Signorine povere/Prima parte/V
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V.
La prima domenica di quaresima, Maria Clementi si recò a Pavia. Alla stazione trovò l’Antonietta e i signori Pagliardi che l’aspettavano.
— Sola? — esclamò l’Ersilia. — Avevo sperato di vedere anche l’Eugenia.
— Non ha potuto. Porto i saluti e i baci di tutta la famiglia.
— Riccardo peraltro poteva accompagnarti — insinuò l’avvocato guardando Maria fisso in viso.
Ella rispose semplicemente:
— Sarebbe venuto volentieri, ma ha sempre da fare.
— Va all’ufficio anche la domenica?
— No. Studia, legge... fa un po’ di musica.
— Ah! ah! Ho capito; lo sapevo già. Ne ha un ramo anche lui. E cosa studia?
— Geologia... antropologia... scienze naturali in generale... sono i suoi studi prediletti; e ha dovuto troncarli per guadagnare... perchè era necessario che lavorasse... Ella sa bene...
Discorrendo, si erano incamminati.
— E a che cosa gli serviranno questi studi? — riprese l’avvocato. — Tutto tempo perso. Avrebbe dovuto studiare medicina giacchè amava le scienze. Lo avrei preso in casa... l’Università è qui... Ma non c’è serietà. Mancava alla collezione dei pazzi Valmeroni il pazzo scientifico: il tuo Riccardo sarà quello.
— Perchè dice il «tuo Riccardo?» Mio come suo: un parente.
— Nient’altro?
— Nicnt’altro. Non basta?
— Se io fossi nella sua pelle non mi basterebbe.
— Riccardo è molto più serio di te — affermò la signora Ersilia ridendo.
— Anche suo padre è serio, troppo serio... E suo nonno? Lo chiamavano Tantum ergo. E che per ciò? Pazzi da legare.
— Via finiscila!
Con queste parole la signora Ersilia si attaccò al braccio di Maria, e si mise a parlarle fitto fitto del carnevale, delle feste, cercando di farla discorrere per sapere se l’Eugenia e sua madre erano state a ballare.
L’Antonietta rimase indietro con l’avvocato. Solo con lei, egli cambiò subito discorso. Anche l’espressione del suo volto sembrò trasformarsi. Parlò della vicina primavera che già si annunziava nei campi verdi, nell’aria tepente. Disse che i vecchi amano la primavera perchè hanno l’illusione di sentirsi ringiovanire. Egli invece non si faceva alcuna stolta illusione; il ritorno della primavera lo rattristava facendogli sentire più acutamente il gelo del corpo e l’aridezza dell’anima. E concludeva, con la solita amarezza:
— I giovani non sanno godere il loro tempo; non sanno di esser giovani.
— Non dipende dalla nostra volontà — mormorò l’Antonietta, sorridendo.
Egli la guardò in un certo modo.
— Da cosa dipende se non dalla vostra volontà?... Dalla vostra ignoranza?
— Può darsi; ma anche dalle circostanze, dalla società, dalla vita che si conduce... Se io fossi libera e n’avessi i mezzi, viaggerei...
— E credi che ti divertiresti? Per divertirti ti ci vorrebbe un altro concetto della vita, un altro spirito. E poi, sai bene, la società non permette che le ragazze per bene si divertano, io alludevo ai maschi.
— Oh, so bene, si parla sempre per il sesso forte. Del resto hai ragione, anche se viaggiassi, probabilmente mi annoierei.
— Tu dovresti diventare attrice; l’ho sempre detto. L’arte ti guarirebbe dalla noia. Se io fossi nei tuoi panni, scapperei da questa casa e m’ingaggerei con una compagnia qualunque. Sai anche la musica: potresti cantare.
— I miei non vogliono e neanche la zia. E tu stesso, se mi decidessi, chi sa che prediche!
— Certo: parlerei da zio, mentre ora parlo da uomo!
Rise sonoramente.
La signora Ersilia si voltò.
— Ridi alle mie spalle!
— Sì, poichè mi volti le medesime; ma a spese mie.
Antonietta ripigliò:
— Se avessi genio, nulla potrebbe trattenermi. Mi trattiene soltanto la coscienza della mia mediocrità.
— E una fissazione.
— Oh! zio, tu sai benissimo che è la verità. Me l’hai detto troppe volte. Ti ricordi quando recitai l’anno scorso in quella serata di beneficenza? Non fosti tu il primo a dirmi che ero una cagna, che non avevo nessuna attitudine? E avevi ragione; gli altri mi adulavano. E quando studiavo la musica, quando cantavo, quando mi provai a scrivere; ti ricordi?... Ti sento ancora ridere del mio canto; dei miei esercizi di piano, e dei miei versi... La mania dei Valmeroni: l’arte! E nessun ingegno. Avevi ragione; ora lo riconosco. E siccome spero almeno di non essere pazza, ho rinunciato a tutte le mie velleità, a tutte!... — Ella parlava con calma, ma la sua voce profondamente triste rivelava un arcano dolore.
— Hai fatto bene — rispose l’avvocato serio. — Speriamo che un marito ti guarisca anche dalla malinconia.
La fanciulla scrollò il capo e non parlò più. Anche il Pagliardi ammutolì.
Maria aveva raccontato alla signora Ersilia l’affare del veglione. La signora Valmeroni l’aveva autorizzata a farlo, dicendole: „Racconta tutto all’Ersilia; si divertirà.“ E in realtà la Pagliardi se la godeva un mondo.
— Che birichina quella Lisetta! — esclamava con un sorriso d’indulgenza, quasi di ammirazione. — Io non sarei mai stata buona di fare una scappata simile. E’ vero che quello lì m’accopperebbe. Bisogna avere un marito come Leonardo.
— Povero zio Leonardo, è tanto buono!
— Troppo. Se mia sorella avesse un marito più severo, sarebbe stato meglio per tutti.... Dico un po’ più severo, bada, non già sarcastico e feroce come il mio.
Dicendo queste parole, il bel volto della signora Ersilia si era offuscato. Aveva gli occhi umidi e delle lagrime nella voce.
Maria pensò che doveva soffrir molto e si sentì stringere il cuore.
Dopo un momento, forse pentita o spaventata di quello che aveva detto, l’Ersilia si ripigliò:
— ... E non è cattivo, sai. No. Non odia la gente come pare a sentirlo. Anzi è capace d’affetto, di pietà... capace di sacrificarsi... se occorre... per il bene di chi ama... Ma che serve?... Il suo temperamento rovina tutto... Guarda. Ama Antonietta come una figlia... e l’ha perseguitata come una schiava... L’ha oppressa, schiacciata... le ha tolto ogni energia!
Ella s’interruppe. Erano arrivate.
Entrando nell’elegante abitazione, trovarono la sorella dell’avvocato, la signora Rosalia Pagliardi, vedova Arquati, invitata a colazione, come il solito di ogni festa.
Era costei una donna sui settant’anni. In gioventù aveva fatto da madre al fratello, minore di lei di dieci anni. Perciò l’avvocato l’amava molto, quasi la venerava e intendeva che sua moglie facesse altrettanto; ma tutta la sua autorità non bastava ad ottenere un risultato così difficile. Le due donne si odiavano, e il loro odio compresso, soffocato dalla presenza e dalla volontà del padrone spargeva intorno una sottile, penetrante amarezza.
Vedova, modestamente agiata, limitatissima di spirito e di coltura, la signora Pagliardi Arquati aveva un unico passatempo: la maldicenza; e due affetti esaltati fino all’idolatria: suo fratello e suo figlio.
— L’è qui questa seccatura — mormorò l’Ersilia appena vide la cognata.
Maria, che la conosceva di già, si affrettò a complimentarla, e l’Ersilia e l’Antonietta fecero altrettanto. La vedova Arquati accoglieva i complimenti e rispondeva con molto garbo, mostrandosi espansiva anche con la cognata come se le avesse voluto un bene dell’anima. Era però evidente che tutt’e due recitavano. Quando le si accostò il fratello, gli occhi della vecchietta brillarono, e con una voce non più sdolcinata nè falsa s’informò della salute di lui e parlò dei propri acciacchi un po’ sorridendo, quasi con una certa superiorità.
Maria notò che l’avvocato s’interessava vivamente a tutto ciò che la sorella gli raccontava, e smetteva con lei quel tono sarcastico che gli faceva tanti nemici.
L’Ersilia, pure andando avanti e indietro, impartendo ordini al cuoco e alla cameriera, volgeva di tratto in tratto una fiera occhiata al marito, e s’allontanava alzando le spalle con disprezzo.
— Vieni a vedere i miei giacinti — disse Antonietta a Maria, e prendendola a braccetto la condusse nella veranda.
— Sono sempre allo stesso punto questi tre disgraziati? — domandò la Clementi con una occhiata significativa.
— Sempre. Quando la signora Rosalia viene a colazione è una croce; quando noi andiamo a pranzo da lei è peggio ancora.
— L’Ersilia mi pare molto infelice.
— Non credere... Cioè... non dico che sia felice; ma, infine, sono tutte sofferenze di cervello; il cuore non vi ha alcuna parte. Il meglio dei tre è ancora l’avvocato nonostante la sua ironia, i suoi sarcasmi e l’amore al denaro, non eccessivo però, non sordido come credono a casa nostra.
— Sarà: ma io non ci starei qui; mi pare che fra tutti mi toglierebbero il respiro.
Antonietta la guardò negli occhi.
— Stai forse meglio in casa di mio padre?
— Oh, sì, senza confronto. Forse perchè io vivo quasi separata, tutta al mio lavoro. Ma all’ora del pranzo e anche la sera sono contenta di trovarmi in loro compagnia. Tua madre è buona, tuo padre è sempre un’anima d’artista e i tuoi fratelli sono generalmente allegri; i loro bisticci mi seccano qualche volta, ma non rattristano come le acrimonie logoranti di questi tre.
— Se io potessi andarmene, me ne andrei subito. Se mi avessero fatta studiare, se avessi un’arte, un mestiere... Invece non sono buona a nulla!... Non sono buona neppure a far la serva, sono un oggetto di lusso, di nessuna utilità. Se fossi a casa mia, sarei una bocca di più; qui almeno mi guadagno la vita col mio sorriso, con i miei vent’anni che portano un diversivo in quest’ambiente gelido. Perfino la mia tristezza è meno opprimente della loro ironica gaiezza e serve a distrarli.
— Ragazze, a colazione — gridò la signora Pagliardi dalla finestra della sala.
— Subito, zia.
Prima di rientrare l’Antonietta si chinò, colse una rama di giacinti dalle campanelline rosate e la porse a Maria; poi altre rame ella colse, rosee, bianche, violacee e fattone un mazzo lo circondò di foglie e lo portò in sala in un bel vaso di porcellana, che fu collocato in mezzo alla tavola. L’avvocato sorrise.
— Sono la mia passione i giacinti — disse la signora Rosalia.
E l’Ersilia subito:
— A me invece danno mal di capo col loro odore acuto.
— Vuoi che li porti di là, zia?
— Ma che! — esclamò l’avvocato — Sono mali imaginarì: ci va soggetta.
La vecchia rise, l’Ersilia volse al marito un’occhiata velenosa e sentenziò:
— Per gli egoisti tutti i mali degli altri sono imaginarì.
Nessuno rispose. Tutti parevano occupati a mangiare e nel silenzio si sentiva lo sbatacchiare dei denti finti della vedova Arquati.
Entrò la cameriera per cambiare i piatti, poi si mise a girare con un vassoio carico di pasticcini fumanti.
La Rosalia lodò la squisitezza di quella vivanda; ma poi, dopo alcuni bocconi, non ne mangiò più. Erano troppo pesanti per il suo stomaco; sapevano bene che aveva lo stomaco indebolito.
Era questa una accusa di poca delicatezza lanciata all’Ersilia? Per fortuna costei non vi badò e si mise a parlare di Milano con Maria Clementi.
— C’è il corso di gala oggi? Dove andranno a vederlo le mie nipoti?
— Vanno tutti, anche i piccini, da una signora israelita, una certa Costanza Wollis, amica o cliente del dottor Monti.
— Ah! la Wollis, ho capito; una vecchietta arzilla che salterella come una ragazzina.
— Sì. L’ho vista una volta dai Monti; è proprio così. Sta in corso Venezia, a un primo piano, in una bella casa. Dev’essere ricca.
— Ricchissima — entrò a dire l’avvocato. — Era una crestaia molto corteggiata; e seppe farsi sposare da un ricco banchiere che le lasciò un patrimonio.
— Era molto bella?
— Bellissima. E quanti hanno sospirato per lei!
— Anche tu? — domandò ridendo l’Ersilia.
— Sì, e inutilmente come gli altri; ero giovine e le parlavo d’amore... Mi rise in faccia.
— Cosa voleva dunque? — domandò Maria...
— Un marito ricco, perbacco! La più bella speranza d’ogni ragazza di giudizio. E lo trovò e se lo prese quantunque fosse vecchio e brutto.
— Dunque si è venduta! — mormorò Maria disgustata.
— Venduta? — esclamò l’Arquati, che ai suoi tempi aveva fatto altrettanto. — Le pare?... Quando una si sposa legittimamente non si vende, fa un matrimonio di ragione.
— Ma che matrimonio di ragione! — esclamò l’Ersilia con uno scatto di voce. — Un matrimonio di ragione è quando si sposa un uomo serio stimato, in buona posizione, che si può rispettare e amare; ma ad un brutto mostro come il Wollis e per di più niente affatto rispettabile, una donna si vende anche se si fa sposare...
— Nego assolutamente...
— E tu Antonietta, cosa dici? — domandò l’avvocato per deviare la disputa delle due cognate.
— Io?... Son cose che non mi riguardano.
— Perchè?
— Perchè io non mi sposerò mai.
— Ecco il pensiero delle ragazze moderne.
— Cosa c’entrano le ragazze moderne? Maria è una ragazza moderna come me, eppure non è pessimista: tutt’altro. Del resto, se io sono pessimista, sono quella che mi hai fatta tu, zio, i tuoi ragionamenti mi hanno sempre convinta.
L’Ersilia rise. L’avvocato non replicò.
La signora Rosalia cominciò a parlare del suo figliuolo che aveva ventinove anni e di tratto in tratto manifestava qualche velleità matrimoniale. Ma ella ne rideva. Per prender moglie avrebbe dovuto trovare una ricca, o ritirarsi dall’esercito; perchè lei era usufruttuaria di tutto e non voleva ridursi a stecchetto per metter fuori la cauzione.
A Maria parve che dicendo queste parole la signora guardasse fissamente Antonietta.
— E se fosse innamorato, vorresti condannarlo all’infelicità? — domandò il Pagliardi.
— Innamorato?... Ma di chi vuoi che s’innamori il mio Isidoro, idolatrato come egli è dalle più belle donne dell’alta società e della... società allegra?...
— O allora, perchè parla di sposarsi?...
— Velleità. Quando è stufo delle sue amanti sogna l’amore tranquillo di una moglie, forse dei bambini... Fantasie.
— Sì, sì, sarà come tu dici. Ma se vorrà avere una famiglia non potrai opporti.
— Mi opporrò invece con tutte le mie forze. A meno che facesse un matrimonio veramente brillante, con una donna dell’aristocrazia, o la figliuola di qualche senatore. Allora potrebbe avere un alto posto al Ministero della Guerra o altrove.
— Un uomo come il capitano può aspirare a tutto: non avrà che l’imbarazzo della scelta — osservò l’Ersilia non senza una leggera ironia.
Arrivò in buon punto un amico dell’avvocato. La signora Ersilia li invitò tutti a passare nella veranda dove era pronto il caffè.
La veranda di casa Pagliardi non era altro che una piccola terrazza coperta e chiusa da vetri che si toglievano nell’estate. Una tavola, alcune sedie, qualche poltroncina ne componevano tutta la mobiglia.
Quattro grandi vasi contenevano delle piante sempre verdi dalle foglie grasse, lucenti: alcune dracene, un bellissimo acanto. Da una parte, sul parapetto, in piccoli vasi uguali era una bella raccolta di felci; e dalla parte opposta sopra due lunghe aiuole scaglionate, fiorivano i giacinti di Antonietta. Da questa terrazza, per una piccola porta e una piccola scala di pietra, si andava direttamente in giardino. Essendo un giorno tiepido, primaverile, la porticina era aperta. Le due ragazze ne approfittarono subito per fare un giro in giardino.
— Hai sentito? — esclamò Antonietta appena furono sole. — Tutto contro di me lo sproloquio di quella stupida vecchia. Ha paura che io sia innamorata del suo ufficialetto e non si stanca di ripetermi che non è pane per i miei denti. Imbecille! Verrà un giorno che le dirò tutto quello che mi pesa sul cuore: ho abbastanza sofferto.
— Io non sarei capace di vivere in questa casa. La vecchia mette il colmo all’intollerabile insieme.
— La vecchia è insopportabile per me, perchè mi offende supponendomi innamorata di suo figlio e capace di sedurlo, povero piccino! Del resto, è una donna come tutte le altre, cioè come la maggioranza delle vecchie: noiosa e ridicola. Non bisogna esagerare i difetti di una persona supponendola un’eccezione. La gente, in massa, è così: cretina e ambiziosa.
— Oh! Antonietta, Antonietta, tu parli, tu pensi come tuo zio. C’è un veleno in questa casa, un veleno che si assorbe senza accorgersene.
Un sorriso sfiorò le labbra di Antonietta.
— Sono eccitata... non so quello che dico.
— E il capitano, che uomo è? — domandò Maria per cambiar discorso.
— Il capitano? Un buon figliuolo. Adora sua mamma.
— Ti fa la corte? Ti ama?
— La corte, loro, la fanno a tutte. Quanto all’amore, io lo credo, come sua madre, assolutamente incapace di amare. Si diverte e poi si annoia. Quando si annoia pensa a quello che non ha. Se prenderà moglie, sposerà certamente una gran signora. E farà bene. Il denaro è ancora una delle poche cose che non deludono e non tradiscono.
— Da capo!... Scuola Pagliardi.
— Hai ragione. Non dovrei parlare così con te. E’ per lo meno incivile sputare nel piatto di chi si prepara a mangiare. Perdonami.
— Sei feroce, sei insopportabile, oggi. Se avessi creduto di trovarti così, sarei rimasta a casa.
Si scostò imbronciata.
Antonietta non si mosse. Tacquero alcuni istanti. Maria fu la prima a parlare.
— Soffri molto? — ella domandò sommessamente. — Sei ammalata? Dimmi la verità... Non ne puoi più?
— E’ vero. Non ne posso più. Ma ho torto io, perchè manco di fermezza come di tutto il resto... Essere mediocre in tutto, non avere nulla, non saper far nulla, e sentire la propria nullità: è questo il mio male. Molte altre sono come me, ma s’illudono; io non mi posso più illudere; mi conosco. Ma non t’inquietare per me. Mi rassegnerò; la mia stessa mediocrità mi condurrà alla rassegnazione. Ancora qualche anno e tutto sarà finito. Vegeterò: giuocherò alle carte, passerò il tempo con la maldicenza... come zia Ersilia... come la signora Arquati. Andiamo, non guardarmi con quegli occhi. Tu mi trovi strana perchè hai un gran sogno nell’anima, un sogno d’oro che t’irradia e t’abbaglia. Quando codesto fuoco sarà spento, mi comprenderai.
— Mi strazi, Antonietta.
— Perdonami... Perdonami. Tu non sarai mai come me... perchè tu lavori... perchè sei una creatura utile, indipendente... Tu non comprenderai mai la miseria del mio nulla... Andiamo a prendere il caffè... Vieni!...
La prese per un braccio e la trascinò nella veranda.
Altre persone erano arrivate nel frattempo. Un vecchio pittore mezzo paralizzato che faceva la corte alla signora Ersilia da oltre dieci anni, senza stancarsi; senza accorgersi che l’avvocato Pagliardi rideva alle sue spalle. Sul più bello gli era capitato un colpo apopletico che avrebbe tolto ogni speranza ad un corteggiatore meno idealista. Egli non se ne dava per inteso. Arrivava trascinando la sua povera gamba mezza morta, come nulla fosse, e quand’era lì non sapeva mettere insieme due parole, poco eloquente com’era e timido come un fanciullo.
Da dieci anni manifestava la sua adorazione con gli sguardi estatici, con l’assiduita e il silenzio.
Il Pagliardi gli offriva immancabilmente un bicchierino di cognac, che l’Ersilia gli mesceva con le sue belle mani. Il pittore vuotava il bicchiere d’un fiato, e lasciava che la signora lo riempisse da capo, per centellinarlo, questa volta, con devozione.
L’avvocato diceva scherzando:
— In dieci anni non ho ancora capito se Marco Aurelio Viti corteggia mia moglie per amore del mio cognac; o se beve il mio cognac per amore di mia moglie. Forse è un doppio amore doppiamente tenace.
Nei primi anni peraltro l’avvocato era stato geloso del pittore; e ne rideva soltanto dopo l’intervento del colpo apopletico.
Contemporaneamente al pittore, ma non con lui, era arrivato un giovinotto, figlio del ricco Bertalli di Milano e studente di legge a Pavia. Costui aveva il bernoccolo della letteratura: scriveva certi versi che egli battezzava barbari ed erano bestiali; e li faceva stampare a spese proprie in eleganti opuscoletti.
Vestiva secondo l’ultimo figurino, professandosi conservatore ultra e nemico delle donne — non però delle femmine. Il Pagliardi si divertiva qualche volta a discutere col giovinotto per il gusto di spingerlo agli estremi.
Vedendo i due visitatori, Antonietta disse rapidamente all’amica:
— Due piaghe. Ma devi averli già visti.
Il pittore, che non poteva reggersi in piedi, si era sdraiato in una poltrona vicino alla signora Ersilia.
La cameriera portò dell’altro caffè e dei liquori. Si parlottava qua e là interrottamente.
Qualcuno nominò un certo Lori, nobile e ricco, che aveva sposato quello stesso giorno una ballerina. L’avvocato Pagliardi afferrò l’argomento gridando:
— Un’infamia! Non avrei mai creduto che un gentiluomo come il Lori potesse avvilirsi così per una femmina.
La signora Ersilia osservò che quella femmina, oltre ad essere molto bella, era anche onesta.
Suo marito le troncò la parola.
— L’onestà di certe donne è una truffa! La merce deve rispondere all’insegna. Ma nella nostra società moderna tutto è falsato, i nomi non rispondono più alle cose; è una bottega da farmacista messa a soqquadro da un pazzo; l’arsenico si spaccia per magnesia, il sciroppino di papavero si pavoneggia sotto la etichetta della belladonna: una contessa porta i brillanti chimici del Rituali, mentre le perle più preziose cingono il collo di una sgualdrina. Tutto va a rotoli: è il principio della fine.
— Tutto quello che vuoi — interloquì il vecchio pittore. — Tutto quello che vuoi, ma non toccare l’amore!
Allora il Pagliardi, trascinato dalla sua frenesia di polemica, si scagliò contro l’amore e più specialmente contro i matrimoni d’amore.
Il matrimonio non era e non doveva essere che una istituzione sociale: difesa per le classi elevate, freno per le plebi: l’amore non ci aveva che vedere: l’amore era la corruzione del matrimonio.
Il Bertalli applaudì; tutti gli altri protestarono. Una scrosciante risata echeggiò alle loro spalle.
— Isidoro! Isidoro!
— Il capitano.
— Bravo capitano!
— Ben arrivato!... Che bella improvvisata!
Lo circondavano, lo festeggiavano.
Egli s’inchinò e prima di parlare abbracciò la sua mamma; quando poi ebbe salutate le altre persone, si rivolse al padrone di casa e rise ancora una volta.
— Mi trovi molto buffo?
— No, zio! Ti trovo formidabile: capace di sostenere e far trionfare, almeno per un momento, la più stramba delle teorie.
Tutti risero.
— Ridete, ridete. Le vostre risa suonano da morto. Voi preparate con le vostre mani il cataclisma che v’inghiottirà.
— Il signor Paolo Venturi.
— Avanti, Paolo. Ti si aspettava.
— Mio nipote, figlio di una sorella del mio povero marito — disse la vedova Arquati a Maria Clementi. — Non l’ha mai visto perchè era lontano. E ritornato da poco tempo.
Arrivò un altro visitatore: un vecchio avvocato, amico del Pagliardi, che si mise subito a parlare con lui di una causa che difendevano in comune. Bertalli, smanioso di posarsi a futuro uomo politico e grande avvocato, si avvicinò ad essi.
La signora Arquati aprì un cassetto dove stavano le carte da giuoco. L’Ersilia e il pittore Viti compresero il segnale. Cominciarono la solita partita. Paolo Venturi e il capitano si accostarono alle signorine. Maria ebbe allora l’intuizione che il capitano era capitato a Pavia quel giorno per vedere l’Antonietta, per lei sola. Certo l’amava... quegli occhi azzurri così teneri e profondi non dovevano mentire. Eppure, Antonietta aveva detto che mentivano! Era sincera l’Antonietta con lei? E se era sincera, vedeva giusto? Non poteva ingannarsi?...
Intanto Paolo Venturi, avendo sentito che ella era una maestra e che aveva insegnato a Saronno, la interrogava con interesse sulle cose di scuola: sulle allieve che aveva avute a Saronno, su quelle che aveva a Milano: sui vantaggi e pesi della carriera.
Il capitano, dopo aver preso parte per qualche istante alla conversazione generale se n’era staccato a poco a poco per parlare con l'Antonietta. Dalle parole che giungevano al suo orecchio, Maria capì che riprendevano un discorso recentemente lasciato in tronco. L’Antonietta rideva con una certa affettazione; poi si volgeva al Venturi e a Maria entrando nel loro discorso come per liberarsi del capitano. Ma questi la richiamava subito a sè. Nel medesimo tempo, dando un’occhiata all’altra estremità della veranda, Maria notò che la signora Arquati, pure sembrando molto attenta al giuoco, sorvegliava tutti i movimenti di suo figlio e di Antonietta. Voleva proporre una passeggiata in giardino, allorchè dall’altro gruppo, Claudio Bertalli, apostrofò Paolo Venturi.
— O canottiere! non ci meni un poco nella tua barca?
— Certo. Anzi, ho fissato la barca grande da ieri, sapendo che arrivava la signorina.
— Bene! benissimo! Cattivo politicante, ma egregio sportman.
— Lasciamo la politica che non è di tua competenza. Se andiamo in barca bisognerà che tu remi, perchè non ci sono uomini disponibili alla società.
— Ci sono io! — esclamò Isidoro. — Sono stato canottiere anch’io ai miei tempi.
— Le signorine ci onoreranno della loro compagnia?
— Ben volentieri...
— Certo... Bisogna interrogare mia zia...
Il capitano andò in missione presso gli anziani; e subito si levò un brontolìo acuto dal tavolino dei giuocatori.
— Sicchè, le signore non vogliono onorarci? E lei, signor Viti?
Il vecchio pittore s’arricciò i baffi. Egli teneva compagnia alle signore.
La vedova Arquati continuava a brontolare. Si rodeva che suo figlio potesse trovarsi con l’Antonietta in maggior libertà. Temeva sempre che si amassero, nonostante il loro contegno reciproco, quasi freddo, da parte del capitano, quasi sprezzante da parte della fanciulla. Cercò di mandare a monte la gita, facendo osservare che le ragazze non potevano andare sole con i tre giovinotti. Tutta Pavia ne avrebbe parlato.
— Andrò io a far da paracadute — disse l’avvocato Amilcare troncando così ogni difficoltà.
— Bravo imbecille, dopo tutto quello che hai detto contro l’amore! — pensò sua sorella rabbiosa. Ma non fiatò.