Signorine povere/Prima parte/VI
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VI.
La comitiva arrivò al fiume presso al ponte Ticino, il grandioso ponte coperto cominciato nel 1351, come dice una lapide posta sul pilastro del terzo arco, e compiuto sotto Galeazzo II Visconti. E lungo più di duecento metri e formato da sei arcate ineguali. Cento colonne di granito sostengono il tetto che lo ricopre da una estremità all’ altra. Maria s’ebbe tutte queste indicazioni dall’avvocato Pagliardi, sempre pronto ad illustrare i monumenti della sua città. Dopo avere ammirato il vecchio ponte, scesero la ripa e Paolo Venturi li fece entrare un momento nel Châlet dei canottieri.
— Si balla in questa bella sala?
— Qualche volta.
— E tutte quelle medaglie e bandiere e coppe e anfore sono i premi vinti dai canottieri, naturalmente?
— Certo, quella bandiera lì, quella col nastro azzurro l’ho vinta io... Oh! ero felice allora, non sognavo altro...
— La barca è pronta — annunziò un canottiere dalla soglia.
— Andiamo.
Una bellissima lancia si cullava presso la sponda. Vi saltarono dentro con esclamazioni di piacere.
Paolo ordinò:
— Salendo contro corrente remeremo tutti e tre. Tu zio, mettiti al timone. Le signorine qui, una per parte. Così.
Il capitano prese il primo posto di rematore di fronte alle due ragazze. Paolo andò all’ultimo: a prua; Bertalli si pose nel mezzo.
I sei remi batterono l’acqua all’unisono. La barca si slanciò come una rondine al volo. Paolo disse all’avvocato:
— Timoniere, tienti presso alla riva dove la corrente è meno forte. Ma non sui sassi, ti raccomando.
I discorsi di occasione si intrecciarono. Isidoro guardava Antonietta in silenzio, senza che gli riuscisse d’incontrare lo sguardo di lei.
Maria pensava:
— Egli l’ama: la desidera con ardore e lei è indifferente. Potrei io rimanere indifferente se fossi nel suo caso? L’amore è così dolce... Io non potrei...
Turbata da questi pensieri, cercava di distrarsi, seguiva lo sguardo di Antonietta sull’acqua limpida, sulle rive basse coperte di verdi prati, con pochi alberi ancora spogli.
Il sole scottava fuor di misura per la stagione e soffi d’aria calda passavano sulla barca che stentava a vincere la corrente. Maria si sentiva oppressa e il lento avanzare della barca e il rumore cadenzato dei remi accrescevano il suo languore.
„Come la guarda, come l’ama!“ le suggeriva l’anima commossa. E i suoi occhi presto sazi della contemplazione del cielo, della terra e dell’acqua tornavano avidi alla contemplazione dell’amore.
La barca si avvicinava al ponte della ferrovia, allorchè il rumore di un treno rimbombò sulle loro teste. I rematori si arrestarono e il gran serpente, scintillante nel sole, passò come una meteora. Maria accompagnò con un sospiro quel fantasma gigantesco che si perdeva nello spazio seco portando per valli e colline, sui ponti aerei, e fin nelle viscere della terra, tante creature a diversi destini.
Fuggire, fuggire! Fuggire?.... Perchè? e dove? Fuggire la vita monotona, uggiosa.... Fuggire se stessa piuttosto. Andare incontro all’ignoto: cercare la felicità... l’amore... Non vi è un angolo felice nel mondo, una plaga benedetta?....
Ella tornò a guardare il capitano. Approfittando di una distrazione del timoniere che si voltava indietro a guardare uno stormo di uccelli, il giovane si era avvicinato all’Antonietta, mormorando parole dolci e misteriose.
— La felicità è dovunque! — pensò Maria. — Ma non è facile coglierla.
— Una rondine! — esclamò l’avvocato.
— Impossibile.
— Eppure...
— T’inganni. È troppo presto.
-— Ecco l’isolotto... I cannonieri stanno esercitandosi. Sono sempre qui a fare i loro esercizi.
— Voltiamo.
— Sì, voltiamo: si va come lumache.
Voltarono e subito l’aria fresca li salutò.
— Bastate voi due per discendere — disse il capitano tirando su i remi. — Ho sudato abbastanza.
Si asciugò la fronte e il collo. Tornarono a passare sotto il ponte della ferrovia.
— Ecco un altro treno. Questo arriva.
— Viene da Genova?
— Sì. E con molti viaggiatori.
— Quelli hanno visto il mare — mormorò Antonietta.
— Lo vedrà anche lei — affermò Isidoro fissandola negli occhi.
Ella scrollò le spalle quasi con disprezzo.
— Cattiva! — sospirò il giovane.
— Guardate la nostra città, guardate Pavia come si vede bene da qui. Ecco la cupola del nostro duomo, ecco il collegio Borromeo... ecco la casa dove ho abitato tanti anni fa. Ti ricordi, Isidoro?
— Sì, zio, mi ricordo; e anche Paolo deve ricordarsene. C’era un bel giardino che noi si devastava regolarmente tutti gli anni, e tu andavi in collera, zio.
Seguitarono ad intrattenersi della città, delle torri, dei palazzi. Intanto si ritrovarono al punto donde erano partiti.
Passarono sotto una delle arcate laterali del grandioso ponte coperto.
— Qui è bello il fiume! — esclamò Maria.
— Occhio al timone.
Dopo il ponte coperto, il fiume largo e maestoso ha dalla parte sinistra le antiche mura della città; a destra, un magnifico viale, ombreggiato da alte piante, e la campagna.
L’avvocato Pagliardi narrava ai giovani suoi compagni i fatti e le cose che i vari punti delle spiagge gli richiamavano alla memoria.
— Il confluente del Naviglio. Ecco. Qui era una volta una specie di darsena limitata da una banchina, per lo scarico delle merci. Quando io ero ragazzo e anche più tardi, venivano qui i mercanti levantini, albanesi e dalmati, al mercato del grano e dei bozzoli, con i loro pittoreschi costumi. Mi par di vederli. Venivano direttamente da Venezia nei battelli a vapore che navigavano i nostri fiumi, ora abbandonati e come morti.
Accennando ad un gruppo d’alberi che segnavano l’antico confine piemontese, Paolo Venturi citò il pittore Massacra che, acceso di passione patriottica, spronava ed aiutava i coscritti dell’Austria a scappare in Piemonte.
Subito mille ricordi si destarono nella mente lucida del Pagliardi. Com’ era suo costume, si mise a parlare di quei tempi avventurosi con abbondanza di particolari. E narrò del Massacra che egli aveva conosciuto, tratteggiando la bella figura dell’eroico artista pavese con entusiasmo giovanile e un po’ di quel lirismo che gli uomini del Quarantotto conservano nei loro cuori, malgrado gli anni e i mutamenti infiniti dell’ambiente.
Le due fanciulle piansero di pietà alla descrizione della morte del giovane eroe nelle braccia della madre.
Il Bertalli trovava invece che i ricordi della rivoluzione tornano funesti ai giovani: che non si doveva glorificare un uomo, il quale aveva incitato i soldati a disertare la bandiera, fosse pure la bandiera d’Austria.
— Paradossi, paradossi — mormorava Paolo Venturi.
La solita disputa politica si accese.
Trovandosi a disagio, tra le sue idee sociali ultra-conservatrici e gli entusiasmi rivoluzionari del Quarantotto sempre presenti al suo spirito, il Pagliardi troncò la disputa dicendo:
— Andiamo a terra, piuttosto, a bere il vin bianco di Tognolo: è più sano.
Tutti risero e la barca poggiò a destra.
Sbarcarono sulla spiaggia erbosa presso a un boschetto.
A poca distanza, su un piccolo rialzo di terreno, una casa con insegna d’osteria sorrideva tra il verde.
Appena furono veduti, un ragazzo arrivò di corsa per aiutarli a legare la barca.
S’incamminarono ciarlando e ridendo. Isidoro offerse il braccio ad Antonietta che era rimasta indietro con Maria.
— Intanto che quelli vanno avanti ad ordinare il vino, facciamo una giratina nel bosco? È assai bello.
— Volentieri — si affrettò a dire Maria per togliere all’Antonietta il tempo di rifiutare. — Mi piacciono tanto gli alberi.
Ella entrò risoluta nel fitto delle piante, precedendo i suoi due compagni di alcuni passi. Provava una gioia intima e un vero benessere fisico al contatto della campagna. L’erba novella, che le pareva di sentir fremere sotto ai suoi piedi, le dava un brivido di piacere, un senso di morbida frescura.
— Avevo bisogno di questa passeggiatina — disse voltandosi un momento e sorridendo all’Antonietta e a Isidoro. Poi subito, staccandosi da loro, quasi dimenticandoli, riprese il suo passo svelto, vigoroso, spingendo lo sguardo fra un tronco e l’altro per contemplare il fiume azzurro pallido, qua e là verdastro: il cielo limpido in alto, burrascoso all’orizzonte: ed i tronchi stessi, i tronchi nudi, con i loro rami disperatamente protesi, o ploranti, o contorti bizzarramente, che il sole investiva facendoli apparire ancora più neri e rugosi. Come creature privilegiate, ricche di bellezza, nella loro veste argentea, i pioppi spiccavano alti e diritti tra quei poveri mutilati.
Un desiderio ardente si faceva strada nell’animo di Maria, un desiderio di vita e di libertà, lungi dalle aride pietre cittadine, per valli e monti, sui laghi, sul mare. Nel medesimo tempo le pareva che una voce le susurrasse: „Anche in città potresti essere felice, anche in città l’amore basterebbe a guarire la tua nostalgia.“
La viottola per la quale camminava ebbe una improvvisa svoltata.
Allora Maria vide Antonietta immobile, rigida, davanti a Isidoro che le parlava con veemenza. Egli era pallido, agitato: gli doveva tremare la voce. Antonietta di tratto in tratto scrollava il capo. Dopo un momento, il capitano stese le braccia per afferrarla, ma prima che l’atto fosse compiuto, la fanciulla gli voltò le spalle e, correndo con grande rapidità, si diè a gridare:
— Maria! Aspettami!
Con un gesto pieno di stizza, Isidoro Arquati si allontanò da un’altra parte e sparì tra le piante.
— Oh Antonietta! Son qui, sono presso a te. Cos’hai?
Commosse, vibranti, le due fanciulle si strinsero in un abbraccio.
— Tu piangi, Antonietta?... Dunque lo ami? E se l’ami, perchè lo respingi?...
Antonietta si sciolse dalle braccia dell’amica; si terse il volto dalle lagrime, scrollando il capo con quel suo gesto abituale di scoramento e di sfiducia.
— Non l’amo — mormorò a denti stretti. — Forse è odio questo sentimento doloroso che mi agita.
— Odio?... Ma perchè?... Egli ti ama tanto. I suoi occhi ti guardano con tanto amore!...
— Non è amore, credi, non è amore. Povera me, se cedessi alle sue istanze... Passato il capriccio, non si curerebbe più di me.
— Oh!... non posso crederlo così perverso.
Antonietta non udì l’esclamazione ottimista di sua cugina; assorta in un pensiero molto triste, teneva gli occhi bassi come guardando in se stessa. Dopo alcuni istanti di silenzio, con voce quasi inintelligibile e arrossendo di collera e di vergogna, soggiunse:
— E ci sono momenti in cui mi sento tanto debole!...
Maria rabbrividì.
— È possibile? — pensò terrorizzata. — Anche questo è possibile?
— Camminiamo — disse Antonietta con uno scatto di voce. — Andiamo fin laggiù dov’è quel cipresso: voglio cercare di rimettermi.
Camminarono a passi rapidi, seguendo ciascuna silenziosamente i propri pensieri.
Avevano oltrepassato il cipresso senza accorgersene, allorchè si sentirono chiamare.
Si voltarono trasalendo.
— Venturi viene in cerca di noi. Andiamogli incontro.
— Finalmente! È un pezzo che le inseguo e che le chiamo. Volevano disertare, o mi avevano preso per un ladro?...
— Scusi, l’abbiamo sentito solo in questo momento.
— Eh, me ne sono accorto. Andavano come il vento... e chissà con quali pensieri!... Laggiù si credeva che fossero in compagnia d’Isidoro. Invece egli protestò di non averle vedute; aveva sete e caldo lui, voleva bere. Così hanno incaricato me di venirle a cercare... il meno adatto dei cavalieri: non è colpa mia.
— Oh, signor Venturi, lei è sempre il più buono e il più cortese — disse Antonietta con profondo accento di verità.
Paolo la guardò di sfuggita e il suo sguardo disse chiaro che aveva compreso la situazione; ma per non metterla in imbarazzo continuò a scherzare.
— Si ricordi che sono anche il più tenero e non mi faccia troppi complimenti. Se il mio cuore si commove, non rispondo di me.
Poi, mutando tono e volgendosi a Maria:
— Dunque! Le piace questo paese?
— Immensamente. Starei molto più volentieri qui che a Milano.
— Oh! s’annoierebbe presto, molto presto. Solitudine e gelo nell’inverno; zanzare e caldo soffocante nell’estate; innondazioni e pioggie continue in primavera e autunno!
— Che orrore! Così ella distrugge i miei sogni.
Lo guardò e rise.
— Come ride bene! Tenga a mente: tutta la poesia del Ticino siamo noi canottieri, pronti a rischiare la nostra vita, come quegli eroi che ella tanto ammira, solo che si presenti l’occasione.
— Ma l’occasione non si presenta: sono cambiati i tempi.
— Chissà. Certi sentimenti si manifestano con gli stessi mezzi anche se derivano da altre cause.
— E lei ci pensa? E un rivoluzionario, lei?
— Non te ne sei ancora accorta? — esclamò Antonietta sorridendo.
In quel momento vedendoli spuntare tra gli alberi, il Pagliardi gridò:
— Finalmente! Vi credevo perduti!
Risposero allegramente e sedettero intorno alla tavola.
Maria guardò il capitano. Le parve triste, mortificato. Ella si chiedeva: „È possibile quello che dice Antonietta? Con quel viso onesto, con quell’espressione di profondo affetto, è possibile che sia un volgare seduttore?“
La conversazione, guidata dall’avvocato Pagliardi, riprese la solita china: i tempi passati, le guerre, le persecuzioni austriache, le emigrazioni.
— Quando ero studente al ginnasio bisognava presentare tutti i mesi il biglietto della comunione, altrimenti erano grossi guai. Cosa direbbero se lo sapessero i nostri studentelli di adesso che si lagnano di non essere abbastanza liberi?...
— E voialtri — osservò Paolo Venturi — presentavate il vostro bravo biglietto tutti i mesi, lo credo; ma non credo che vi foste veramente confessati e comunicati.
— No, veramente, almeno non sempre. La fabbricazione dei biglietti della comunione era diventata un’industria: una tipografia li stampava a centinaia e gli studenti li compravano.
— Sempre così. Il pensiero non si soffoca, la fede non s’impone.
— Un freno però ci vuole.
— Ci siamo! — esclamò il capitano, e cominciò a fischiare un valzer.
— No, no. Si smette.
Non smisero però così presto. A un tratto Paolo Venturi balzò in piedi dicendo:
— Basta per oggi.
E andò al banco a pagare. Pagava volentieri per gli amici e se qualcuno si opponeva, egli ribatteva semplicemente:
— Li ho questi denari, bisogna bene che li spenda.
Andarono verso il fiume. Le due ragazze si tenevano a braccetto. Pagliardi, Bertalli e il capitano le seguivano chiacchierando. Paolo andava avanti solo.
Si era offuscato il cielo; soffiava un vento freddo. Maria notò che il Venturi si voltava di tratto in tratto. Egli seguiva malinconici pensieri. La passione del bel capitano per Antonietta gli era nota e la sapeva sincera; ma sapeva pure che quell’amore non poteva fare la felicità di Antonietta. Un vecchio impegno legava Isidoro ad un’altra donna, una donna che non avrebbe mai rinunziato ai propri diritti: tradita, si sarebbe vendicata. Con fine arte egli aveva istillato nell’animo di Antonietta una invincibile diffidenza. Pur non rivelandole il segreto di Isidoro — un segreto che egli non poteva violare — le aveva fatto comprendere che il capitano non poteva, nè forse voleva sposarla; ed ella aveva perfettamente compreso.
„È forte — pensava ora Paolo con soddisfazione: — non cederà forse mai. Invano Isidoro impiegherà con lei tutte le seduzioni; ella saprà respingerlo. Ma non sarà meno infelice per ciò. La passione è penetrata nel suo cuore, nel suo sangue giovane e ardente. Lo disprezza, forse l’odia; ma che importa? Egli la turba, l’agita, l’accende. Vicina a lui, ella deve sostenere una lotta ben dolorosa per non gittarglisi in braccio.»
Paolo fu tolto alle sue meditazioni da uno scatto di voce dell’avvocato Pagliardi.
— Presto, imbarchiamoci, minaccia di piovere!... Paolo, Isidoro, movetevi. Aiutate le ragazze a scendere nella barca. Sembrate intontiti.
I due giovani si scossero: erano più che intontiti veramente. Paolo si avvicinò all’Antonietta; Isidoro a Maria.
— Pioverà?... Avremo un uragano?...
— No, no: si tranquillizzino.
— Oh, io sarei curiosa di vedere....
— Ma non di assaggiare l’acqua del Ticino, credo.
Maria rise e saltò nella barca.
— Presto. Andiamo diritti allo sbarco.
— Non aver paura, zio, non succederà nulla.
— Spero bene. Ma le donne a casa saranno inquiete: e ho la responsabilità di queste ragazze. Se mio cognato venisse a sapere che si sono bagnate un piede per essere venute in barca con me, chissà che lamentìo.
Il cielo si faceva sempre più nero; in fondo all’orizzonte alcune strisce sanguigne tagliavano sinistramente la densità delle nubi; il fiume gonfio pareva incalzato dalle furie.
— Non è possibile traversare la corrente — disse Paolo Venturi.
— E allora?
— Allora... ritorna a terra e prendi una carrozza.
Paolo voleva che tornassero a terra tutti, bastando egli solo a condurre la barca fino alla darsena; ma il capitano e Bertalli non vollero lasciarlo. Il Pagliardi invece accettò il consiglio. Il calesse dell’oste lo ricondusse a casa con le ragazze.
Rimasti soli nella barca, i tre giovani si misero a remare con tutto il loro vigore.
Il Venturi era contento di quella fatica e del vento che gli diacciava il sudore e delle onde che gli spruzzavano il viso. E mentre il suo corpo si abbandonava alle intemperie, gittando con voluttà, nel faticoso esercizio, l’esuberanza incresciosa delle forze, la sua mente libera tornava al pensiero dominante: a Antonietta Valmeroni, la donna che egli amava in disperato silenzio.
„Come finirà?... Come finirà?“ si chiedeva affannosamente, e un dubbio amaro come un rimorso si svegliava nella sua coscenza. Con quale diritto aveva egli istillato la diffidenza nel cuore di Antonietta?... Per salvarla?... Ah, sì; per salvarla da un amore che difficilmente sarebbe coronato dal matrimonio... Che bella missione si era assunta!... Da quando in qua si occupava egli della vieta morale borghese? Chi l’aveva incaricato di sorvegliare il pudore delle fanciulle?
L’amara ironia che egli rivolgeva contro se stesso rivelava lo strazio del suo cuore. Avrebbe dato metà della sua vita per farsi amare da Antonietta, e nascondeva il suo amore con tutte le forze dell’animo.
A vederlo, a sentirlo discorrere, nessuno avrebbe sospettato in lui la vittima di un amore infelice. La sua grande attività, l’energia, il sorriso leggermente ironico e il sarcasmo bonario, col quale velava per un invincibile pudore le sue idee più generose e la parte più sensibile dell’animo, lo facevano parere poco suscettibile di amare con passione. Nessuno l’aveva visto fare la corte ad una donna. E poi, non era punto bello, quantunque avesse una magnifica fronte e bellissimi occhi. La natura gli aveva negato l’eleganza della persona, l’armonia delle linee, la dolcezza del sorriso, perfino il pallore romantico ed i capelli neri che danno un carattere interessante a tanti visi scorretti.
Era un biondastro, grassoccio, basso di statura. La sua carnagione, in origine troppo delicata, aveva preso al sole quel tono giallo rossastro che sta tanto male ai biondi. Due baffetti di canape lasciavano scoperta una gran bocca, il cui solo vantaggio consisteva in due file di denti sani e bianchi, ma un po’ grossi. Un mento forte, squadrato ed un naso da imperatore romano completavano quel viso pieno di carattere e di vigore, ma non certo tale da cattivarsi le simpatie delle giovinette. Pure in certi momenti, quando parlava ed i suoi occhi scintillavano, poteva sembrare quasi bello. I poeti invidiavano la sua fronte luminosa, ispirata. Guardando quella fronte, e quegli occhi, veniva fatto spontaneamente di chiedersi per quale capriccio la natura avesse guastata un’opera così bene cominciata. Riflettendoci meglio e imparando a conoscere l’uomo, si capiva che egli aveva avuto dalla sorte un unico dono: un cervello possente, un cervello composto della materia più fina, più evoluta. Sviluppandosi, il cervello aveva innalzato così nobilmente la fronte; ed era il fuoco, dell’intelligenza che dava tanto splendore ai grandi occhi pensosi. Si poteva concludere che la sola potenza del cervello aveva salvato Paolo Venturi da una bruttezza ridicola o ripugnante. Dacchè aveva imparato a ragionare, e a valersi della volontà, egli combatteva con tutte le sue forze la funesta pinguedine che minacciava di soffocarlo. Da qui la sua grande passione per tutti gli esercizi dello sport.
Da qui pure l’austera sobrietà del suo modo di vivere. Gli organi inibitori dovevano essere in lui di una forza singolare. Eppure, non aveva saputo inibirsi di amare. Forse era troppo giovane allorchè l’Antonietta, ragazzina di soli quindici anni, apparve la prima volta dinanzi a lui che ne aveva appena venti: nell’ingenuità del suo cuore, nell’inesperienza dell’età, egli sperò che quella giovinetta umile e buona, disposta precocemente alla malinconia, potesse comprenderlo e amarlo. Antonietta gli accordò tutta la sua stima, tutta la sua amicizia, ed egli potè illudersi per qualche tempo.
Allora si diede a studiare la medicina, sperando che la scienza lo aiutasse a combattere la propria bruttezza e consacrò agli esercizi ginnastici tutto il tempo libero che gli lasciava lo studio. Così si preparò almeno due possenti distrazioni per combattere il tedio della vita dopo il disinganno che non tardò ad arrivare. Un giorno — dal quale due anni erano ormai passati — Isidoro Arquati ritornò da una lunga dimora a Costantinopoli, dove il Ministero della guerra l’aveva mandato, e il primo incontro della fanciulla col giovane ufficiale strappò ogni speranza di felicità dall’anima dolorosa di Paolo. Quello non fu per lui uno dei tanti disinganni d’amore, che i giovani dimenticano lungo il cammino della vita, bensì la rivelazione spietata di un destino immutabile. La sua giovine anima vide, esagerandolo nella sua amarezza, l’avvenire che l’aspettava. Nessuna donna l’avrebbe amato e l’amore, la suprema ebbrezza della vita, non sarebbe per lui mai altro che un sogno o una continua delusione. Soffrì orribilmente, ma non accusò nessuno, nè volle pietà, nè compianto da chi che sia. Nessuno sospettò il suo dolore; divenne più ironico, più sarcastico, non meno buono. Il sarcasmo rimase alla superfice, come una difesa morale. Nell’intimo serbò intatta la sua pietà per quelli che soffrono, unita a un culto intangibile della giustizia e ad una straordinaria imparzialità di giudizio. Passato il primo parossismo della disperazione, vinto l’involontario impeto di collera e di sdegno che accompagna ogni delusione, egli si disse che Antonietta aveva agito naturalmente, spontaneamente, senza civetteria, nè malizia, ignorando che egli l’amasse.
Non poteva dunque chiamarla responsabile del male che gli aveva fatto. Doveva invece restarle amico e proteggerla, aiutarla: se Isidoro era sincero nel suo amore, doveva adoprarsi perchè si sposassero.
Egli era in tale disposizione d’animo, allorchè un caso fortuito gli fece conoscere una donna che si faceva chiamare la signora Arquati. Ciò accadeva a Firenze, dove egli si era recato per una regata sull’Arno. Cercò informazioni sulla vita e la posizione sociale di quella signora e seppe positivamente che era l’amante d’Isidoro, il quale la trattava da moglie e come tale la presentava agli amici. Andò a trovarla francamente come cugino d’Isidoro.
La giovine lo accolse bene; gli confessò che era stata a Costantinopoli col capitano, ma che egli non l’aveva sposata, neppure in chiesa, quantunque glielo promettesse sempre.
Temeva che a Pavia avesse qualche distrazione; si sentiva un po’ trascurata; sarebbe andata così volentieri a sorprenderlo... Ma non osava; Isidoro le aveva fatto giurare che a Pavia non sarebbe apparsa mai, qualunque cosa accadesse.
Interrogata da Paolo se aveva figli, rispose che ne aveva avuto uno e che era morto.
— E se mio cugino vi lasciasse, cosa fareste? — domandò egli presentendo il dramma.
— Se mi lasciasse per stanchezza mi ammazzerei; ma se vi fosse di mezzo un’altra donna, ammazzerei quella donna... e se non mi riuscisse, farei uno scandalo.
Così Paolo era tornato a Pavia, convinto che Isidoro non sposerebbe mai Antonietta. Con tale convinzione, egli aveva messa in guardia la fanciulla contro il suo adoratore. Sperava che, avvertita a tempo, ella avrebbe resistito all’amore e riconquistata la pace. Ora si accorgeva invece che, pure resistendo risolutamente alle seduzioni dell’amore, Antonietta non aveva pace, perchè una forza superiore ad ogni considerazione la trascinava verso Isidoro.
Ed egli si rimproverava di avere distrutto in quel tenero cuore di fanciulla le più dolci illusioni, senza riescire a preservarla dalle temute sofferenze nè dai pericoli.
„Dovevo ben sapere“ — egli si diceva — „che l’amore non si strappa da un cuore con la gelosia. Più che la pietà di lei, fu il mio egoismo che mi spinse a parlare come ho parlato.“
Questo pensiero lo rodeva; aveva agito per egoismo, mentre si dava ad intendere di compiere un’azione doverosa!
Prima di giungere alla riva, egli prese con sè medesimo un formale impegno. Avrebbe parlato francamente con Isidoro per scrutargli l’animo e se riusciva a convincersi che egli amasse l’Antonietta, avrebbe cercato con lui i mezzi migliori per allontanare tutti gli ostacoli ed appianare le difficoltà.
Il vento si era calmato, e la pioggia veniva giù cheta cheta, come una pioggerella primaverile, quando l’avvocato Pagliardi arrivò a casa sua con le due signorine. Quivi l’ambiente appariva assai più burrascoso. Evidentemente le due cognate si erano annoiate e bisticciate; e il vecchio pittore aveva stimato opportuno di ritirarsi.
Appena il Pagliardi mise il naso nel salotto, sua sorella gli si scagliò contro, gridando:
— Vecchio pazzo incurabile, dove sei stato fino a quest’ora con quel tempo e con quelle creature? E che ne hai fatto del mio figliuolo?
— Povero piccino, chissà mai cosa gli sarà successo! — esclamò l’avvocato ridendo.
L’Ersilia, zitta, si godeva lo spettacolo.
— Sono qui tutti — disse Maria, che si era messa alla finestra.
— Sani e salvi e neppure bagnati.
La vecchia però continuò a mugolare; e Maria fu ben contenta di dover partire subito.
— E ora chi ti accompagna alla stazione?
— Nessuno, signori; vado da me.
— Ma che!
Paolo Venturi si fece avanti: egli doveva andare alla stazione: poteva accompagnarla lui.
La proposta fu bene accolta e i due giovani uscirono insieme.