Sotto l'Austria nel Friuli/Mariuccia/IX. Il cannone di Marghera
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IX.
Il cannone di Marghera.
Non era ancora comparsa la primavera, ma già si sentiva diffuso nell’aria, come preludio, quel non so che di voluttuoso, ch’è forse il sospiro della terra innamorata verso il sole che deve farla germogliare e rivestirla d’un magnifico verde, e la signorina aveva ricominciato le sue liete passeggiate in riva al torrente. Spesso le allungava fino a un casale, dove una contadina sua amica allattava l’ultimo bambino dell’Oliva. Quella gita se l’era imposta come un dovere e le era diventata così cara, che soffriva se per caso un giorno n’era impedita. Usciva per solito mattiniera, portando seco qualche regaluccio per la balia, e camminava lesta lesta pensando al suo figlioccio, ch’ella ogni giorno vedeva crescere e farsi più grazioso, e anelava il momento di scoprire su quella faccina infantile la scintilla dell’intelligenza. Oh, sì, doveva presto comparire il raggio dell’anima in quei cari occhietti azzurri! E chi sa che il loro primo sorriso non fosse per lei! Chi sa che un giorno essi, dopo averla riconosciuta, non le ricambiassero l’amore ond’ella così sovente li contemplava. Più d’una volta ella si era dilettata a spiare il bottone della rosa, per cogliere l’istante in che esalava il suo primo profumo; ma sorprendere il primo lampo d’affetto nella creatura umana doveva essere assai più dolce. Assorta in codesti pensieri, i suoi occhi vagavano lieti sulla magnifica scena che, così camminando, le offriva il paese. Ivi il torrente scorre attraverso la vasta pianura, e la nuova e l’antica capitale del Friuli, l’una dirimpetto all’altra, campeggiano là sull’orizzonte a destra. Udine, vista da quel punto, appare maestosamente assisa a’ piedi delle Alpi col suo bel castello che guarda l’Italia. In fondo alla pingue campagna, che si stende fino al mare, si alza il campanile d’Aquileja, con la sua bruna guglia che sembra una piramide destinata a sfidar l’ira dei secoli. Le ridenti praterie della sinistra paiono distendersi fino alle colline che da Budrio vanno a Rosazzo; e la quantità di piccoli paesi seminati alle loro falde e le allegre casine campestri e i cipressi che qua e là ne incoronano le cime, dànno un aspetto pittoresco a quel lembo di paese, che lì, tutto ad un tratto, si spiega dinanzi allo sguardo del viaggiatore. Spesso nel tornarsene a casa ella si fermava in quel punto e con grande diletto vagava con lo sguardo innamorato ora per l’infinito spazio de’ cieli, ora per il bel panorama che le stava dinanzi. Una gioia segreta le balenava talvolta negli occhi, come se nel fondo del suo cuore si ridestasse qualche grande speranza che gli uomini e gli eventi avessero indarno tentato rapirlo. Allora la sua fisononia assumeva un’espressione di tanta felicità, che pareva inspirata. Ma ciò che lo innalzava l’animo non era nè lo spettacolo delle Alpi gigantesche che le si distendevano dinanzi a guisa d’anfiteatro, nè l’amena pianura già imbalsamata dai primi profumi primaverili, nè l’immensità e la purezza del cielo, e nemmeno il pensiero della gentile creaturina ch’ella era stata allora allora a visitare. Per quanto soave fosse la commozione che tutti questi oggetti le procuravano, v’era qualcosa di più profondo e di più sublime che la scuoteva come scintilla elettrica, mettendole nell’anima il sussulto della vita e negli occhi il fuoco e il brio della giovinezza: era il cannone di Venezia! Sì, il cannone di Venezia di cui udiva di tratto in tratto il forte rimbombo che si perdeva poi lontano negli echi dei monti. Il rimbombo del cannone, che tante volte l’aveva turbata e offesa nei miti sentimenti dell’anima sua, ora l’entusiasmava e la riempiva di gioia ineffabile. In quella sua volontaria solitudine, poco o nulla ella sapeva degli avvenimenti politici e guerreschi, ma il cannone l’avvertiva che Venezia viveva tuttora e che le sorti della sua patria non erano peranco decise. Invano le avevano insegnato a riguardar come un delitto la rivoluzione italiana! Ad onta di tutti i ragionamenti che le avevano fatti, ella sentiva nel suo cuore che là era raccolta tutta l’energia della sua nazione e pregava perchè potesse resistere e trionfare della prepotenza e delle tante armi che la circuivano. Era questione di vita o di morte; e da lontano era tutta l’anima sua che lottava anch’ella contro il nemico, e si sentiva fluire nel sangue quello stesso ardore che faceva prodi le scarse legioni che difendevano Marghera e la tanto contrastata Piazza del Ponte.
La stagione avanzava; i monti s’erano ormai vestiti di verde, infoltivano gli alberi, la terra si copriva di fiori, ed ella continuava ogni giorno ad uscire all’aperto, avida di quel cannoneggiamento, come di una musica che le mettesse nell’anima l’entusiasmo; e nei giorni che quello taceva, essa si sentiva malinconica ed ammalata, come se le mancasse la sorgente che alimentava la sua vita.
Un dì d’agosto, invitata dalla dolce frescura che sul tramontare del sole dalle acque del torrente si diffonde e porta refrigerio alla campagna, ella si recò, passeggiando tutta sola, fino alla chiesetta campestre che dicono la Madonna di Strada. Da alcuni giorni non s’udiva il cannone, ed ella seduta sul muricciolo presso il cimitero, a’ piedi di un cipresso, mesta e pensierosa tendeva con ansia l’orecchio verso la lontana laguna. Alcune nubi oscure a guisa di panno funebre velavano l’occaso, e dietro ad esse come macchia di sangue calava malinconico e senza raggi il sole, sicché la campagna giaceva in profondo e mesto silenzio. Stava ella in ascolto, sforzandosi di aguzzare ma invano l’udito, quando la scosse il salmeggiare di alcune voci monotone che si facevano sempre più vicine, e osservando, vide luccicare tra il verde degli alberi alcuni lumi, poi una croce: era un trasporto funebre che veniva alla sua volta. Ma in quel momento l’idea di un cadavere e la triste cerimonia che si andava compiendo erano così in armonia con lo stato dell’animo suo, che senza avvedersene unì la sua voce a quella dei sacerdoti, e pregò con loro requie e luce perpetua per lo sconosciuto che all’ombra di quella devota chiesetta veniva a dormire il sonno eterno. Il funebre corteo s’era arrestato, aveva deposto la bara sul limitare del cimitero, e i sacerdoti attendevano in lugubre silenzio. Quella chiesetta era stata in antico eretta alla Vergine di comune accordo da due villaggi, che formavano una sola parrocchia, e avevano consacrato ai loro defunti il praticello che la circondava. Caduta la Repubblica Veneta, la spada dei vincitori segnò a capriccio un confine politico che squarciò quel luogo in due diverse province, ma il cimitero di Madonna di Strada era per altro rimasto promiscuo, e Veneti ed Illirici, riuniti almeno dalla morte, vi dormivano indistintamente, e confondevano insieme le loro ossa in quella terra consacrata dalla pietà dei loro padri. Quel solo villaggio italiano era obbligato per la tumulazione dei suoi morti ad aspettare che venisse un sacerdote dall’Illirico, e perciò avevano ora deposto quel cadavere presso il muricciolo del cimitero ed aspettavano.
Nel tornarsene a casa la signorina pensava addolorata alle tante divisioni che laceravano la sua povera patria. La malinconia dell’ora, l’ostinato silenzio di Venezia, un presentimento funesto che ella si sentiva nel cuore e quel morto sconosciuto, avevano potentemente agito sulla sua immaginazione, di modo che in quella sera, taciturna e scoraggiata, si ritirò affranta nella sua camera prima del solito, e appoggiata coi gomiti alla finestra che guardava verso Mezzogiorno, si détte a contemplare, e ben presto trovò in quella contemplazione sollievo. Intanto era sorta la luna a illuminare la pianura che si confondeva col cielo, senza che l’occhio arrivasse a discernere i confini. Da quella parte era l’Italia! Il pensiero gliela rappresentava tutta intera nella sua forma geografica, tra i due mari e coll’estrema isola vòlta verso l’Africa vicina.... Oh! se l’alito di Dio la rianimasse e riunisse in un solo pensiero di libertà e d’indipendenza i ventiquattro milioni della sua popolazione!... E pregò perchè il Signore fosse santificato, e venisse sulla terra il regno della sua divina giustizia. Poi si coricò e dopo qualche tempo si addormentò; ma ebbe agitato il sonno, e sognò di essere vestita a lutto come quando le era mancata la madre, e che un velo nero le coprisse la fronte e discendesse ai piedi. Le pareva di essere seduta, come al solito, in riva al torrente, ma quelle acque aveano cangiato colore: erano fosche e scorrevano in tanta copia, ch’ella pensò si fosse tutto ad un tratto liquefatta la neve dei monti.
Guardò; ma i monti erano spariti, e al loro posto s’allargava una campagna senza limiti, il cui lontano orizzonte si perdeva nella nebbia. Allora non riconosceva quel punto: le pareva d’essere trasportata in un deserto, dove a confine del creato scorresse quel volume di acque nerastre. Guardava atterrita intorno e non scorgeva che ghiacciaie interminabili, terra arida, campagne desolate. Solo dalla parte di Mezzogiorno vedeva in lontananza una specie di giardino i cui alberi fioriti mostravano i più vaghi colori; ma ecco levarsi un vento impetuoso e agitare quegli alberi e giungere fino a lei a scomporle i capelli, a sbatterle le vesti. E quella bufera andava sempre aumentando: fasci di fiori schiantati, avvolti in turbini di sabbia, venivano spinti verso la corrente del nero fiume. Il rùgghio della procella era divenuto tremendo; pareva il tonare d’innumerevoli artiglierie; pareva il grido d’infinite migliaia di morenti. Il giardino era devastato, gli alberi a guisa di scheletri torcevano le braccia denudate, il fiume era tutto coperto delle loro spoglie. Come quando fiocca la neve, o quando in primavera si sciamano le api, così spesse e agglomerate in vortici di sabbia passavano all’altra sponda; passavano continuamente e sempre più a lei dappresso, e il sibilo che mettevano pareva un lamento d’infinite voci umane. Allora il sogno le si cangiò in tremenda visione. Que’ globi oscuri, quelle nubi travolte dalla bufera che incessanti valicavano il nero fiume erano turbe di anime; erano i morti per la Patria ch’ella vedeva passare all’altra vita. Una processione di venerandi vegliardi con le braccia incrociate sul petto:
— Noi — le dicevano — noi le viventi barricate di Palermo! Noi lo scudo dei combattenti per la libertà.... Oh, prega, prega per il nostro povero paese! —
— Noi i traditi a Curtatone.... Noi gli abbandonati sulla Piave....
— Noi i venduti a Milano!... — gridavano altre legioni. — Siamo morti contenti per l’Italia! Una speranza ci ha rallegrato gli spasimi dell’agonia.... Oh prega che il nostro sangue non sia sprecato! —
E sacerdoti avvinti di catene, sacerdoti col crocifisso nella destra, sacerdoti con la spada al fianco le dicevano:
— O giovinetta, siamo morti in difesa del nostro gregge; siamo morti a’ piedi dei profanati altari. Ma Dio è giusto! Prega che venga il suo regno! —
Poi fra una turba di guerrieri tutti coperti di sangue, ella vide una donna di maestoso aspetto, ma di straniera fisonomia. Aveva le chiome bruttate di fango, le vesti sbranate, scalzi e insanguinati i piedi gentili. Nel passarle dappresso le stese una mano bianca come neve, e portava in dito l’anello nuziale. Parve alla dormente di sentirsi incoraggiata da quel gesto amichevole e che le domandasse:
— O chi se’ tu che così dividi le lagrime e il sangue dei miei? Dove andate, o difensori della nostra causa? Qual destino è riserbato a questa povera Italia? —
La donna non rispose a queste domande, ma le disse versando un torrente di lacrime:
— Fuggi da questo mondo perverso! Ritirati in un monastero; consacra al Signore i tuoi giovani anni, e impetra da lui sorte migliore agli orfani figli miei ch’io lascio alla tua patria!—
Udì allora un fragore tremendo come di mina che scoppiasse, e vide uno spirito fiero con la fiaccola accesa nelle mani passare nell’aria a guisa di angelo sterminatore. Le schiere dei morti cantavano un inno e benedivano la generosa Ungheria. Altre legioni affrettavano intanto il cammino verso il fiume. Erano giovani di tutte le diverse regioni italiane, dal lombardo serio e risoluto all’adusto e vivace siciliano, e avevano i corpi offesi da recenti ferite che sanguinavano. Erano taciturni, tristi, macilenti; taluni piangevano, altri in atto di cruccio e di dispetto volgevansi a guardare dietro, come se più della morte li crucciasse il pensiero della vittoria nemica. Uno di essi le si fermò dinanzi e la fissava come se l’avesse ravvisata. Era la stessa faccia pallida del ribelle da lei veduto un giorno a Gorizia, e che tante volte di poi ella aveva mestamente ripensata, ma oh quanto diversa! In quel giorno, a Gorizia, il suo sguardo ardeva di speranza ineffabile, ora invece que’ grandi occhi neri la fissavano muti, in un’espressione di dolore che non avrà mai conforto. Una ferita profonda gli solcava la fronte; un’altra orribile gli squarciava il fianco. E le pareva sognando che commossa a quella vista pietosa, esclamasse protendendo le braccia verso il giovane in un impeto d’affetto:
— Cara, desiderata immagine che hai spesso consolato la mia solitudine, perchè mi torni adesso innanzi così mesta? Dove sono le gioie che in mezzo ai vilipendj di quella infame giornata mi prometteva il tuo divino sorriso?
— Addio, sorella! — le diceva il giovane. — Questa che vedi è forma vuota, nè io posso stringerti la mano pietosa che tu mi porgi.... Tutto è finito! L’ultimo baluardo della nostra indipendenza è già in mano al nemico. Venezia è caduta! Se un disperato valore avesse potuto risparmiarle l’estremo fato, questi che son qui meco l’avrebbero salvata. Ma diversamente decretava Iddio.... forse perchè l’Italia non ha ancora espiate tutte le sue colpe. Ma se a noi non diede la vittoria, diede almeno il coraggio della prova, e sia benedetto il suo santo nome! Ora, quelle sembianze mortali che tu amasti, o sorella, giacciono fra le rovine di Marghera senza sepoltura cristiana, e forse le calpesta il barbaro piede del croato.... Io vado nel seno di Dio! Tu che rimani offri al Signore la tua vergine vita. E prega, prega, o sorella, che la generazione ventura, più di noi fortunata, possa redimere finalmente dallo straniero la nostra povera patria! —
Il dolore che queste parole le arrecarono, fu tanto e così forte, che le ruppe il sonno, e si trovò la faccia veramente bagnata di lacrime.
Appena si fece giorno le portarono una lettera del barone il quale le annunziava che Venezia aveva finalmente capitolato, e accennando all’ordine ristabilito e alla pace che ormai non poteva più essere turbata, esprimeva il desiderio ch’ella ritornasse a Gorizia; anzi, chiudeva la lettera col dirle che fra pochi giorni sarebbe venuto egli stesso a prenderla. Tutto quel dì e buona parte del susseguente ella rimase chiusa nella sua camera. Dopo avere preparato i bauli e messe in ordine le cose sue, si mise a scrivere e scrisse a lungo. Tanto era turbata, che la fattoressa temè si sentisse male e più volte venne a vederla e a domandarle come stava:
— Devo partire, mia cara, — le disse finalmente — ed è questo che mi addolora profondamente. Anzi, guarda, lascio qui alcuni ricordi per i miei buoni amici che non ho cuore di salutare; ma tu lo farai per me, non è vero? — E dicendo così alcune lacrime le irrigarono le guance. — Questi orecchini — soggiunse — sono per la tua Rosina; e questa crocetta la porterai tu per amor mio. — E senza aspettare che la donna ringraziasse, continuò: — All’Oliva, quando sarà di ritorno, dirai che questo è per il suo ultimo bambino, e che voglio gl’insegni a pronunziare il mio nome.... Oh! mi sarebbe stato pur caro il vederlo crescere qui, sotto a’ miei occhi!... Ma il mio destino mi chiama altrove.... Se tu sapessi quanto mi pesa l’abbandonare questa cara villetta!... Mi ci ero proprio affezionata....
— Se ci siete affezionata — disse la fattoressa — vuol dire che ci tornerete presto. —
Ella scosse mestamente il capo.
— Questa lettera la lascerai qui. E affacciatasi alla finestra, stette alcuni minuti a contemplare con tanta malinconia il paese. Poi piangendo abbracciò la Menica, e: — Addio — le disse. — Ti ringrazio del bene che mi hai voluto. Se lo zio verrà a passare i suoi ultimi anni in questa solitudine.... e io non ci sarò.... fa’ tu le mie veci; cioè, cerca di consolare come puoi la sua vecchiaia.... ma non gli parlar mai di me!... —
Poi scese rapidamente le scale, salì in carrozza, e ordinò al cocchiere che prendesse la strada di Palma.