Sotto l'Austria nel Friuli/Mariuccia/VIII. Gusti di campagna
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VIII.
Gusti di campagna.
La signorina Cati cominciava a risentire il benefico influsso dell’aria libera dei campi, ch’ella aveva tanto desiderato. Partito il barone, s’era data a godere pienamente la vita campestre, e avendo rinunziato ad ogni etichetta, pranzava in compagnia della fattoressa e di suo marito. Usciva a far delle lunghe passeggiate con la Rosina loro figlia, una ragazzetta di quindici anni che le si era affezionata come una sorella; vestiva semplicemente, e trovava un gran piacere a conversare così alla buona con le persone della fattoria ed anche con le comari delle vicinanze, facendo uso del suo nativo dialetto che era rimasto nella sua memoria ad onta della straniera educazione, ed ora nel riudirlo e nel tornare a parlarlo le pareva di rivivere gli anni beati della sua infanzia.
Alzarsi a bruzzolo per respirare l’aria balsamica dell’alba e per godere lo spettacolo del sole che sorge; vederlo tramontare assisa in riva al torrente, le cui onde illuminate dagli ultimi raggi le passavano dinanzi tinte d’oro e di porpora; bere gli effluvi dei tanti fiori che in quell’ora malinconica prima di chiudere al riposo le loro vaghe corolle sogliono esalarli più delicati come un addio alla luce moribonda; contemplare nei notturni silenzi l’immenso stellato del cielo e il dolce chiarore argenteo dei raggi lunari, quando si diffondono sulla terra vaporosa, erano le delizie ch’ella preferiva a tutti gli spettacoli che l’arte più raffinata avesse potuto offrirle nella società in cui aveva fino allora vissuto. Ma anche un’altra sorta di piaceri assai più cari al suo cuore ella sapeva procurarsi in quella solitudine. La sua ricca condizione e la liberalità dello zio la ponevano in grado di poter soccorrere molti disgraziati, ed ella, come angiolo consolatore, volava dappertutto dove sapeva di poter tergere una lagrima. In breve si sparse in quei dintorni la fama della sua beneficenza, e fu molto amata, e si acquistò il bel nome di «madre dei poveri».
Un giorno, nell’ora del tramonto, verso la fine d’autunno, ella sedeva, come spesso soleva fare, su una pietra dirimpetto al pozzo col suo cestellino accanto e agucchiava, ricambiando di tratto in tratto gli affettuosi saluti delle contadine che andavano ad attingere l’acqua. Di lì vide aperta la porta della chiesetta che sorgeva in fondo al villaggio e dinanzi a quella molti ragazzi affollati, come se aspettassero qualche novità, e intanto udì questo dialogo tra alcune di quelle donne.
— Che abbiano proprio a battezzarlo nella nostra chiesa?
— Ma sì! Stamani sono state ad avvisarne il curato.... E poi non vedete, laggiù sulla porta il sacrestano che aspetta?
— Mi par grossa che una creatura di quei di là s’abbia da battezzare nella nostra chiesa!
— O bella! Non è nato nel fienile di messer Valentino? Perchè dovrebbero portarlo fuor di paese?
— Vedrete che non lo battezzano, comare; state certa. I ribelli sono tutti dannati, e il nostro curato non vorrà impacciarsi con gente simile!
— Vengono, vengono! — esclamò tutto ad un tratto una giovinetta; e allora tutte quelle donne si dettero a guardare a quella volta con grande curiosità.
— È la levatrice sola.
— Con la creatura.
— Oh, la Menica parla con la levatrice!
— Ella saprà allora com’è questa faccenda! — E tutte si fecero curiose intorno a lei.
— Non possono trovare in tutto il paese chi voglia tenerla a battesimo — disse la Menica. — Si tratta di ribelli, capite! — A queste parole la signorina si alzò dal sedile, e fatto segno alla Menica d’accostarsele, le disse:
— Buona donna, vi prego d’avvisare subito il curato che sarò io la santola di quella povera creatura.
— E s’avviò verso casa.
Di lì a pochi minuti era in chiesa tra una folla di curiosi, e con devoto raccoglimento teneva al sacro fonte la fragile creaturina i cui vagiti prolungati parevano implorare la compassione degli astanti.
Più tardi la signorina si fece accompagnare al fienile di Valentino per salutare la puerpera, e qual non fu la sua sorpresa quando, nella meschina che giaceva su della paglia in quel luogo esposto a tutte le intemperie, ravvisò la poveretta di N***, alla quale pochi mesi prima il barone aveva così crudelmente negata l’elemosina! E anch’ella, la donna, parve l’avesse subito ravvisata, poiché si turbò tutta, e con le mani cercò di nascondersi la faccia fatta di bragia. La signorina le si fece accanto e con voce affettuosa le disse:
— Noi ci siamo vedute un’altra volta e in cattivo momento.... Ora facciamo la pace. Io voglio, per quanto posso, riparare all’offesa di quella brutta sera. E oggi che siamo divenute parenti, e che in qualche maniera sono anch’io la madre della vostra creaturina, voi non potete negare di stringermi la mano in segno di perdono. —
Invece di stringerle la mano, Oliva gliela baciò, e rassicurata da quelle benevoli espressioni, osò pregarla di far sapere a suo marito lo stato miserabile in cui si trovava. Dopo l’incendio egli era entrato a giornata da un falegname. Un contadino dell’Illirico, che possedeva alcuni campi a Jalmicco, aveva più volte tentato di acquistar da lui il fondo della casuccia distrutta, ma essi non avevano voluto acconsentire sperando sempre in qualche risorsa. Finalmente, costretti dal bisogno, vi s’erano rassegnati, e Oliva, lasciati i fanciulli a una sua sorella, s’era avviata per andare a trattare coll’acquirente. Gli stenti, la fatica del camminare e l’afflizione le accelerarono il parto. Sorpresa dalle doglie, aveva dovuto implorare un ricovero per amor di Dio e l’aveva ottenuto in quel fienile; ed ora si consolava nell’idea di poter protrarre ancora quella vendita dolorosa al suo cuore. La signorina le promise di mandar subito a cercare suo marito, e chiamato Valentino, gli ordinò che provvedesse per conto di lei tutto ciò ch’era necessario per la puerpera; poi, la sera, cercò con la fattoressa come alloggiarla. In breve una pulita casetta lì nel villaggio fu allestita, con tutto l’occorrente per lei e pei fanciulli; e quando venne il marito trovò preparata per lui una botteguccia da falegname con tutti gli arnesi necessari. Quei poveretti piangevano di consolazione e di gratitudine, e la signorina era divenuta l’amica dell’Oliva e la seconda madre de’ suoi bambini, le cui innocenti carezze e l’affetto ingenuo la compensavano in gran parte delle molte lagrime ch’ella era destinata a versare.
L’inverno era intanto venuto, e il barone con lettere e visite frequenti sollecitava Cati a tornarsene in città; ma essa a forza di preghiere seppe persuaderlo a lasciarla ancora in quella solitudine per lei piena di attrattive, nonostante i rigori della stagione. Molti poverelli e molti fanciulletti venivano spesso a trovarla, ed ella aveva per tutti qualche regaluccio e una affettuosa parola. Alle giovanette campagnole, che nell’inverno hanno molte ore disponibili, insegnava a ricamarsi il fazzoletto delle feste, a cucir con garbo un grembialino e a talune anche a leggicchiare qualche libretto istruttivo ch’ella prima pazientemente traduceva nella lingua nativa. Talvolta quelle stesse fanciulle venivano a cantarle le villotte del paese, ed ella le ricambiava coll’insegnar loro qualche bella canzoncina italiana, o qualche divota preghiera. Così, sempre beneficando, passò gradevolmente l’inverno, e parve che in grazia di quella vita semplice e di quelle dolci abitudini di campagna, le fosse a poco a poco rifiorita la salute, tanto la sua faccia era divenuta serena e lo sguardo vivido, come animato da una segreta speranza.