Specchio d'Esopo
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Ili SPECCHIO D’ESOPO I Apologo intitolato Specchio d’Esopo, composto dal MAGNIFICO CAVALIERE E DOTTORE MESSER PANDOLFO COL- LENUCCIO DA PESARO. ( Collocutori : Ercole, Esopo, Blacico, Plauto, Luciano e il Re).
Ercule. Che hai tu, Esopo, che sei si turbato in vista? Donde vieni tu ora?
Esopo. O Ercule, io non m’era di te accorto: però per- donami se io non ti ho secondo il debito adorato. Tu sai che di tutti li dèi io ho te solo in precipua venerazione, come solo per virtú liberatore de l’innocenza e domator di monstri.
Ercule. Non bisogna che facci di ciò scusa: io so il cor tuo e quello a me basta. La mente sacrifica, e non l’adora- zione. Dimmi pure che cagione è de la tua turbazione. È ella ira o sdegno, oppure altro dolore?
Esopo. Io ti dirò, Ercule. La castagna una volta da un pastore imprudente ne la cenere calda fu posta. Lei il pregò che di li la levasse, ché star non vi potria; lui non che non la levasse, ma ancor piú appresso le brace la spinse. Lei maggiormente il pregava che piú non la scaldasse, ché sop- portare non potria; allora il pastore ostinato, per attuffarla né sentir piú soi lamenti, sotto la cenere la coperse e di sopra carboni accesi vi pose. Ma la castagna, impaziente de l’in- cendio, levatasi li panni d’attorno, con un gran schioppo la cenere e il foco nel volto del pastore e per la casa span- dendo, da tanta molestia con un veloce salto si liberò.
Ercule. Tu mi fai ridere, Esopo. Sempre con qualche novo motto tu salti di palo in frasca e ancor che adirato tu pari, materia di riso doni ad altrui. Fammi un piacere, tu sai che ti amo: dimmi che hai e donde vieni.
Esopo. Io pensava altrove, però non ti risposi a proposito. Vengo da casa del re e da la corte. Dimandai d’esser intro- messo. Li uscieri con molte contumeliose parole, minacciando di bastone, mi hanno cacciato da la porta, né hanno voluto al re per me fare ambassata.
Ercule. Non ti hanno forse conosciuto, vedendo questo tuo volto che forse indica ad altri quello che tu non sei, e però hanno avuto falso iudicio di te: che se ti avessino co- nosciuto come sei compagnone e festivo, non ti ariano dato repulsa.
Esopo. La castagna una volta si mise in dosso una sua veste orrida, spinosa, spiacevole, coprendosi tutta insino al volto, talché li viandanti non ardivano toccarla, anzi dete- standola la schifavano. Passando per la selva Autunno, la pregò che ’l volto si scoprisse e dicessegli chi ella era. Il che fatto, e la sua grata condizione conosciuta: — Quanto son pazzi li omini — disse Autunno — che da la vista di fora de l’altrui condizione fanno iudicio! —
Ercule. Tu devi essere per certo, Esopo, molto amico di castagne, che si spesso le alleghi! Parla un poco a propo- sito e torna in te. Andasti tu a la corte con lettere di passo e scorta, oppure solo?
Esopo. Andai solo.
Ercole. In mal loco senza presidio ti conducesti ! Almen portato avessi (come dicon che si usa a li re persiani) un qualche dono !
Esopo. Io il portava, e hollo qui sotto il mantello. Ma diceano quelli portinari che erano incanti e venefici, coman- dandomi eh’ io stessi da longe da la porta, se io non volea de le mazzate; né mi giovò giurare per Giove e Alithia che piú suave cosa di questa non si mangiava, ogni volta che de la scorza, che è alquanto amara pure, fussino mondati.
Ercule. Che cose sono queste, Esopo, per tua fé? Mo- stramele un poco.
Esopo. O che credi tu che siano? Sono un cesto di apo- logiá e son di quelli maturi e di bon terreno.
Ercule. Oh son belli, e piaceranno al re! Ma non mi maraviglio de li uscieri, che non hanno mai veduti né gustati tali frutti. Se tu avessi donato loro un qualche figlio di gallo o un otro di sangue di uva, saresti entrato per tutto senza scorta.
Esopo. Credo che tu dica il vero, perché giá mi ricordo che quando Enea troiano andò a li Campi elisi, Cerbero non l’aria mai lassato passare, se non fusse che gli diede un piatto di una bona vivanda. E anche il tuo amico Teseo, se non pigliava argumento di quel boccon eh’ el diede al Mino- tauro, non saria uscito dal labirinto netto.
Ercule. Tu parli bene, Esopo, e parmi che tu abbi del pratico, ma non lo adoperi. Almeno avessi tu racconcio un poco quel tuo viso, che pur elato e rigido pare alquanto, e ti fussi buttato da brigante con dolci parole, che so che sai, quando tu vói !
Esopo. Parole dolci aveva io pur troppo: la faccia mutar non posso, ché la Natura (di chi son opra) non vòle. Ma io ti voglio dir piú. Per dargli ad intendere ch’io era bon com- pagno, e che in me non era quel che ’l viso mostrava, tira- tomi alquanto da parte, mi misi a cantare; e cantai molte belle canzoni di quelle che tu sai, che giá navigando con te e con li altri Argonauti cantar solea con piacere di tutti. Tut- tavia dicevano ch’io era barbaro né mi lassava intendere, e che io dovessi portar via questi mei incanti. Onde io presi tanta turbazione, quanta tu mi hai potuto vedere nel volto, vedendo che né anche l’armonia li movea.
Ercule. Or come volevi tu che si movessino? Non sai tu che chi non è armonicamente, o per natura o per dottrina, composto, non si pò di armonia dilettare, e però né anche per quella commovere?
Esopo. Io il so pure e sollo per esperienza. Anzi, essendo io a questi di ne la valle di Agnia, io vidi dare una sentenza contra il lusignolo, che sempre mi dolerá.
Ercule. Dimmi come andò quella sentenza.
Esopo. Cantava il lusignolo sopra una quercia. Ebbe ar- dire il cucco di svillaneggiarlo e voler con esso di canto con- tendere. Il lusignolo con suavissima melodia di piú canzoni e varie (come tu sai che sòie) la sua parte cantò: il cucco da l’altra parte con due sole sillabe sempre a una misura fece ancor lui suo strepito. Finito il canto, e la contesa essendo si grande, che iudice li bisognava, a l’asino, il quale ivi vicino udito il lor canto avea, per iudicio ricorseno. Rispose l’asino che piú arte di canto forsi porria avere il lusignolo, ma che a lui il cantar del cucco piú piacea; e cosí il meschin lusi- gnolo la sentenza contra sé riportò.
Ercule. Tu mi fai pur troppo ridere, Esopo. Odi a che iudicio si riduce qualche volta la perizia! Giá suol dirsi in proverbio: «Che ha da far l’asino con la lira?» Perversa cosa è pur per certo che alcun iudichi di quel che non intende. Anche a me ricorda che, combattendo io con l’idra, un gran- chio ebbe ardire di morsicarmi un calcagno: e fumo si pazzi quelli che allora indicavano, che lo dedicorno in cielo e po- sano nel zodiaco, non per altra virtú, se non per aver avuto ardire di pizzicare il piede ad Ercule. Ma lassamo andar questo: la ignoranza di tutte le cose assurde è madre. Altr’omo che te per certo non vorria aver oggi scontrato, però voglio che torni indrieto, ché anch’io vado a la corte e ti farò intro- mettere a la presenza del re, tal che potrai porgere questi toi doni. Perché il re è omo di gran valore e di bona ar- monia composto, e ha incredibile acume di ingegno e di iudicio, non ti dispregiará; anzi in suo contubernio ti riceverá, perché di umanitá e di clemenza precipuamente eccelle.
Esopo. Io son contento venire sotto le tue spalle, benché molti forse mel dissuaderiano. Ma farò come Diomede, che piccolo essendo, sotto il scudo di Aiace, che era grande, andava a la battaglia, si che tutti dui insieme mirabil cose faceano. Ma vedi, Ercule, lassami parlare: non m’interrompere, se non bisogna.
Ercule. Al re parla in che modo tu vói, Esopo, ché (come ho detto) è instrutto di sapienza. Ma da li uscieri e da’ ministri oziosi ti guarda, perché tu parlaresti nel canneto. Spac- cia pur lor col riso, come la Volpe tua la mascara del mimo.
Esopo. Tu di’ bene, Ercule. Andiamo adunque e ne l’an- dar ragionando, poi che abbiam tempo. — Donde vieni tu ora cosí allegro?
Ercule. Vengo da una cittá nova, la qual mi edificano, ove molti templi hanno construtti. E ho veduto che nel mio tempio, il qual sopra il Circo Massimo hanno fondato, un altare solo hanno dedicato a le Muse e a me insieme: la qual cosa a me summamente è grata.
Esopo. Deh dimmi, perché a le Muse e a te un medesimo solo altare hanno deputato coloro, e tu cosí grato lo hai?
Ercule. Perché le opere de li omini prestanti, le quali di- cono essere per opera sola de le Muse, che le scienze hanno in tutela, sono fatte immortali e ne la memoria de le genti perdurano. Però tu vedi sempre li omini dotati di eccellenti virtú dilettarsi di avere appresso omini dotti, li quali possino le lor laudabili opere a la eternitá de le lettere conservare.
Esopo. Quanto ha ben veduto la savia vetustá col far commune a te e a le Muse l’altare, a dare esemplo che la virtú de’ grandi omini è sepulta, se la prudenza e diligenza de li omini letterati non la tien viva e immortale! Ma dimmi adunque ancor questo: perché li toi templi in Italia e in Grecia e in Gallia e per tutte le provincie morali, o sopra il foro e appresso anfiteatri e circhi e ginnasi e ippodromi e teatri e simili lochi illustri sempre trovo edificati?
Ercule. Perché quelli sono lochi celebrati dal concorso di molta gente, ove de la virtú de li omini si fa prova; però a me, il qual reputano virtuoso e de li omini virtuosi pro- tettore, di tali lochi presidente mi fanno, acciò che anco per la mia presenza a la virtú si accendano.
Esopo. In ogni cosa per certo la sapienza de li antiqui risplende, avendo voluto ancor con questi toi templi, che tanti si edificano, dimostrare che la virtú sempre in lochi celebri et eminenti star deve, e a quelli li virtuosi concorrere. Ma se ’l non ti è grave, un’altra cosa mi dichiara, assai maravi- gliosa a chi il misterio de’ toi sacramenti non intende. Perché quando a te fanno sacrifici li omini, tutti li cani cacciano for de la terra?
Ercule. Tu dimandi di cosa, la quale li antiqui romani instituirono pur avendo rispetto a la vera virtú; ma da la mia voluntá trasseno l’origine di tal costume, estimando che la virtú di Ercule, il cui nume nel suo sacrificio è presente, non vo- lesse da sordido animale essere interpellata e turbata. Perché, considerata la condizione de la canina specie, se cane è che lusinghi, che lecchi o altramente blandisca, tal cane servile, inutile e immondo è reputato; se è cane che col latrare e abbaiare rumor faccia, quello molesto e tedioso estimano a la virtú del secreto e del silenzio; se è cane che morda e laceri altrui, come pericoloso e ritroso e di peggior sorte assai lo rifiutano: per ogni rispetto adunque dal mio sacrificio li cani rimovono.
Esopo. Per certo tu mi hai pure, Ercule mio, satisfatto sempre, e oggi molto piú, e non senza ragione, tanto è ce- lebrata la virtú di questo Ercule. Guarda come bene ogni cosa quadra. Io mi tengo beato d’essermi trovato oggi con te: penso che sotto l’esemplo di questi cani tu vogli, Ercule, significare che adulatori, frappatori e detrattori a te non piacciono: onde se la mia compagnia non t’è a noia, io me ne venirò sempre con te. In ogni modo tu ti sei sempre di qualche novo pesce e piacevole dilettato, si come ancor Bacco di Sileno, che mai senza esso andava: a qualche cosa pur mi opererai.
Ercule. Esopo mio, fin eh’ io son con te, mai non mi rin- crescerla la via. Tu sai quel proverbio, che «compagno fa- ceto scusa cavalcatura». Ma di che ridi tu cosí a la grassa?
Esopo. Io tei dirò. Stando io poco inanzi in contesa con quelli portieri, usci fora uno che a la voce e a l’aspetto e fasto suo pareva omo primario e di grande affare. Et en- trando io in ragionamento con lui se per opera sua poteva aver adito al re, lo trovai si vóto di sentimento e di iudizio, che Tassomigliai a quelli istrioni che rappresentano Ercule ne le tragedie, che pareno terribili e robusti con quelle grandi e grosse mazze in mano, e infine sono pieni di stoppa li lor abiti, e le lor mazze di carta e sono vote drento. Or guar- dando questa tua clava, che cosí solida e grave la vedo, me ne son ricordato e mosso a riso.
Ercule. Io ne ho preso anch’io piacere piú volte, quando ho veduto tali spettaculi, ove mi hanno si contraffatto, che’l m’è parso alcuna volta d’esser io; tuttavia, levata la mascara, non riescono a la mostra. Però ben dice il proverbio: «Non tutte le mazze sono di Ercule». Ma-dimmi, come andò quella disputa che giá facesti con quelli fisici, per la quale tanto riso intendo si levò ne le scòle?
Esopo. Voglio dirtelo. Erano in contesa li filosofi di Grecia per non si accordare in trovare li principi e le cause de le cose naturali. Io mi feci inanzi e scopersi il volto a la Ve- ritá, la quale avea menata con me: ove in tanta furia di parole si levorono contra la meschina, che se ’l non fusse stato ch’io subito l’ascosí, l’ariano morta. Onde io dissi loro ch’io sa- peva la conclusione di quello si disputava, narrandoli che Caribdi appresso Sicilia, il qual prima sorbe e poi rutta l’acqua, una volta sorbi li monti, la seconda le isole, a la terza nel ruttare buttò fòra la terra, la qual ora abitiamo. Allora udito questo, tanto riso si levò ne la turba, che fu cosa mirabile, parendo a’ circunstanti che ’l fusse ben fatto, comeché a le gran falsitadi et errori miglior rimedio non sia che porvi al rincontro una espressa e gran busia: come un amico mio greco giá fece, che disse esser giá diventato asino e altre volte con le navi esser stato, e aver visso bon tempo asino quindici giorni nel corpo di un grandissimo pesce.
Ercule. Oh come ben facesti ! Ma ti so ben dire che come entriamo ne la regai corte, bisogna che di simili rimedi ti apparecchi, perché qui fanno de le orecchie come si fa dei vasi rotti e vecchi, ne li quali tutte le cose ci si mettono, eccetto quelle che necessarie sono. Onde bisogna che tu ti armi o che tu stia tacito e paziente.
Esopo. Io farò l’uno e l’altro che ne tocchi a me. Una volta andò al mercato un cuoco e molti dinari spese in busie di piú sorte, e con spezie, zuccaro e agresto e altri condi- menti le mise al foco per farne una vivanda al patrone. Quando le vòlse portare in tavola, minestrò fumo. Èrcole. Ah ah ah, tu mi fai schioppar di riso! Io ti voglio basare, Esopo: non potria dire il diletto ch’io prendo di questo tuo parlare. Io delibero che non ti parti mai da me. Non ti dar pensiero, ch’io non sappia trarre il pignòlo di questa pigna. Ma ecco che siamo a la corte del re. Metti il destro piede inanzi e recomandati a Primigenia.
Esopo. Io mi recomando a te, Ercule, sotto tutela del quale io vengo. Questa Primigenia io non la conobbi mai.
Ercule. Ella è dea piú potente di me: e però se tu con lei per tua bona sorte non sei ben d’accordo, ancor che tu sia bon sodale e compagno, e ogni cosa per chi tu ami prontamente facci, dubito non perdi l’olio.
Esopo. Vogli pur tu, Ercule: io non ho paura di femine, nondimeno ricordami e insegnami. Ecci via alcuna di voti et orazioni a fletter questa dea? Con che animali e con quali vittime la potrei io placare?
Ercule. Con le pazienze e con le speranze.
Esopo. Oh oh, strani animali! Di questi io ne ho un ar- mento grande, da poter supplire a li sacrifici di mille anni. Lassa fare a me, ch’io ne farò fumar li altari! Ma vedi, Ercule, non mi lassar tu; io voglio sempre esser con te. In- tromettimi pure al re, ché non dubito punto che migliore mi trovará che ne la ciera forse non monstro. Ma ecco ch’io vedo quel portiere, che si importunamente fòra mi spinse.
Ercule. Che fa il re, o Blacico? Seria tempo di salutarlo?
Blacico. Io non so. Questa mattina tempestivamente ri- vide le sue munizioni e li tormenti e machine belliche di bronzo, le quali con summa diligenza e perizia in molta copia ha fatto fabbricare; e ora passeggiando con dui soi cortesani ragiona, Plauto da Sarsina e Luciano da Patrasso.
Esopo. Oh candidissimi omini ! Oh suavissimi compagni ! Oh dottissimi amici! Per certo la peregrinezza de l’animo, de l’ingegno e de’costumi di questo re, da la condizione di quelli con che conversa facilmente si conosce. Ora spero che ogni cosa anderá bene.
Ercule. E chi son costoro che ti hanno fatto trarre un salto di allegrezza, che pare che tu non possi stare ne la pelle?
Esopo. Tu mi dimandi chi sono? Sono omini d’ogni mano, dotti, acuti, umani, faceti, pronti, eleganti, destri et esperti, che con tanta dolcezza dimostrano le condizioni de la vita umana e insegnano costumi e virtú, che chi con loro pratica, pare a pena che mal omo possa essere.
Ercule. Giá è bene il re di simil sorte et è umanissimo sopra tutto, e tale, che umanamente e in sé e in altri ogni umano atto e passione comporta, e solido piacere si piglia de le cose, ne le quali la vivacitá de l’ingegno riluce: e la sua pratica so certo ti piacerá.
Esopo. Tu mi dici bone novelle per certo. Andiamo dun- que dentro, eh’ io lo voglio presentare e voglio che al tutto a l’intimo mi conosca.
Plauto. Ecco Ercule con quella sua augusta presenza. Degna cosa è che l’adoriamo.
Luciano. Tu parli bene. Parmi comprendere che con lui sia Esopo nostro, e porta qualche cosa sotto. Come Ercule sia posto col re, andiamogli incontra e riceviamolo.
Ercule. Fatti inanzi, Esopo, parla ora al re e di’ ciò che tu vói.
Esopo. Le api, non solo da viole, meliloto e timo, ma ancor da spine e da cepolle e cardi la piú suave e miglior parte coglieno e servano, la qual poi da li omini per cibo e medicina si adopera. E tu, o re, questi mei novi frutti per un saggio di essi piglia, e con quello divino tuo iudizio, quale ciascun predica, a quello li adopera a che meglio ti servino, e loro e me nel tuo contubernio prego che accetti.
Re. Novi frutti veramente sono questi, e vago colore e suave odore hanno! Ma dimmi il lor nome e dove nascono e come.
Esopo. Si chiamano apologi. Nascono ne l’orto mio: io li semino, e coltivando li conduco a questo frutto che vedi.
Re. Vorrò intenderne il tutto; ma prima voglio il tuo nome e la tua patria e professione sapere, benché io comprenda che ortolano tu sei.
Esopo. Di me, Signore, non me, ma questi toi dimanda, che con me longa pratica hanno avuta.
Plauto. Ortolano non è costui, Signore, sebben semina apologi ; anzi è professore di studio di sapienza, né è stato alcun si gran filosofo che non abbia voluto sua amicizia e di questi soi frutti non abbia voluntieri adoperato. E io, e Luciano qui insieme con me (benché in altro abito) abbiamo le sue vestigie seguitato, come pò ancor lui testificare.
Luciano. Il nome di costui, o re, chiamano Esopo, nato in un casale di Frigia, che si nomina Ammonio: et è filosofo, ma non come li altri che con sillogismi e longhe narrazioni e difficili mostrano a li omini la via de la virtú, facendo oscuro quel che molto chiaro esser doverla, e non facendo però con le opere quello che con la lingua insegnano. Ma ha trovato una nova via breve et espedita, per la quale pigliando ar- gumento di cose umili e naturali, con dolci esempli dimostra quello che a li omini sia utile. E Plauto e io soi amici e compagni de la medesima setta siamo, e confortiamoti accet- tare questi soi doni, e ne la tua famiglia accettar lui.
Re. Mi piace aver inteso. Ma dimmi, Esopo: ne hai tu piú di questi frutti?
Esopo. Io ne ho seminati tanti a tuo nome, o re, che cento te ne potrò donare in breve tempo. E con tale artificio ho adattato la semente e il terreno, che in tutti, maturi che saranno, rilucerá il tuo nome, come nel scudo di Minerva il nome di Fidia: il quale in tal modo intermesso era, che chi tutto il scudo giusto dissoluto non avesse, non aria potuto il nome di Fidia cavarne. E saranno invitati li prudenti per la lor vaghezza a gustarli.
Re. Io ti ringrazio, Esopo, e piacerai quello che di tua condizione questi mei Plauto e Luciano testificano. Tuttavolta ti prego non l’aver per male, se nel dimandarti curioso troppo 10 ti paressi, e se non cosí presto a dir mia intenzione con te discendo; perché la tua presenza ad ogni puro fisionomo pare che indicar voglia che i toi costumi alquanto altieri e intrattabili siano.
Esopo. La volpe una volta, o re, col pardo in iudicio contendeva, affermando che piú variata assai era di lui. De la qual cosa maravigliandosi li circunstanti e il magistrato in- sieme, perché la varietá del pardo da la sua pelle manifesta appariva, la volpe al iudice ricordò che drento mirasse, non la pelle di fora guardasse.
Re. Per Giove, costui si sente!
Plauto. Anche il mio Mercurio, o re, Sosia pareva, e non era giá Sosia. Però seria ben stato (secondo Socrate) che 11 omini per natura avuto avessino una fenestrella nel petto, per la quale potuto avessino, ai bisogni, ne l’intrinseco ancora esser veduti.
Re. Poi che questo non si pò, tentiamo adunque la sa- pienza sua con qualche dimanda, come soleano giá fare in- sieme li savi signori indiani con quelli savi re de li egizi. Dimmi, Esopo, e in una parola a le mie dimande rispondi. Qual’è quella cosa che sopra tutte le altre è fortissima?
Esopo. La necessitá.
Re. Non dice mal per certo.
Plauto. E io credo che cosí sia, perché la necessitá mai non fu vinta, né anche da li figlioli di Giove.
Re. Mo dimmi ancora, qual’è quella cosa che ad eccitar li ingegni è potentissima?
Esopo. 11 favore.
Luciano. Piú vera cosa dir non potria, e certo cosí deve essere, perché il favore, non che altro, ma fa che li omini mortali sono chiamati dèi.
Re. Di una terza adunque interrogarti pur voglio. Quale è quella cosa che è piú che l’altre efficacissima a far che la fatica non incresca?
Esopo. Il guadagno. P. Collknuccio, Opere - n. 7
Luciano. Non ti dissi io, o re, costui esser filosofo? A me par certo che meglio non aria potuto l’oracolo delfico rispondere, perché vedemo tutte le fatiche umane per il gua- dagno farsi, e l’orno naturalmente sempre a lo acquistare essere inclinato.
Re. Saporito omo per certo è costui. Come in poche parole le nostre questioni ha risoluto! Una cosa resta mi di- chiari: a che sono boni e come si usano questi toi frutti apologi che mi hai donato?
Esopo. Tu, Signore, e con la scorza e senza, a tuo modo e in ogni tempo usar li pòi, ché per naturai dote e longa esperienza sei di ogni parte sano. E però quanto per te sia, ad altro non bisogna ti giovino, salvo che la sanitá con suave gusto e solido piacere ti conserveranno. Ma li toi familiari e ministri, che tanta esperienza e dono dal ciel non hanno, ad altro usare non li deveno né possono, che a purgare e a brunire li loro specchi, li quali netti e bruniti che siano, per- spicuamente vederanno quelli dui «V V», li quali tu ora possiedi: e allora essendo, come tu ora, sanati, ne potranno con.voluttá gustare e l’acquistata sanitá mantenere.
Re. Questa non è favola, Esopo, di castagna o di volpe. Chiaramente consento che tu hai sentimento di savio, e ora questi tuoi apologi accetto di bon core e affermo che piu util frutto universalmente non si usa.
Luciano. Io, o re, con molti savi ho praticato, in tanto che una volta io ne vendetti una mandria per pochi denari, e ho veduto assai del mondo e insino con Caronte, infernal dio, ho giá avuto commercio, e s’io dicessi con Giove ancora, non mentiria; et èrami bastato l’animo (come tu sai) fare de la mosca un elefante. Ma questa risposta di Esopo confesso che interpretar non la sapria.
Plauto. Il simile dico io. Ho parlato con Giove e con Mercurio, e holli avuti in casa, e ho fatto discendere da cielo in terra Arcturo, che mai piú né prima né poi dal ciel si mosse, e ho praticato tutte le sorte de li omini: e questa risposta l’animo non mi basta di intenderla. Dichiarala tu, Esopo, ché te ne pregamo.
Esopo. Voi sapete mio costume non essere a le mie pro- prie sentenze far commento. Dicalo il re, il qual solo chia- mar si pò vero filosofo, perché non solo intende le cose de’ filosofi, ma tenendo vita da vero filosofo, dá materia di scri- vere a li filosofi.
Luciano. E noi ancora (quando a lui piaccia) piú volun- tieri intenderemo il re parlare; perché a lui solo quella sin- gular laude veramente in questa nostra etade conviene, la quale ad Epaminonda tebano détte Pindaro, quando disse che omo non conoscea che piú sapesse e manco parlasse di lui. Però la interpretazione di tal risposta per Ercule ti pre- gamo, o re, che tu vogli esplicare.
Re. Poi che cosí vedo piacervi, e io contento sono quello che del dono e de la risposta di Esopo io senta, brevemente narrarvi. L’anima umana, quando in questa mortai spoglia dal dator sommo de le forme si infonde, quasi come luci- dissimo specchio ne viene atta a rappresentare le specie e imagini di tutte quelle cose che a lei si presentano, e due principali potenze con sé mena e ritiene, cioè intelletto e ap- petito, che di tutti li atti e operazioni umane sono principi. Ma subito che quella è infusa, per iniqua sorte de l’orno la ignoranza prima, poi la cupiditá quasi in un momento con lei insieme ne Pomo entrano, e in modo la luce di quel specchio, macchiando et infuscando, adombrano, che a l’in- telletto l’errore e a l’appetito il vizio direttamente si oppon- gono; donde tutti li mali e le calamitadi umane derivano. Il perché li miseri mortali ciechi e dubiosi sempre et erumnosi ne vanno, né prima di tal difetti si solvono, che la commune soluzione de l’anima dal corpo, chiamata morte, quasi inopi- natamente li estingua. E si come rarissimi, cosí veramente ben fortunati son quelli, a chi per divin dono purgar di quelle nebbie e macchie il suo specchio è concesso: il che allora perfettamente esser fatto dir si pò, quando li soi oppositi, cioè la veritá invece de l’errore, e la virtude in loco del vizio sono introdutte; pel quale effetto le discipline, le arti, le dot- trine, le scienze, li precetti, le leggi, li magistrati, li iudici, le monizioni, le pene e tante cose publiche e private indutte sono. Quelli omini adunque, che a la commune utilitá de la vita si sono dilettati in qualche modo giovare, qual per un sentiero, qual per un altro sforzati si sono persuadere e mostrare il modo onde da tali mancamenti retrarsi; ma come ardua e diffidi cosa, si per sua natura come anco per indisposizione de le umane menti, la piú parte de li mortali a’ lor precetti renitenti e contumaci esser si vedeno. Il che vedendo il nostro Esopo, una facile, dolce e naturai via, si come l’asprezza de la medicina con la dolcezza del mèle si tempra, par che trovato abbia di questi suavissimi soi frutti apologi: che con umili modi di veri esempli ad esser gustati invitano, e poi teneramente inducono chi lor gusta a purgare e polire li lor specchi e al primo suo splendore ridurli; acciò che purificati quelli le vere imagini referendo, quelle due antiquissime sorelle Virtú e Veritá, le quali esso per li dui «V V» designar volle, ne l’anima si presentino e cosí al suo principio felicemente la rendino.
. O re degno di eterna memoria, o veramente fecondo, o fortunato ingegno! Veramente se io avessi avuto nel petto quella fenestrella che poco inanzi Plauto diceva, e tu m’avessi di drento mirato, non so se meglio aresti potuto il mio concetto risolvere. Onde quanto piú posso, Ercule, ti ringrazio che a le mani di tal re m’abbi condutto.
Re. Non vana adunque, non lieve cosa li apologi sono, amici mei: il perché laudo che ciascuno, a bon’ora e sin che ha tempo, la sua dispensa di quelli riempia e quelli con diligenza sempre usi e adopri, se mai gustar parte di vera felicitá desidera. Et io, Esopo mio, voglio che da qui inanzi meco domesticamente conversi e a le festive mie cene, le quali ne’ piú secreti lochi solitariamente apparecchio, ancora tu insieme con l’altra ornata compagnia ti ritrovi...