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Ercule. Tu mi fai ridere, Esopo. Sempre con qualche novo motto tu salti di palo in frasca e ancor che adirato tu pari, materia di riso doni ad altrui. Fammi un piacere, tu sai che ti amo: dimmi che hai e donde vieni.

Esopo. Io pensava altrove, però non ti risposi a proposito. Vengo da casa del re e da la corte. Dimandai d’esser intro- messo. Li uscieri con molte contumeliose parole, minacciando di bastone, mi hanno cacciato da la porta, né hanno voluto al re per me fare ambassata.

Ercule. Non ti hanno forse conosciuto, vedendo questo tuo volto che forse indica ad altri quello che tu non sei, e però hanno avuto falso iudicio di te: che se ti avessino co- nosciuto come sei compagnone e festivo, non ti ariano dato repulsa.

Esopo. La castagna una volta si mise in dosso una sua veste orrida, spinosa, spiacevole, coprendosi tutta insino al volto, talché li viandanti non ardivano toccarla, anzi dete- standola la schifavano. Passando per la selva Autunno, la pregò che ’l volto si scoprisse e dicessegli chi ella era. Il che fatto, e la sua grata condizione conosciuta: — Quanto son pazzi li omini — disse Autunno — che da la vista di fora de l’altrui condizione fanno iudicio! —

Ercule. Tu devi essere per certo, Esopo, molto amico di castagne, che si spesso le alleghi! Parla un poco a propo- sito e torna in te. Andasti tu a la corte con lettere di passo e scorta, oppure solo?

Esopo. Andai solo.

Ercole. In mal loco senza presidio ti conducesti ! Almen portato avessi (come dicon che si usa a li re persiani) un qualche dono !

Esopo. Io il portava, e hollo qui sotto il mantello. Ma diceano quelli portinari che erano incanti e venefici, coman- dandomi eh’ io stessi da longe da la porta, se io non volea de le mazzate; né mi giovò giurare per Giove e Alithia che piú suave cosa di questa non si mangiava, ogni volta che de la scorza, che è alquanto amara pure, fussino mondati.