Sino al confine/Parte III/Capitolo III
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III.
Con la sua forma nettamente disegnata sopra la linea delle montagne del Marghine, il Monte San Teodoro ricorda il profilo di un montone, adagiato sulle gambe ripiegate, ma con la testa sollevata verso nordovest. Nelle notti stellate, quest’enorme bestia di granito par che voglia divorarsi l’Orsa Maggiore, le cui ruote scintillanti le sfiorano il muso. Gli speculatori le hanno tolto il suo vello di foreste; e d’estate pare non solo tosata ma anche scorticata, tutta d’un giallo sanguigno, a chiazze livide, striata di lunghe file di macchie verdastre e grigie. Soltanto sul collo, fin verso la nuca, un residuo di boschi la copre d’una specie di criniera scura; e in mezzo a questi boschi di lecci la chiesa di San Teodoro appare come una capanna a metà scavata nella roccia, coi muri quasi neri e il tetto coperto di musco. Anche l’interno è nudo, primitivo; ma le pareti intorno all’altare del Santo spariscono sotto un’efflorescenza di strani oggetti votivi: fiori di metallo, anelli dallo grosse pietre gialle e verdi, rosari con croci d’oro stuzzicadenti d’argento che hanno come una forma guerresca, simili a pugnaletti o ricurvi come minuscole scimitarre e adorni di fischietti; bottoni in filigrana, che imitano forme di frutta coniche, gioielli che riproducono, con linee incerte, profili d’animali, di colombe, d’agnelli, di cavalli, tutti infine gli oggetti che un’arte primitiva ha prodotto forse a imitazione dei modelli bisantini.
A questi oggetti di ornamento si mescolano oggetti strani, alcuni macabri. Un contadino ha lasciato il suo pungolo istoriato, un cacciatore il suo fiaschetto di corno rozzamente inciso: una treccia di capelli castanei, ricadente fra due mammelle di cera, rievoca l’immagine melanconica di una fanciulla morta. Vi sono mani, gambe, dita, piedi, nasi di cera, gonfi e gialli come membra di cadaveri. Su un quadretto di latta una madonnina malamente copiata dal Sassoferrato abbassa le grandi palpebre quasi per sfuggire alla macabra visione di quegli oggetti che sembrano disseppelliti da vecchie tombe e ciascuno dei quali rappresenta un dolore. E il piccolo Santo vestito di rosso, coperto di anelli e di collane come un guerriero barbaro, ha nel viso pallido e negli occhi lucenti e immobili un’espressione di noia suprema.
*
Anche il viso di zio Sorighe prendeva spesso quell’espressione. Egli non era nato per far l’eremita: era stato sempre un uomo socievole, allegro, amante della vita; ma il destino, che spesso predilige gli uomini pessimisti e li colma di doni quasi per ricompensarli dell’omaggio che gli rendono con la loro continua paura, aveva sempre perseguitato il vecchio poeta. Egli che amava gli uomini era stato deriso dagli uomini; egli che odiava il lavoro aveva sempre dovuto piegarsi ai lavori più umili e spregevoli. Ed ora, vecchio e malato, viveva come in esilio, condannato ma non vinto, e nella sua solitudine aspettava i giorni della festa come una fanciulla, contando i mesi e le settimane! Il suo più vivo desiderio era di veder gente. Quando i pastori che s’incaricavano di portargli le provviste potevano indugiarsi con lui, egli li interrogava a lungo sugli avvenimenti e le novità del «mondo», interessandosi a persone che non conosceva, curioso e maldicente come una donna. Poi andava a trovarli nei loro ovili, e quando se ne ritornava, sul far della sera, si volgeva indietro, guardava le greggie pascolanti fra le stoppie, e per confortarlo bastava quel segno di vita, quelle grandi macchie grigiastre che si movevano lentamente come nuvole sullo sfondo giallo del pianoro.
Di notte guardava i fuochi delle pianure e delle montagne del Nuorese, punti rossastri che parevano stelle cadute dal firmamento; e pensava che su quelle montagne si stendevano grandi boschi e sorgevano roccie così enormi che le rupi di San Teodoro, in confronto, sembravano ciottoli. Grossi torrenti scaturivano lassù, e v’erano macchie fiorite tutto l’anno, così fragranti che facevano starnutire. Il freddo conservava fresca entro lo grotte, per settimane e mesi, la carne dei porci e dei buoi rubati dai banditi. E questi vivevano lassù come nella loro patria. Durante la bella stagione la natura dolce e selvaggia che lo circondava riusciva a confortarlo: egli non la osservava con occhi di artista, ma la «sentiva» come dovevano sentirla i poeti primitivi legati alla terra da vincoli recenti e da una parentela che mano mano è andata rallentandosi e scomparendo. Era incapace di far male ad un insetto, e quando troncava un ramo grosso gli pareva che l’albero ne soffrisse. Quando non era occupato a ripulir la chiesa o a rattoppare le sue vesti, rileggeva attentamente uno scartafaccio giallo e arricciato come un antico manoscritto, ov’erano raccolte le sue poesie. Egli aveva cantato tutti i più grandi avvenimenti della seconda metà del secolo XIX; aveva composto un inno a Pio IX, uno a Vittorio Emanuele, uno al bandito Giovanni Tolu ed uno a Eleonora d’Arborea; molte laudi in onore dei santi paesani e parodie giocose di laudi sacre. Aveva cantato la bellezza femminile, ma non tutti i suoi versi potevano esser letti e ripetuti dalle fanciulle. In una delle sue ultime poesie raccontava d’esser stato amato da una ricca vedova la cui figlia, morta la madre, lo aveva cacciato via di casa.
Seduto sotto una tettoja che serviva d’ingresso alla sua stanzetta di guardiano, rileggeva ad alta voce i suoi versi, e di tanto in tanto sollevava gli occhi per guardare se veniva qualcuno. Fra una quercia e una roccia, che si spingevano ad arco l’una verso l’altra, si stendeva uno sfondo grandioso e melanconico di paesaggio: il tramonto indorava le roccie, il suolo, le foglie degli alberi, coloriva di lilla e di rosso l’orizzonte, dava l’illusione del mare alla linea cerulea delle montagne lontane. Il suolo coperto di foglie secche pareva sparso di monete d’oro; i giovani elci, nello sfondo del bosco, avevano il verde tenero dogli alberi fruttiferi.
Di notte la luna calava lentamente fra la roccia e la quercia, e spariva rossa come una brage fra la cenere dell’orizzonte. Si udivano le pecore pascolare, l’assiuolo batteva il tempo col suo grido di sentinella melanconica, e talvolta il vento spingeva fin lassù il rintocco delle ore dal villaggio raccolto in una insenatura della montagna. Zio Sorighe, sdraiato su un pagliericcio pieno di felci secche, sollevava la testa per ascoltare. Dai buchi del tetto si vedeva lo scintillìo delle stelle filanti; i sorci, le lucertole, i tarli, le tarantole e i ragni circondavano i sogni del vecchio come quelli di un alcolizzato. Ma egli viveva fraternamente con questo popolo, e non si preoccupava se le lucertole bevevano nella sua brocca e se i ragni tessevano i loro fili tra un pezzo e l’altro del suo pane, se gli passavano sul viso quando dormiva, se si riposavano sui suoi capelli come sopra un cespuglio! Gli altri insetti non lo molestavano perchè la sua pelle oramai era scura e dura come la scorza degli alberi.
Ed egli, addormentandosi, pensava ancora alle sue canzoni, alla festa dell’anno venturo e alla vedova che era stata sul procinto di sposarlo. Se udiva qualche rumore nella sacrestia o nella chiesa non si moveva: per nulla al mondo avrebbe sparato la pistola che gli avevano consegnato per difendersi in caso di assalto ma soffriva di cuore, e alla minima emozione gli pareva che una ruota gli girasse entro il corpo lacerandogli e pestandogli le viscere.
Col sopraggiungere dell’autunno il suo male si acuì. Egli soffriva anche quando tutto era quieto intorno. Diventò melanconico. Lunghi veli di nebbia gli impedivano di vedere i fuochi dei pastori e dei contadini lontani; il tuono rombava, i lampi sventolavano come drappi d’oro fra la nebbia: pareva che la bella stagione se ne andasse sopra un carro pesante, sul quale raccoglieva rumorosamente le sue cose belle, come i festajuoli dopo la festa. Poi tutto fu silenzio. Le foglie non cadevano perchè gli elci le cambiano a primavera, ma diventano scure, e quelle che coprivano il suolo marcivano: tutto era triste. Raccogliendo legna nel bosco egli si spingeva fino alle coste donde si scorgeva il villaggio rossastro come una macchia di ruggine in fondo alla sua conca grigia. Lo stradale si slanciava attraverso la valle e la brughiera desolata come un filo che attaccasse il piccolo paese al resto del mondo. Egli era nato laggiù, ed in una sua canzone si rassomigliava appunto allo stradale, che attraversa «baddes» e «arturas»1 tocca i paesi e non si ferma che in riva al mare.
Una mattina ai primi di novembre, il nuovo vice-parroco del paesetto salì sulla montagna seguito da qualche donnicciola e celebrò messa nella chiesetta. Era magrissimo, ridotto quasi ad uno scheletro, e pareva molto vecchio, con gli occhi cerchiati e il viso divorato dalle passioni; ma si mostrava allegro e rideva continuamente, guardando di qua e di là con irrequietudine nervosa; e dopo aver celebrato la messa con una rapidità che meravigliò zio Sorighe, volle ispezionare le casse dove si conservavano i paramenti e gli oggetti preziosi. La sagrestia comunicava con la stanza del guardiano. Era una cameretta a vôlta, con un finestrino alto munito d’inferriata, sul cui davanzale il vento faceva oscillare un cranio d’uomo giovane dalle mascelle sporgenti e la dentatura intatta. Guardandolo, mentre si spogliava, Priamo aveva l’impressione che quell’avanzo umano vivesse ancora e gli facesse dei cenni. A un tratto si slanciò verso il finestrino, col braccio teso e la mano aperta, ma non riuscì ad afferrare il cranio. Allora si volse irritato verso zio Sorighe, che apriva le casse, e gridò:
— Bisogna levarlo! Sotterrarlo.
Il vecchio guardò il cranio e rispose tranquillamente:
— C’è da quando ero bambino io.
La cassa esalava un odore di canfora che nauseò Priamo: sembrava un odore di cose morte, serbate in qualche sarcofago seppellito fra le roccie come un tesoro preistorico. Il vecchio sollevava i paramenti rossi e dorati che avevano preso il colore delle foglie secche, le tovaglie così gialle che parevano tinte con lo zafferano, i drappi di lana striati di giallo e di nero come pelli di zebre e che servivano da tappeti nei giorni di festa. In fondo, un piatto di metallo scintillò come la luna in fondo a un pozzo.
Zio Sorighe sollevò un cofanetto di asfodelo chiuso con un bottone di giunco e lo aprì: era pieno di collane e di anelli adorni di corniole e di grosse pietre verdi. Priamo guardò il vecchio, che in quell’atto ricordava i gioiellieri fenici offrenti la loro merce alle donne bibliche, e pensò che con la metà di quel tesoro morto egli avrebbe potuto crearsi una vita diversa. Intanto l’altro chiacchierava, socchiudendo maliziosamente un occhio.
— Le piace stare al paese? Che penseranno le devote della città? A creder mio qualcuna, dopo la sua partenza, avrà sputato sangue dal dispiacere.
— Quel drappo ha un buco. Ci son topi, qui?
— Se ci son topi? Vorremmo che altrettanti angeli ci venissero incontro nell’ora della morte nostra! Ma i sorci potranno rosicchiarmi il cuore, prima di penetrare in queste casse.
— Come va la vostra salute?
— Male. Il mio cuore batte come quello di una fanciulla innamorata.
— Andate dal medico.
— Che mi fa il medico? bisognerebbe cambiar aria! Non può cercarmi un altro posto? Mi contenterei anche di un posto di sottoprefetto!
— Sotterrate il cranio! — gli disse Priamo, nell’andarsene. — Guai se quando torno lo trovo ancora sul finestrino.
Ed egli ritornò un mese dopo. Stava molto meglio, si era ingrassato, ma non era allegro come la prima volta. Vedendo il cranio ancora sul finestrino diventò livido per la collera e fece atto di slanciarsi contro il vecchio per bastonarlo.
— Io non lo tocco! — disse il guardiano. — È il cranio di un bandito parricida e chi lo tocca muore entro l’anno di morte violenta. E lei lo sa!
— Ebbene, prendetelo e crepate! — gridò Priamo, e con un bastone fece cadere il cranio, dal quale si staccarono due denti.
— Morrà anche lei!
— Crepiamo pure, ma sotterratelo subito.
Zio Sorighe prese il cranio a malincuore e Priamo raccattò i due denti. Uscirono. Era una splendida giornata d’inverno: le montagne lontane coperte di neve erano così chiare che pareva sorgessero dietro gli alberi dello spiazzo.
Seppellito il cranio ai piedi d’un elce, zio Sorighe tracciò col dito una croce sul terreno umido, e quando si sollevò era pallido in viso, con gli occhi pieni d’angoscia. Aveva paura di morire, e fino all’ultimo giorno dell’anno visse in una crudele ansietà. Di notte non dormiva, e fra lo scroscio continuo del vento gli pareva di udire rumori e fucilate. I ladri venivano, circondavano la chiesa, uccidevano il guardiano e rubavano i tesori del Santo. Ciò non era accaduto mai, ma poteva accadere. Siamo in tempi tristi: i sacerdoti stessi son diventati violenti e sacrileghi.
Zio Sorighe sentiva il suo cuore battere convulso, e si stringeva al petto le chiavi della chiesa e delle casse, ma neppure queste chiavi, spesso richieste dai pastori che le adoperavano come toccasana per il bestiame malato, lenivano il suo dolore. Egli pensava: sono uomo di poca fede! Poi si calmava, usciva nell’atrio, e guardava a lungo la luna che scendeva da nuvola a nuvola come fra le roccie d’una montagna aerea.
L’anno passò e nessuna disgrazia accadde. Egli si rinfrancò.
Una sera il pastore porcaro che aveva il suo ovile all’altra estremità del bosco, gli portò la solita provvista di pane d’orzo e una bisaccia di patate.
— Che nuove al paese? — domandò zio Sorighe.
— Nuove di freddo! Chiudetevi ben dentro nella vostra tana perchè avremo neve per otto giorni!
Cominciò infatti a nevicare, e tutta la montagna si coprì d’un vello candido, come un agnello a primavera. Zio Sorighe, seguendo i consigli del pastore, se ne stava rinchiuso nella sua stanza, in mezzo al fumo che scaturiva dal focolare, scavato nel suolo, come dal buco d’un vulcano: ma una mattina, prima dell’alba, sentì una voce rauca e aspra che lo chiamava.
— Prete Felix — gridò; e non sapeva se rallegrarsi o inquietarsi.
Priamo era livido in volto e aveva gli occhi fissi e lucenti come quelli d’un pazzo. Guardò di qua e di là, come cercando di scorgere gli oggetti attraverso il fumo, e disse, porgendo un involtino al vecchio:
— Indossate il cappotto e partite subito; andrete dai vostri padroni Sulis: oggi alle undici si sposa Gavina. Ora sono le cinque: alle dieci sarete là. Voi le darete questo involtino dicendo che è un vostro regalo: dateglielo che non vi veda lo sposo. Incamminatevi perchè è tardi. Oh, non ascoltate?...
Il vecchio guardava l’involtino e gli pareva di sognare. Non gli dispiaceva di partire, ma gli destava inquietudine lo stato di Priamo.
— Com’è la strada? Come ha fatto a salire, lei? — domandò, nascondendosi l’involtino sotto il giubbone.
— A piedi. La neve è dura, c’è la luna. Camminate, — insistè Priamo, spingendolo. — Se per caso qualcuno vi domanda di me, direte che ho celebrato qui la messa, stamattina. E silenzio sul resto.
Zio Sorighe indossò il cappotto, e mentre Priamo gli andava dietro, ansante, supplichevole e minaccioso nello stesso tempo, egli aprì la bocca per fare una domanda, ma poi non osò.
— Qualunque cosa succeda, — riprese l’altro — non dite mai a nessuno che avete portato un mio regalo alla sposa. Promettetemelo.... giuratemelo, anzi!
Il vecchio incrociò le braccia sul petto in segno di giuramento; e stava per uscire, quando Priamo gli si avvicinò e lo tenne fermo per il braccio.
— Aspettate! Questo per voi.... prendete! Avrete bisogno di qualche cosa, in città. Prendete, vi dico! — urlò, poichè il vecchio respingeva il denaro che egli gli cacciava entro il pugno.
— Così Dio mi assista, io non voglio.... io non voglio....
— Prendete, o vi bastono!
Zio Sorighe prese i denari e uscì: la luna illuminava il bosco e fra le piante e le roccie ondulavano tenui vaporosità grigiastre che parevano emanate dalla neve. Egli fece alcuni passi, tormentato dal presentimento di ciò che doveva succedere: ritornò indietro e vide Priamo che stava già seduto accanto al fuoco, nero tra il fumo e il bagliore della fiamma.
— Ancora qui, ziu Sorighe?
— Vorrei.... Vorrei prendere la pistola....
— Che pistola? Avete una pistola? Avete un porto d’armi? No? E allora andate via, andate all’inferno!
— Egli non sa neppure che c’è la pistola! — pensò il vecchio rassicurato. E partì.
Ritornò la notte seguente, dopo aver fatto, fra andata e ritorno, dieci ore di viaggio. Per arrivar presto non si fermò al villaggio, d’altronde già silenzioso a quell’ora; e quando arrivò gli parve di veder il fumo salire dal tetto del suo rifugio e pensò che Priamo fosse ancora lì: ma un uomo, il pastore porcaro, gli si rizzò davanti, nell’atrio illuminato dalla luna.
— Preparatevi a correre, ziu Sorighe!
— Ho corso abbastanza, oggi! Che c’è?
— Hanno trovato il prete morto, oggi. C’è chi dice che s’è ucciso, ma c’è chi dice che è stato ucciso. Io vi consiglio di correre, zio mio! Su, che fate? Piangete? Piangono le donne, zio mio! In questi casi l’uomo deve correre, non piangere. Meglio fuori che dentro. Voi sapete che quando l’uomo è legato, anche un moscherino può pungerlo.
Zio Sorighe dovette correre. Il giovine porcaro lo condusse nel suo ovile: egli era un buon ragazzo, bello come un Antinoo condannato ad una vita selvaggia; parlava come un vecchio saggio, ma aveva un sacro terrore della «giustizia» e del carcere. Suggestionato da lui, zio Sorighe viveva in ansietà. Al minimo rumor di passi fuggiva fra le roccie come un vecchio cervo, e non s’inquietava troppo per l’assurda accusa, del resto non ancora ben precisata, che lo colpiva, ma aveva paura di morire in carcere, se lo arrestavano. Di notte, mentre stava sdraiato col pastore accanto al fuoco, nella capanna che il vento scuoteva come un ramo, egli recitava i suoi versi o raccontava le sue avventure, e specialmente quella della vedova.
— Non era una bella donna, ma era molto furba! Mi piaceva per la sua astuzia. Senza quell’indiavolata della figlia, che è stata la mia mala fata, a quest’ora io starei coricato in un bel letto, come un vescovo, e a nessuno verrebbe in mente l’idea che io abbia ammazzato un prete!
Il ricordo di Priamo lo addolorava, ed era convinto che con un po’ di buona volontà avrebbe potuto salvare il disgraziato.
Una sera il pastore vide, o credette di vedere due carabinieri in perlustrazione; e al solito zio Sorighe fuggì e s’arrampicò fino alla cima del monte. La notte era chiara e gelida; soffiava un vento furioso e pareva che persino le stelle tremassero dal freddo. A un tratto il vecchio, dopo la salita, fu colto dal suo male; allora si gettò a terra, chiuse gli occhi e sentì che moriva.
Gli sembrò che il rombo del vento che gli soffiava attorno e pareva volesse portarlo via fosse prodotto dal battito del suo cuore. Poi, all’improvviso, il dolore cessò: egli provò una gioia indicibile; s’alzò a sedere, si guardò attorno e sospirò. Alle sue spalle, su una muraglia di roccie, saliva la luna al suo ultimo quarto: ai suoi piedi si sprofondava una china rocciosa in fondo alla quale il bosco stendeva la sua linea nera dentellata; al di là di questa linea una distesa di nebbia azzurra ondulante dava l’illusione del mare. Il rumore del vento sembrava il rombare delle onde agitate. Zio Sorighe volle alzarsi, ma non potè: il vento lo teneva come inchiodato al suolo. Allora egli capì che il suo stato era grave e invocò l’arrivo di qualcuno, fosse pure un carabiniere, che lo portasse via da quel luogo desolato. Nel suo delirio cominciò a parlare in versi al suo invocato protettore.
— E non sei un uomo anche tu? Vieni, vieni: io sono allegro. Io sono innocente come il giorno in cui son nato. Ho fatto male a fuggire; mi pareva d’essere ancora un giovinotto e provavo gusto a scappare; forse volevo provare a me stesso che ero agile ancora! Ora mi accorgo che son vecchio. Eh, è tempo di confessarlo: siamo vecchi! Ne abbiamo fatte delle belle, però! Una volta, alla festa di San Paolo.... c’erano centosettanta bandiere.... e trenta preti. Un uomo portava uno stendardo coi campanelli d’argento... e lo agitava mentre cantava con me.... Ho vinto io! Fratello caro, rassegnati; ho vinto io.... Sedevamo in riva al mare come adesso, ma non faceva tanto freddo.
Ad un tratto gli parve d’essere ancora nella cucina della vedova, sdraiato sulla stuoia. La vecchia filava accanto alla porta; era vestita di nero, con una cuffia di velluto; e le gonne alquanto corte lasciavano vedere le sue gambe grosse e i piedi calzati con scarpette adorne di nappine rosse. Egli fissava il viso di lei, grasso, giallognolo e cascante, la bocca sdegnosa, gli occhietti verdastri maliziosi, e voleva chiamarla con un’espressione tenera e scherzosa, ma non poteva parlare. Mormorava fra sè:
— Lussulja, bianca focaccia mia...
E cando noti ti ido, coro meu, |
Ma a un tratto provò un senso di terrore. Una donna apparve nel vano della porta; era la figlia della vedova, vestita in costume e con la testa fasciata da una cuffietta di broccato. Col piede spingeva un cranio, buttandolo verso la stuoja ove egli giaceva. Il volto, serio e pallido, dai grandi occhi in color della nebbia che riempiva l’orizzonte, era quello di Gavina Sulis!
Egli volle sollevarsi; tese la mano e ripetè, tremando:
Dami sa manu, bellita, bellita;
ma cadde riverso, sotto il vento, con gli occhi spalancati, vitrei come due piccoli specchi entro i quali si rifletteva il paesaggio.
All’alba un avoltoio lento e nerastro come una nuvoletta salì dal bosco, su per il cielo cristallino, e d’un tratto, quasi gli fosse venuto male, precipitò sul cadavere del vecchio.