cotrone fu debellata con strage de’ cittadini armati o inermi, e tra spogli, libidini e crudeltà cieche, infinite. Durò lo scompiglio due giorni; e nella mattina che seguì, alzato nel campo altare magnifico e croce ornata, dopo la messa che un prete guerriero della Santa Fede celebrò, il cardinale, vestito riccamente di porpora, lodò le geste de’ due scorsi giorni, assolvè le colpe nel calore della pugna commesse, e col braccio in alto disegnando la croce, benedisse le schiere. Dipoi, lasciato presidio nella cittadella, ed a’ dispersi abitanti (avanzi miseri della strage) nessun governo e non altre regole che la memoria e lo spavento de’ patiti disastri, si partì per Catanzaro, altra città di parte francese.

Giunto a vista, inondando delle sue truppe le terre vicine, mandò ambasciata di resa. Ma Catanzaro, sopra poggio eminente, cinta di [p. 232 modifica]buone mura, popolosa di sedicimila abitatori, provveduta d’armi e preparata (per le udite sorti di Cotrone) a’ casi estremi, rispose ch’ella non mai ribelle, obediente alle forze della conquista francese come oggi alle più potenti della Santa Fede, tornerebbe volontaria sotto l’impero del re, a patto che i cittadini non fossero puniti nè ricercati delle opinioni e delle opere a pro della repubblica, e che le truppe della Santa Fede non entrassero in città, ma solamente i magistrali regii, guardati ed obbediti dalle milizie urbane. Così per pace. Sapesse il cardinale che per guerra seimila uomini armati morirebbero alle mura combattendo, prima di tollerare i danni e le ingiurie che aveva patite Cotrone. Per i detti Ruffo vide che la vittoria non sarebbe certa nè allegra; e simulando modestia, dicendo che i disordini di Cotrone derivarono dall’ardore delle sue schiere concitate da ostinata resistenza, concordò: che la città innalzerebbe la insegna de’ Borboni; e tornata sotto l’impero del re, obbedirebbe alle sue leggi e magistrati, che milizia urbana, composta da ministri regii, sarebbe la sola forza dell’autorità regale; che sarebbero occulte le opinioni de’ cittadini e rimesse le opere a pro della repubblica; non entrerebbero in città le truppe borboniche; Catanzaro pagherebbe per le spese di guerra dodici migliaja di ducati. La pace così stabilita fu mantenuta; e poichè tutta quell’ultima Calabria tornò al re, procedè il cardinale verso Cosenza.

XVI. Tal era nel finire del febbrajo lo stato interno della repubblica, mentre correvano lungo le marine legni siciliani ed inglesi, animando alle ribellioni, combattendo le città marittime fedeli al nuovo reggimento, e lasciando a terra uomini armati, armi, editti del re Ferdinando, e gazzette narratrici di fatti contrarii alla Francia. Perciocchè in quel medesimo tempo i Russi e Turchi, sopra potenti navigli, prese alcune delle isole Ionie, assediavano Corfù; e dicevano volgerebbero, compiuta quella impresa, in Italia. Nelson, lasciata la Sicilia, navigava nel Mediterraneo: molte città romane più vicine alla nostra frontiera combattevano per gli ordini antichi; cominciavano i tumulti di Arezzo nella Toscana; e poderoso esercito austriaco aspettava su l’Adige il cenno a prorompere. Sapevasi della Sicilia che diciottomila nuovi soldati accrescevano l’esercito del re; che il generale Stewart con tremila Inglesi presidiava la città di Messina; che si formavano a truppe i partigiani più caldi della monarchia per venire negli stati di Napoli ad accrescere la forza e l’ardimento dell’esercito della Santa Fede; e che sovrano e popolo erano accesi di barbaro sdegno contro i Francesi, come attestavano due fatti.

Nave con bandiera neutrale in quella guerra trasportava da Egitto in Francia cinquantasette infermi, tra’ quali il generale [p. 233 modifica]Dumas e Manscœur, il naturalista Cordier, altri personaggi di bel nome, e soprattutto il geologo Dolomieu, dotto, chiarissimo. La nave, battuta da tempesta, si riparò in Taranto, confidando nella bandiera e nella pace che in Egitto non sapevasi rotta. Ma caddero quelle fedi, perciocchè dominando in Taranto il Corso Boccheciampe fu trattenuta la nave, ed i Francesi e il Dolomieu, chiusi barbaramente in orrido carcere, ne uscirono per andare prigionieri a Messina; dove prevalendo l’ira di parte al rispetto della umanità e della fama, furono gettati in carcere più doloroso. Dolomieu, venuto per nuova infermità quasi a morte, richiesto al re di Sicilia dal governo di Francia, dalla società reale di Londra, dal re di Danimarca, dal re di Spagna due volte, e dal grido inorridito di tutti i sapienti di Europa, rimase in ergastolo; nè fu libero che per novelle vittorie dei Francesi, tra’ patti di pace con Napoli, nel ventesimo di prigionia; portando malattia sì grave che poco in età non piena di 51 anni.

Altra nove, pure salpata da Egitto, compagna di quella che parlava Dolomieu, colta dalla medesima tempesta si ricoverò nel porto di Agosta, per poi menare in Francia quarantotto tra soldati, uffiziali e amministratori militari, ciechi da malattia presa nel barbaro clima dell’Africa. Nè però quello stato miserevole, nè la riverenza che inspiravano le margini di onore su la fronte ai guerrieri, nè il pensiero che erano arrivati a quel porto travagliati dal mare, sopra nave sdrucita e riposando nella fedeltà dei trattati, bastarono a contenere la ferità degli Agostani che a torme armate sopra piccole barche, assalendo la nave, uccisero spietatamente que’ ciechi e inermi. I magistrati regii non impedirono la strage; nè il re, quando tornò in pace con la Francia, punì gli uccisori, dicendo a pretesto, che ne’ tumulti di popolo i rei confusi agl’innocenti sfuggono le pruove e le pene.

XVII. Tali e tante cose tristissime sapute da’ governanti della repubblica destarono la tardità di quegli animi, che, amanti di quieto vivere, rifuggivano dalle necessità di guerra e di castighi. Increduli alle prime nuove, poi confidenti negli incantesimi della libertà, dicevano che subito e senza l’opera della forza cesserebbero i moti della plebe inquieta perchè ignorante, ma certo pentita e pacifica sol che sentisse i benefizii del nuovo stato; cosicchè più potenti dei soldati e delle artiglierie sarebbero i discorsi, i catechismi, la eloquenza de’ commissarii. Ma finalmente, scossi da’ pericoli, andarono al generale supremo di Francia pregandolo a soccorrere la repubblica dagli sforzi del re antico, secondati da gente, infima invero, ma spaventevole per numero e atrocità. Esauditi, mossero due squadre di Francesi e Napoletani, una per le Puglie, l’altra per le Calabrie; avvegnachè gli Abruzzi, rattenuti dai posti francesi [p. 234 modifica]della linea di operazione tra Romagna e Napoli, e dalle fortezze di Civitella e Pescara, tumultuavano in se stessi con fortuna poca e varia. Le province di Avellino e di Salerno restavano soggiogate nel passaggio delle colonne di Puglia e di Calabria: la Basilicata, serrata dalle colonne istesse, quieterebbe. I nemici da sconfiggere erano dunque Ruffo e de Cesare.

Delle due colonne fu maggiore per numero ed arte quella di Puglia, onde presto ricuperare le province granajo impedite a mandar vettovaglie, da’ borboniani per terra, dagl’Inglesi per mare, all’affamata capitale. Il generale Duhesme fu eletto capo di quella schiera che numerava seimila Francesi, e mille o poco più Napoletani, retti da Ettore Caraffa, conte di Ruvo. Il quale, della nobile stirpe de’ duchi d’Andria, primo nato ed erede della casa, libero per natura, chiuso l’anno 1796 nelle prigioni di Sant’Elmo, fuggì con l’uffiziale che lo custodiva, e tornò in patria nello esercito di Championnet; dedito alle armi ed alle imprese più audaci, spregiatore de’ pericoli e di ogni cosa (uomini, numi, vizii, virtù) che fosse intoppo ai suoi disegni; strumento potentissimo di rivoluzione. L’altra schiera, quella destinata per le Calabrie, forte di miladuecento Napoletani, che sarebbe nel cammino afforzata de’ patriotti fuggitivi dal cardinal Ruffo, aveva per capo Giuseppe Schipani, nato Calabrese, militare dimesso dal grado di tenente, perspicace, ignorante, elevato all’altezza di generale della repubblica perchè settario caldissimo e valoroso. La prima schiera, soggiogate le Puglie, volgerebbe alle Calabrie; bastava che la seconda contenesse l’esercito dalla Santa Fede; cosicchè scopo dell’una era il vincere, dell’altra il resistere. Gli ordini scritti del governo palesavano l’animo pietoso de’ governanti, confidando più che nella guerra nella mostra dell’armi, nella modestia de’ capi, nella disciplina de’ soldati, nella magnanimità del perdono. Sensi sconvenevoli a repubblica nascente, che succede ad invecchiate pratiche di schiavitù.

Schipani, traversando Salerno ed Eboli, avvicinandosi a Campagna, Albanella, Cotrone, Postiglione, Capaccio, tutte città o terre amiche, vide bandiera borbonica sul campanile di Castelluccia, piccolo villaggio in cima di un monte al quale ascendesi per sentieri alpestri; e benchè gli fossero scopo la Calabria e ’l Cardinal Ruffo, egli preso di sdegno, volse cammino al paese ribelle; scegliendo delle tre strade, a scherno d’impacci, la più difficile. I borboniani dall’alto, vedendosi assaliti da milizie ordinate, con artiglierie trasportate sopra muli, trepidarono; e tenuto consiglio tumultuariamente nella chiesa, stabilivano di arrendersi. Ma colà stando a ventura il capitano Sciarpa, biasimata la codardia, disse che se fosse necessità cedere il luogo, si cedesse a patti di tornare volontari sotto l’impero della repubblica; ma vietando alle genti [p. 235 modifica]armate di entrare vincitrici nel villaggio, E poichè piacque il con siglio, e si diede a Sciarpa istesso il carico di eseguirlo, egli mandò a Schipani per pace; e a fin di vantare le forze del luogo, e tentar nuovamente le sue fortune, fece dire: «Che i cittadini volevano guerra, ma che li avea persuasi alla sommissione il capitano Sciarpa, non avverso alla repubblica, e pronto a darne pruova se lo impiegassero nelle milizie interne dello stato.» Quindi espose i patti. L’altro, che ad ascoltare impazientava, replicò essere venuto a Castelluecia per guerra non per pace; e a dar pene non premii: si arrendessero i ribelli a discrezione, o fossero preparati a sorti estreme. Sensi atroci, ed in guerra civile atrocissimi e stolti.

Riferiti que’ fatti al popolo adunato ancora nella chiesa, Sciarpa disse: «Or vedete gli effetti della codardia e del precipitato consiglio di arrendervi. Non vi ha per me che due partiti: se ripiglierete animo, io vi guiderò alla battaglia e alla vittoria; se vorrete darvi a vincitore superbo e spietato, e con voi le vostre robe e le vostre donne, io, per altra strada che tengo sicura, andrò con i miei a combattere in miglior luogo, tra miglior popolo.» Risposero gridando guerra; e appena il parroco dall’altare ebbe segnata la croce su le armi e benedetto il voto di combattere, tutti andarono contro al nemico, apprendendo da Sciarpa le parti e le regole della battaglia. Trattanto giungevano affaticati alle prime case del villaggio i repubblicani, e tolleravano grandine di archibusate da nemici non visti, nè però si arrestarono; ma dietro al generale (che tenendo in alto la spada gl’ incitava con l’esempio e la voce) stavano alla entrata della terra, dove infiniti colpi e molte morti, molte ferite, nessun nemico in aperto, abbatterono lo sterile coraggio di quella schiera; così che il capo, facendo sonare a raccolta, imprese a ritirarsi. Sbucarono allora dalle mura i nascosti guerrieri, e seguitando per la china i fuggitivi, altri ne uccisero, altri ne presero, e furono sopra i prigioni e i feriti crudeli come barbari. Schipani trasse le sue schiere scemate in Salerno; a Sciarpa crebbe animo e nome.

XVIII. Assai differenti dalle descritte furono le sorti della schiera di Puglia; la quale sottoponendo col grido le città forti e nemiche di Troja, Lucera e Bovino, accolta festivamente in Foggia città amica, rianimate Barletta e Manfredonia che tenevano per la repubblica, preparò gli assalti a Sansevero, popolosa, rinforzata da’ feroci abitanti del Gargano, con animi risoluti alla vittoria o alla morte. Quella città non ha mura, nè i difensori l’avevano munita di opere, confidando nel numero di dodicimila combattenti e nel valor disperato. Avean presso alle case, a cavaliero, piccolo poggio fitto di ulivi e di vigne: dove come ad imboscata disegnavano di nascondere ì più valorosi per menarli nella città quando il nemico, avaro e [p. 236 modifica]lascivo, andasse, come è costume, spicciolatamente in cerca di ricchezze e di piaceri. Il generale Duhesme che in Bovino aveva fatto punir con la morte i colpevoli della ribellione, e tre soldati francesi rei di furto, notificò quelle discipline in luogo di minacce o promesse agli abitanti di Sansevero. E costoro uccidendo alcuni partigiani di repubblica, o cittadini onesti, o sacerdoti, sol perchè pregavano la pace, avvisarono il generale di quelle crudeltà, chiamandole (ad esempio e a dileggio del suo scritto) discipline loro. E quindi, scoppiando lo sdegno in Dubesme, mosse il 25 di febbrajo contro Sansevero; e saputo, per ingegno di guerra o dalle spie, il disegno de’ borboniani, avviò forte squadra pier la sinistra del poggio, onde snidarli dagli oliveti; e nella vittoria che teneva certa, tagliar le strade alla fuga. I borboniani, per la opposta parte, divinando il pensiero del nemico, assai forti su la prima fronte per cannoni portati a braccia, e per numerosa cavalleria sciolta e scorritrice nel piano come Numida, uscirono in forza dal bosco, ed animosamente guerreggiando forzavano quella squadra francese a retrocedere.

Accorse in ajuto altra squadra, mentre Duhesme assaltò in gran giro la città con arti nuove a’ difensori; cosicchè sbaragliata la cavalleria, più molesta che forte, vinte le batterie, superato e cinto il poggio degli ulivi, fece sonare a vittoria e ad esterminio. Nel quale scompiglio de borboniani, compito dalla prima squadra l’ordinato movimento, e così tolte le strade al fuggire, finì la guerra, cominciò la strage; spietata, imperciocchè i Francesi vendicavano trecento commilitoni estinti; altrettanti almeno feriti, e le morti civili e le audaci risposte alle offerte di pace. Tremila di Sansevero giacevano sul campo e non finiva l’eccidio; quando le donne con capelli sparsi, e vesti lacere e sordidate, portando in braccio i bambini, si presentarono al vincitore pregando che soprastessero dall’uccidere, o consumassero il castigo meritato da città ribelle sopra i figli e le mogli de’ pochissimi uomini che restavano. Quello spettacolo di pietà e di miseria commovendo l’animo de’ Francesi, tornarono mansueti i vincitori, sicuri i vinti.

I fatti di Sansevero, come che bastassero a scoraggiare molte piccole terre della Puglia, confermarono alla guerra la città d’Andria e di Trani; avvegnachè rinforzate pei molti fuggitivi dalla battaglia, e fermate nella credenza che Sansevero fosse perduta per forza di tradimento: menzogna sempre usata dai fuggiaschi, sempre creduta dai partigiani. Il generale Duhesme, accresciuto da ottocento Francesi venuti dagli Abruzzi, disponevasi a procedere verso Andria; ed in quel mezzo giungevano al suo campo legati e statichi delle tre province di Puglia. Ma in Napoli mutato il comando dell’esercito da Championnet in Macdonald, e ’l senno e la idea di quella guerra, furono richiamate le schiere, fuorchè piccola mano lasciata [p. 237 modifica]in Foggia, e un grosso battaglione ad Ariano, altro ad Avellino, un reggimento a Nola. Giunta in quel tempo la nuova che i Turco-Russi stringevano da presso Corfù; e viste le navi di quelle due bandiere nell’Ionio e nell’Adriatico, rialzarono Trani ed Andria le speranze; le altre città o terre sottomesse dal grido della fortuna francese, oggi per grido di fortuna contraria tornavano borboniane; gli statichi, lasciati o fuggitivi, si facevano liberi. Solamente Sansevero benchè in animo sentisse maggiori stimoli di vendetta, scemata de’ più giovani e più prodi, abbrunato il popolo intero per le morti della battaglia, ed ogni casa, ed ogni zolla serbando i segni della strage, si tenne obbediente alle sue male sorti e addolorata.

XIX. A tale in breve si venne che bisognava tener perdute le Puglie, o riconquistarle. Adunata in Cerignola nuova squadra repubblicana, forte quanto la prima, sotto l’impero de generale Broussier con la medesima legione napoletana di Ettore Carafa, drizzò il cammino ad Andria. Andria, città popolosa, circondata di mura con tre porte, dopo il tristo fato di Sansevero accrebbe le difese, ristaurando la muraglia in più parti rovinata dal tempo, alzando nuove fortificazioni, sbarrando le porte, fuorchè una, e sfilando dietro ogni porta fosso largo ed alta trinciera. Diecimila borboniani la difendevano, soccorsi dagli abitatori ch’erano diciassette migliaia; i preti e i frati concitavano quelle genti con gli stimoli potenti della religione; e sopra vasto altare alzato nella piazza, avendo poggiato un crocifisso di grandezza più che umana, dicevano che al celebrare della messa ed alle sacre offerte, udivano dalla santa immagine che nessuna forza profana basterebbe ad espugnar la città, difesa dai cherubini del paradiso; e che presto giungerebbe in ajuto degli Andriani stuolo numeroso di altri soldati e di altri popoli. Le quali promesse si leggevano scritte a caratteri grandi in un foglio spiegato, messo in mano al crocifisso. E poichè il giorno innanzi della comparsa de’ Francesi giunse in città sopra legni corridori un battaglione di borboniani mnossi da Bitonto, e la nuova che Inglesi, Russi e Turchi arriverebbero tra pochi dì, si confermarono le predizioni; ed il popolo, fatto certo della vittoria, stava lieto, non timido della battaglia.

Il nemico, intorno ad Andria, spartì le forze in tre colonne quante le porte; e con le migliori arti di guerra minacciò, assalì, finse altri assalti alla città, la quale da’ ripari per colpi di cannoni e di archibugi teneva lontani gli assalitori. Ad un cenno del generale Broussier, tra suoni militari e romore di artiglierie avanzarono a corsa i repubblicani, e appoggiando alle mura le scale, impresero a montarle; ma sotto spari infiniti, e sassi, e moli che i difensori precipitavano dall’alto, tollerate molte morti e più ferite di guerrieri prodi e chiari nell’esercito. fu sonato a raccolta, e gli assalitori [p. 238 modifica]scherniti da’ motteggi de’ contrarii tornarono al campo. Volle fortuna de’ Francesi che in quel tempo per lo scoppio di un obice si aprisse la porta di Trani, contro la quale stava Broussier con la scelta de’ guerrieri, accorse ad essa; ma penetrando in città trovò guerra peggiore; fatta ogni casa un castello; e benchè in ajuto della prima colonna venisse per la stessa porta la seconda, stavasi incerto Broussier se procedere o trarsi fuora, quando si vide incontro Ettore Caraffa con la sua schiera, Napoletani e Francesi, i quali messi avanti la porta detta Barra, non riuscendo ad atterrarla, ed inteso il pericolo di Broussier, assalirono le mura con le scale, e trasandando lo scemar de’ compagni e le proprie ferite, entrarono nella città. Al quale assalto il colonnello Berger, gravemente trafitto su la scala facevasi spingere a montare; e fu visto Ettore Caraffa con lunga scala su la spalla, e in pugno banderuola napoletana e spada nuda, esplorar l’altezza de’ muri, cercando il luogo dove la scala giungesse; e trovato, ascendere il primo ed entrare primo e solo nella città. E sebbene tutto l’esercito fosse già in Andria, non finiva la guerra, essendo mirabile il valore de’ borboniani; tanto che dieci di loro, dentro debole casa, sostennero per molte ore gli assalti di forte battaglione francese, e altre prove dettero di non facile virtù. Soggiacque alfine la città d’Andria, feudo una volta. e allora pingue possesso di quel medesimo Ettore Caraffa che la espugnò, e diede avviso nel consiglio (maravigliosa virtù o vendetta) che si bruciasse. La quale sentenza seguita dagli altri, e comandata dal capo dell’esercito, tante morti, e danni e lacrime produsse che sarebbe a raccontarle troppa mestizia.

XX. Nè però sazie di sdegno le due parti, si accolse numero più grande di borboniani nella città di Trani; e andò contr’essa lo stesso esercito di Broussier, scemato di cinquecento almeno prodi guerrieri, morti o feriti ne’ fatti d’Andria. Più forte città era Trani per muraglie massicce e bastionate, molti cannoni, barche armate, schiere meglio agguerrite, difese concertate e cittadella. Andò Broussier in tre ordini, e investita nella notte la città, innalzò parecchie batterie come a far breccia; con assalti, due finti, uno vero da lui medesimo diretto; ma i difensori, scoperto il disegno, mandarono vuote le offese e le speranze. Combattevano dunque le due parti, una da’ muri vigilantissima ed operosa; l’altra di fuori aspettando gli accidenti della giornata, con divisamento giovevole a chi meglio conosce le arti della guerra, perciocchè spesso la propria virtù, ma più spesso i falli de’ contrarii ed il favore ben colto della fortuna guidano alla vittoria. E difatti per accidente fu espugnata la città; imperciocchè ad una punta di lei su la marina giace piccolo forte, quasi nascosto da scogli e muri, e mal guardato in quel giorno da’ meno validi cittadini; il qual forte fu scoperto da un soldato [p. 239 modifica]francese, che sperò di giugnervi camminando nel mare o nuotando. Palesò il pensiero ad alcuni compagni, ed in piccola mano, speranti gloria, vanno all’assalto. L’acqua giungeva al petto; ed eglino portando l’arme poggiata sul capo arrivano agli scogli, lì varcano, e rampicandosi per gli sdruciti dell’antica muraglia toccano la sommità del riparo senza esser visti dalle guardie, che però pagano con la morte la spensieratezza. Di quel successo altro soldato, lasciato a vedetta nel campo, avvisa il capo, e ad un cenno buona schiera va ed entra nel forte; nè già per le vie difficili del mare e degli scogli, ma scalando senza contrasto le mura. Intesi del pericolo corsero a folla i borboniani per riconquistare il perduto castello; ed i Francesi per arti e valore facevano vani gli assalti.

Così fervendo la guerra nella marina, divertiti i difensori e la vigilanza delle altre fronti, il generale Broussier comandò il secondo assalto alle mura; e felice (benchè molti morti e chiare patissero) entrò in città, dove il combattere fu sanguinoso terribile; avvegnachè più notevole a quei di Francia, percossi, senza quasi veder nemico, dalle case e di dietro le sbarre o le trinciere, avvisarono di montare su gli edifizii, coperti, come suole in Paglia, da terrazzi, e di varcare d’uno in altro rompendo i muri, o facendo di travi e di altri legni ponte al passaggio. Le condizioni mutarono; i difensori già sicuri nelle case, vedevansi sorpresi dal nemico sceso da’ terrazzi; e perciò, invalidate le fortificazioni e le poderose artiglierie della cittadella, trucidate le guardie dietro ai ripari, cominciò nuova specie di guerra che scorava gli animi, confondeva gli ordini delle difese; e annientando i preparati mezzi di resistenza, svaniva (nella impossibilità di combattere) la stessa intenzione di morir combattendo. Caddero l’armi di mano a’ cittadini: Trani fu presa, e ridotta per secondo esempio, non di castigo ma di furore, a cumuli di cadaveri e di rovine. Ettore Caraffa, espugnatore del fortino di mare, quindi della città, prode in guerra, crudele ne’ consigli, sostenne il voto ch’ella bruciasse.

XXI. Lasciato l’infausto luogo, le schiere procederono a Bari, Ceglie, Martina ed altre città o terre, animando le amiche, soggiogando le contrarie, imponendo sopra tutte taglie gravissime; però che univasi all’avidità delle genti straniere il bisogno del Caraffa, cui non era dato altro mezzo di mantenere i suoi guerrieri che per la guerra. E quando a lui, Pugliese, ricorrevano i deputati di alcuna comunità per far torre o scemare i tributi iniquamente imposti a città fedeli ed amiche, egli citava, in esempio di necessaria severità, Andria sua per suo voto bruciata; e se medesimo che donava alla patria le ricchezze della casa, la grandezza del nome, il riposo, la vita. Quella colonna francese nelle Puglie avea più volte battuto e disperso nell’aperto le truppe borboniane; per difetto del de Cesare [p. 240 modifica]loro capo, timido, ignorantissimo, cresciuto in domestica servitù dove non sorge virtù guerriera, o se, natura ne concede il germe, vi si spegne. Tante sventure e tante morti abbattendo l’animo delle parti regie, l’impero e i segni della repubblica tornarono in Puglia temuti e venerati. Ma come Duhesme così Broussier fu richiamato, entrambo implicati da Faypoult nello stesso giudizio di Championnet. Andarono capi di quelle schiere i generali Olivier e Sarraziu, con ordine di non avanzare nell’ultima provincia e tener le squadre così disposte da ridurle in Napoli al primo avviso.

Avvegnachè il generale Macdonald sospettava di non rimanere nella bassa Italia mentre nell’alta l’esercito francese precipitava di sinistro in sinistro. Erano mossi gli Austriaci e indietro i Russi; la battaglia di Magnano combattuta lungamente, sebbene grave a’ Tedeschi, avea forzato i Francesi, lasciato l’Adige, ad accampar dietro al Mincio, indi all’Oglio. Mantova investita, Milano minacciata; l’esercito di Scherer ridotto a trentamila combattenti, a petto di quarantacinque migliaja di Tedeschi e d’altre quaranta migliaja di Russi che succcedevano; gli eserciti francesi del Piemonte, di Toscana e di Napoli, lontani dalla Lombardia per guerre ingloriose contro de’ popoli. Così stavano le cose nella Italia, mentre i Turchi e i Russi, già espugnata Corfù e prese le isole Ionie e le già venete, volgevano alle marine italiane quaranta navi da guerra e trentadue mila soldati; e la plebe d’Italia odiando i Francesi perchè stranieri, portanti novità, e predatori, secondava i nemici loro, aspettando miglior libertà da genti del settentrione e da Turchi.

Peggio nello interno andavano le cose, avvegnachè nelle province, all’infuori della Puglia, le parti borboniane crescevano di forza e di ardire. Pronio e Rodio avevano restituite allo imperio dei re presso che tutte le città e terre degli Abruzzi; evitando gli scontri de’ Francesi, lasciandoli padroni e sicuri dove accampavano, ma tutto intorno rivolgendo i popoli di affetto e di governo. Mammone occupava Sora, Sangermano, e tutto il paese che bagna il Liri. Sciarpa, dominando nel Cilento, minacciava le porte di Salerno. E sopra tutti il cardinale Ruffo procedendo dall’ultima Calabria contro la città di Corigliano e Rossano, distaccò i capo-banda, Licastro sopra Cosenza, Mazza su Paola; sole città di quella provincia che tenessero ancora per la repubblica. Paola cadde, i partigiani di libertà si ripararono in Cosenza; a Cassano e Rossano furono dati per largo prezzo miseri accordi; sola Cosenza resisteva. Dirigeva le milizie un de Chiaro, eletto capo perchè ardentissimo di libertà; tremila Calabresi gli obbedivano; e la città benchè aperta, era munita da trincere, qua da case o poggi fortificati, e nel più vasto giro, dal fiume Crati, il quale con due rami quasi l’abbraccia e circonda: le armi, le vettovaglie, i proponimenti abbondavano. [p. 241 modifica]Ma quando più salde stavano le speranze, i borboniani entrarono senza guerra dov’era il de Chiaro con la maggior guardia; e de Chiaro dopo di aver sedotto con discorso e con l’esempio quante potè delle sue genti, guidando traditore i nemici contro gli altri posti, sottomise in poco d’ora la città. Fuggirono oltre il fiume alcuni de’ fedeli; ed aspettata per virtù d’armi la notte, altri per inospiti sentieri tra le montagne giunse alla marina ed imbarcò, altri affidandosi a vecchi amici, fu tradito, altri per favore del caso scampò.

Il cardinale, accresciuto della numerosa torma del de Chiaro, volse alla Puglia per buon consiglio di rianimare col grido del suo arrivo le parti regie, scorate da’ fatti che ho discorso; ignorante di guerra; sagacissimo ne’ civili sconvolgimenti, guidava la difficile impresa con fine ingegno; e perciocchè di crudeli, rapinatori e malvagi componevasi la sua schiera, la crudeltà, le rapine, i delitti cerano mezzi al successo. Molti vescovi e cherici di alto grado concertavano seco in segreto da lontani paesi le pratiche di rivoluzione; ed egli, secondo i casi spronava lo zelo; o, a vederlo prematuro e pericoloso, il ratteneva, sempre scrivendo con lo stile ecclesiastico, pietoso e doppio. Così pervenne a far noto nelle Puglie il vicino arrivo delle sue truppe; e quindi, rincorate le parti del re, il finto duca di Sassonia nelle ultime terre di Taranto e Lecce tornò alle armi.

XXII. Il cardinale movendo dalle Calabrie lentamente per dar agio alle rovine della repubblica di crescere, ed alla fama di narrarle, riduceva sotto il regio impero quel largo paese di Basilicata, bagnato dal maro Ionio, e che abbonda di biade e greggi, d’uomini e città. Nel qual tempo il generale Macdonald, richiamate dalla Puglia le schiere francesi, con tal arte nel cammino che apparisse scaltrimento di guerra non abbandono; ma il Corso de Cesare, come sentiva qualche terra vuotata da’ nemici, andava timidamente ad occuparla. Ed in quel tempo stesso tornando in Francia i legati della nostra repubblica, mandati ad ottenere formale riconoscimento e stringer lega per qualunque ventura, riportarono che il di rettorio aveva negato le inchieste, sotto varii colori che scoprivano il pensiero di abbandonare alle male sorti un paese travagliato amor della Francia sin dell’anno 1783, dalla Francia trasformate a repubblica, tributario di lei, impoverito per lei, ed ora da lei quasi rimesso nelle mani dell’antica tirannide: fato de’ popoli che si commettono alle genti straniere. Insieme a’ legati venne il commissario francese Abrial per ordinar meglio la repubblica napoletana; stando fra i pretesti del direttorio la cattiva forma politica datale da Championnet. Abrial era tenuto probo cittadino, amante di libertà, dotto delle ragioni dei popoli e della presente civiltà degli stati; bella fama che in Napoli accrebbe. [p. 242 modifica]

Egli compose il governo con le forme di Francia: potere legislativo commesso a venticinque cittadini, potere esecutivo a cinque, ministero a quattro. Egli medesimo elesse i membri de’ tre poteri, serbando molti degli antichi rappresentanti, aggiugnendo i nuovi, e mutandoli spesso con altri. Fu de’ nuovi il medico Domenico Cirillo, che avvisato, rispose: «È grande il pericolo, è più grande l’onore; io dedico alla repubblica i miei scarsi talenti, la mia scarsa fortuna, tutta la vita.» Il nuovo governo fu subito in ufficio con le regole costituzionali tratte dall’esempio di Francia e dal senno de’ governanti: non essendo ancora sancita, come che lungamente discussa, la costituzione che propose Mario Pagano; però data in esame al secondo congresso legislativo. Il quale, sciolto dalle sollecitudini di guidare lo stato, si volse con grande studio alle nuove leggi; codici, amministrazioni, finanza, feudalità, milizia, culto, pubblica instruzione; e poi alle magnificenze della repubblica, invitando gli architetti con gara d’ingegno alla formazione di un Panteon, dove si legessero primi con distinto carattere i nomi di de Deo, Vitaliani, Galiani; e decretando un monumento a Torquato Tasso nella sua patria di Sorrento; e disegnando, dove giacciono le ceneri di Virgilio, tomba più degna e marmorea.

XXIII. Mentre a tali cose di futura grandezza intendevano i rappresentanti della repubblica, intendeva il cardinal Ruffo alla espugnazione di Altamura, città grande della Puglia, forte per luogo e munimenti, fortissima per valore degli abitanti. Ma il porporato unito al Corso, e fatto audace delle gustate fortune, pose il campo a vista delle mura, e cominciò la guerra. I borboniani peggiorati in disciplina, miglioravano nell’arte, accresciuti di veterani e di uffiziali e soldati mandati da Sicilia, o venuti volontarii alle venture di quella parte; avevano cannoni, macchine di guerra, ingegneri di campo ed artiglieri; superavano d’ogni cosa l’opposta parte, fuorchè d’animo; così che gli assalti per molti dì tornando vani e mesti, crebbe lo sdegno degli assalitori e l’ardimento de’ contrarii. Vedevansi dalle mura nel campo le religiose cerimonie del cardinale, che, avendo eretto altare dove non giugnesse offesa, faceva nel mattino celebrar messa; ed egli, decorato di porpora, lodava i trapassati del giorno innanzi, vi si raccomandava come ad anime beate, e benediceva con la croce le armi che in quel gioruo si apparecchiavano contro alla città ribelle a Dio ed al re.

Dentro la quale città si vedevano altri moti e religioni, adoravano pur essi la croce ma in chiesa, si concitavano al campo con le voci e i simboli di libertà. Erano scarse le provvisioni del vivere, scarsissime quelle di guerra; e se la liberalità de’ ricchi e la parsimonia de’ cittadini davano rimedio all’una penuria, la guerra viva e continua accresceva il peso dell’altra. Fusero a projetti tutti i metalli [p. 243 modifica]delle case, mancò l’arte a liquefar le campane; ne’ tiri a mitraglia, non andando a segno le pietre, usarono le monete di rame; nè cessò lo sparo delle artiglierie che al finire della polvere; ed allora il nemico, avvicinate alle mura le batterie de’ cannoni ed aperte le brecce, intimò resa a discrezione. La quale andò negata, perciocchè non altro valeva (se la natura del cardinale non fosse in quel giorno mutata) che serbar molte vite degli assalitori, nessuna de’ cittadini; e morir questi straziati senza pericolo degli uccisori; e, privati d’armi e di vendetta, sentir la morte più dura. Perciò gli Altamurani difendendo le brecce col ferro, e con travi, e sassi, uccisero molti nemici; e quando videro presa la città, quanti poterono uomini e donne, per la uscita meno guernita, fuggendo e combattendo scamparono. Le sorti de’ rimasti furono tristissime; chè nessuna pietà sentirono i vincitori; donne, vecchi, fanciulli, uccisi; un convento di vergini profanato; tutte le malvagità, tutte le lascivie saziate; non ad Andria e non a Trani, forse ad Alessia ed a Sagunto (se le antiche istorie son veritiere) possono assomigliare le rovine e le stragi di Altamura. Quello inferno durò tre giorni; e nel quarto il cardinale, assolvendo i peccati dell’esercito, lo benedisse, e procedè a Gravina che pose a sacco.

XXIV. Più lente, non meno felici erano le bande di Pronio, Sciarpa, Mammone e di altri guerrieri di ventura, che tutto dì giravano con la fortuna; sì che non mai tanto poterono le ambizioni, nè tanti mancamenti si videro. Il cardinale accoglieva lieto i traditori, lodava le tradigioni, prometteva a maggior opera che giovasse (benchè fosse delitto) maggior premio; imperversarono allora i rei costumi del popolo. Le città repubblicane della Basilicata, valorosamente combattendo, si arresero a Sciarpa con patto di serbar vita, libertà e proprii beni sotto l’antico impero de’ Borboni; le province di Abruzzo, fuorchè Pescara e poche terre che i Francesi guardavano, e di Calabria e di Puglia erano tornate intere al dominio del re; nella sola Napoli, e in poca terra intorno stringevasi la repubblica. Il generale Macdonald, pregato a mandar soldati contro i ribelli, rispondeva che ragioni di guerra lo impedivano. Stavano anziosi non sconfidati i repubblicani, allorchè il generale, pigliando a pretesto la dechinante disciplina che in deliziosa città provano gli eserciti, annunziò che andrebbe a campo in Caserta; nascondendo le sventure d’Italia, e Scherer battuto più volte dagli Austro-Russi, e la battaglia di Cassano perduta da Moreau, e Milano presa da nemici, e il Po valicato ed occupate Modena e Reggio, e i popoli d’Italia, sconoscenti o adirati de’ patiti spogli, parteggiar co’ nemici della Francia. Ma la industria de borboniani, divolgando quegl’infortunii, palesava gl’inganni del generale francese; che però da varii sdegni commosso, bandì legge così: [p. 244 modifica]

«Ogni terra o città ribelle alla repubblica sarà bruciata e atterrata;»

«I cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, i curati, e in somma tutti i ministri del culto saranno tenuti colpevoli delle ribellioni de’ luoghi dove dimorano, e puniti con la morte;»

«Ogni ribelle sarà reo di morte, ogni complice secolare o cherico sarà come ribelle;»

«Il suono a doppio delle campane è vietato; dove avvenisse, gli ecclesiastici del luogo ne sarebbero puniti con la morte;»

«Lo spargitore di nuove contrarie a’ Francesi o alla repubblica Partenopea, sarà, come ribelle, reo di morte;»

«La perdita della vita per condannua porterà seco la perdita dei beni.»

Stando a campo in Caserta lesercito di Macdonald, sbarcavano da navi anglo-sicule alle marine di Castellamare cinquecento soldati del re di Sicilia e buona mano d’Inglesi; le quali genti, ajutate da’ borboniani e dalle batterie delle navi, presero la città ed il piccolo castello che sta in guardia del porto. Padroni del luogo, uccisero molti della parte contraria, e lo stesso presidio del forte, benchè di Francesi datisi per accordi. Corsero a quel romore i terrazzani dei paesi vicini, Lettere, Gragnano e i rozzi abitatori de’ monti soprastanti; Castellamare, città bellissima, stava dunque a sacco e a scompiglio. E nel tempo stesso un reggimento inglese e non piccoli turba di borboniani sbarcati presso a Salerno, presero quella città, rivoltarono a pro del re Vietri, Cava, Citara, Pagani, Nocera,. poco uccidendo, rapinando molto, e formando a truppe que’ tristi che accorrevano disordinatamente più al bottino che alla guerra.) I citati avvenimenti presso al campo francese, comunque invalidi n turbarne la sicurezza, ne oltraggiavano il nome ed il valore.

Il 28 di aprile il generale Macdonald con buona schiera, ed il generale Vatrin con altra non meno forte, andarono agli scontri del nemico. Lo trovò Macdonald in riva al Sarno, fortificata con trincieramenti e artiglierie; ma, raggirato fuggì, lasciando i cannoni e pochi uomini meno validi alla fuga. Il vincitore, procedendo, sottoposte le terre di Lettere e Gragnano, scese a Castellamare, dove Inglesi, Siciliani e molti di quelle parti fuggivano a folla su le navi. Flottiglia repubblicana uscita nella notte del porto di Napoli, valorosamente combattendo, benchè sfavorita dal vento che la spingeva sotto le fregate nemiche, impedì la fuga di molti, che venuti alle mani del vincitore furono morti o prigioni. Tre bandiere del re, diciassette cannoni, cinquanta soldati di Sicilia, molti borboniani, ira sfogata e bella fama di guerra furono il frutto della vittoria. Stavano i legni anglo-siculi lontani dal lido a vista della città, quando nella notte bruciavano la terra di Gragnano e parecchie case [p. 245 modifica]di Castellamare; incendii infami a chi li causò, a chi li accese, perchè non da mira di buona guerra ma da feroce insazietà di vendetta.

Il generale Vatrin, più spietato, uccise tre migliaja di nemici; non perdonò a’ prigioni se non militari di ordinanza; e serbò alcuni borboniani sol per farli punire da’ tribunali con tremenda esemplarità. Mandò in Napoli a trionfo quindici cannoni tolti in battaglia, tre bandiere, una del re Giorgio d’Inghilterra, due del re Ferdinando di Sicilia, e lunga fila di prigionieri siciliani, inglesi, napoletani. Le città rivoltate, tornando all’impero della repubblica, pagarono grosse taglie al vincitore.

XXV. Ma il giorno di abbandonare a se stessa la repubblica Partenopea essendo giunto, il generale Macdonald venne di Caserta in Napoli, ed a’ governanti adunati a riceverlo disse: non essere appieno libero uno stato se protetto dalle armi straniere, nè poter la finanza napoletana mantener l’esercito francese; nè di questo aver bisogno se la parte amante di libertà vorrà combattere le disgregate bande della santa fede. E perciò, ch’ ei lasciando forti presidii a Santelmo, Capua e Gaeta, si partirebbe col resto dell’esercito a rompere (sperava) i nemici delle repubbliche, scesi in Italia confidando meno nelle armi che nelle discordie italiane o nelle sue lunghe pratiche di servitù; e che facendo voti di felicità per la repubblica Partenopea riferirebbe al suo governo quanto il popolo napoletano era degno di libertà; che altro è popolo, altro è plebe; e questa sola non quello, sotto le bandiere del tiranno, combatteva per il servaggio, pronta ella stessa a mutar fede come gente ingorda di guadagni e di furto. E poi che i rappresentanti ebbero risposto sensi amichevoli ed auguranti, egli prese commiato e tornò al campo. Fu gioja (incredibile a dire) ne’ partigiani della repubblica, i quali, semplici e buoni, sembrando a loro impossibile che spiacesse ad uomini la libertà, credendo che le ribellioni e la guerra derivassero dalle soperchianze, le imposte, la superbia de’ conquistatori, andavano certi che al pubblicarne la partita si sciorrebbero le torme della santa fede, o pochi resti di quella parte fuggirebbero svergognati in Sicilia. Perciò dicevasi che il principe di Leporano, brigadiere negli eserciti regii, militante sotto il cardinale, disertata quella insegna, era passato a’ repubblicani, ed aveva imprigionato il suo capo; ed erano rimasti soli o con pochi Sciarpa, frà Diavolo, Pronio: ed altre simili a queste voci bugiarde.

Frattanto a’ dì 7 di maggio, levato il campo di Caserta, mosse l’esercito francese diviso in due; l’uno guidato da Macdonald per la via di Fondi e Terracina col gran parco di artiglierie e con le bagaglie, l’altro sotto Vatrin per Sangermano e Ceperano. E nel tempo stesso il generale Coutard comandante negli Abruzzi, raccolte le squadre, andava per le vie più brevi nella Toscana, confidando [p. 246 modifica]le fortezze di Civitella e Pescara ad Ettore Caraffa; il quale, tornando i Francesi dalla Puglia, era passato con le sue genti negli Abruzzi, Macdonald e Coutard procederono senza contrasto; Vatrin superò, combattendo, Sangermano; e giunto ad Isola, piccola terra presso a Sora, fu arrestato. Quella terra prende nome dal vero, imperciocchè due fiumi (fonti copiose del Garigliano) la circondano, ed a lei si giunge per ponti che i borboniani avevano rotti; cosicchè dietro i fiumi ed il muro di antica cinta stavano sicuri ed audaci. Vatrin mandò a parlamento per aver passaggio, ch’egli prenderebbe, se negato, con la forza dell’armi; ma i difensori, spregiando o non conoscendo le regole sacre dell’ambasceria, per colpi di archibugi scacciarono il legato. Erano i due fiumi inguadabili. cadeva stemperata pioggia, mancavano le vettovaglie a’ Francesi; divenne il vincere necessità. La legione Vatrin costeggiando la riva manca di un fiume, e la legione Olivier la diritta dell’altro, cercavano un guado; e non trovato, costrussero un ponte di fascine, di botti e di altri legni, debole, piccolo, non atto a’ carreggi di guerra ed all’accelerato passaggio di molte genti; e perciò mezza legione andando per il ponte ajutava con mani e con funi l’altra metà che a nuoto valicava; e tutta intera, passate l’acque, giunse a’ muri. Nè perciò paventarono i difensori.

Per antichi sdruciti e per operate rovine alle pareti delle case, i Francesi penetrarono in quella parte della terra che, traversata dallo stesso fiume e rotto il ponte, fu nuovo impedimento a’ vincitori. Ma la fortuna era con essi; i difensori non avevano demolite le pile, e stavano ancora le travi presso alle sponde. Ristabilito in poco d’ora il passaggio, cadute le difese e le speranze, fuggirono i borboniani, di poco scemati, e superbi di quella guerra e delle morti arrecate al nemico. Il quale sfogò lo sdegno su i miseri abitanti; e trovando nelle cave poderoso vino, ebbro d’esso e di furore, durò le stragi, gli spogli e le lascivie tutta la notte. Ingrossarono le piogge, e la terra bruciava; al nuovo sole, dov’erano case e tempii, furono visti cumuli di cadaveri, di ceneri e di lordure.