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nire che l’aspettava. Nessuna donna l’avrebbe amato e l’amore, la suprema ebbrezza della vita, non sarebbe per lui mai altro che un sogno o una continua delusione. Soffrì orribilmente, ma non accusò nessuno, nè volle pietà, nè compianto da chi che sia. Nessuno sospettò il suo dolore; divenne più ironico, più sarcastico, non meno buono. Il sarcasmo rimase alla superfice, come una difesa morale. Nell’intimo serbò intatta la sua pietà per quelli che soffrono, unita a un culto intangibile della giustizia e ad una straordinaria imparzialità di giudizio. Passato il primo parossismo della disperazione, vinto l’involontario impeto di collera e di sdegno che accompagna ogni delusione, egli si disse che Antonietta aveva agito naturalmente, spontaneamente, senza civetteria, nè malizia, ignorando che egli l’amasse.
Non poteva dunque chiamarla responsabile del male che gli aveva fatto. Doveva invece restarle amico e proteggerla, aiutarla: se Isidoro era sincero nel suo amore, doveva adoprarsi perchè si sposassero.
Egli era in tale disposizione d’animo, allorchè un caso fortuito gli fece conoscere una donna che si faceva chiamare la signora Arquati. Ciò accadeva a Firenze, dove egli si era recato per una regata sull’Arno. Cercò informazioni sulla vita e la posizione sociale di quella signora e seppe positivamente che era l’amante d’Isidoro,