Signorine povere/Prima parte/IV
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IV.
Leonardo Valmeroni era nato sognatore come un artista, come un poeta. La sua anima ardente e mistica era dominata dall’arte che egli adorava; pur troppo gli mancavano le facoltà necessarie a produrre l’arte: la forza creatrice e le attitudini geniali. Ma la sua passione, nutrita da una certa facilità superficiale, l’aveva illuso e poteva illuderlo ancora.
Egli era di quelli che riescono a prima vista in tutte le arti, e a prima vista ingannano se stessi e gli altri. Ma il disinganno è rapido e irreparabile. Il loro cervello è come certe bevande gasose, tutta spuma, e quando la spuma è esaurita rimane un’acquetta insipida.
Le tendenze artistiche gli venivano da suo padre, Orlando, figlio della signora Olimpia e del capitano Riccardo morto nella campagna di Russia.
La madre, una giovane veneziana, morta nel darlo alla luce, gli aveva trasmesso la sua ineffabile tenerezza e il dolce misticismo.
Orlando, peraltro, non aveva mai pensato a diventare artista.
Essendo ricco, la passione estetica gli suggerì naturalmente il desiderio di contornarsi di cose belle; così egli divenne un raccoglitore, quasi un mecenate dell’arte; disgraziatamente senza capirci molto. Le scarse cognizioni, il poco acume, la buona fede e il troppo facile entusiasmo fecero di lui una vittima predestinata degli imbroglioni, così frequenti e raffinati nel commercio artistico. Quanti denari sciupati in quelle pretese meraviglie che il buon Leonardo, già sul limitare della rovina, custodiva devotamente!
A parte la sua manìa con la quale aveva preparata la decadenza della famiglia, Orlando Valmeroni era un degno galantuomo, un ingegno simpatico, un cuore d’oro, dotato di una intelligenza naturale, fuori che nel giudicare di quadri e statue; un patriota e un valoroso. Aveva preso parte al movimento rivoluzionario italiano fin dall’adolescenza; ed anche il patriottismo e l’umore della libertà avevano aperto una breccia nel suo patrimonio. Nel quarantotto e nel quarantanove aveva pagato col proprio sangue, e dieci anni dopo aveva combattuto ancora avendo al fianco l’unico figlio suo, non ancora ventenne. Nè mai poi, a cose fatte, gli era venuto in mente di chiedere alla patria un compenso delle sue prestazioni, dei suoi sacrifici: se ne sarebbe vergognato.
Molti dei quadri da lui acquistati, se dimostravano la sua poca conoscenza in fatto di pittura, erano però documenti del suo buon cuore e della sua magnanimità.
In quegli anni di fervore patriottico, un negoziante che gli faceva l’amico andava a dirgli di tratto in tratto:
— Signor Valmeroni, c’è il tale che ha un magnifico quadro (un Guercino, o un Procaccino, un Daniele Crespi, o qualunque altro), ma deve venderlo perchè non ha da vivere — con la moglie c sei figli, una pietà! — e l’ha depositato nel mio negozio. Un tedesco, un impiegato del governo gli fa la corte, e lo comprerà perchè è ricco, lo conosco. Così sarà un altro capolavoro portato via... Se ella volesse vederlo...
Già commosso e conquiso, Orlando cadeva nel tranello.
Qualche volta il degno negoziante gli diceva:
— Quando i tempi saranno mutati — e strizzava l’occhio per farsi comprendere senz’altro dire — ella potrà vendere questi capolavori alle gallerie nazionali facendo affari d’oro.
Dopo il sessanta, essendo venuto a stabilirsi a Milano nella sua casa di via Monforte, e trovandosi in un imbarazzo di denaro, un amico e compagno d’armi gli fece vendere, a non so quale ministro, una figuretta di santa attribuita a Gaudenzio Ferrari, ma Orlando non vi guadagnò nulla; poichè trattandosi del Governo italiano egli non domandò neppure un soldo oltre il denaro da lui sborsato. E gli amici ridevano della sua fenomenale onestà.
Venuto a morire pochi anni dopo, e avendo il presentimento di lasciare il figliuolo in condizioni finanziarie piuttosto difficili, si consolava pensando che la galleria avrebbe fatto fronte al pericolo. Prima di chiudere gli occhi disse a Leonardo:
— Se non puoi farne a meno, ti autorizzo a vendere il mio tesoro per pagare i debiti e salvare l’onore del nostro nome.
Più istruito e illuminato dalla vita in una grande città, come pure dalle critiche che gli amici di suo padre non si peritavano di pronunciare anche davanti a lui, Leonardo sapeva bene che la galleria non era un tesoro e che suo padre s’ingannava; ma non poteva credere che l’inganno avesse le proporzioni spaventose di un disastro. Il suo cuore tenero e devoto non poteva accettare quella dolorosa verità.
Ed era anche per non affrontare le temute mortificazioni, che egli aveva tardato tanto a mettere in vendita la vecchia raccolta.
D’altra parte il moribondo aveva detto: «Ti autorizzo a vendere se non puoi farne a meno». E il rispettoso erede voleva tentare tutti i mezzi possibili prima di risolversi al duro passo.
Nei primi anni i quadri e gli oggetti antichi occupavano un posto enorme in tutta la casa. I mobili necessari alla vita quotidiana, erano confinati negli angoli più scuri per cedere tutta la luce ai quadri, ai bronzi, alle terre cotte, alle ceramiche, alle spinette ed agli altri istrumenti più o meno inservibili.
Le mensole, i cassettoni, le credenze erano gremiti di vecchie ceramiche sbreccate, di monete antiche, di medaglie, di strani gioielli, amuleti e simili cose. A poco a poco crescendo la famiglia, i ragazzi mettendo le mani su ogni cosa, Leonardo stesso avendo contribuito ad ingombrare l’appartamento colle sue invenzioni, le sue costruzioni inaspettate, tra le quali il grande organo confinato nell’anticamera, bisognò risolversi a vendere o a raccogliere tutta quella miscellanea in un apposito locale.
Vendere non era facile, pure volendo. Alcuni negozianti cercarono di avere per poco prezzo le cose migliori; sentendo però che il Valmeroni voleva vendere tutto o nulla, si allontanavano brontolando.
Un anno, intorno all’ottanta, essendo rimasto sfittato un appartamento di sei stanze al secondo piano, Leonardo decise di farvi portare i quadri e il resto. Solo alcune tele rimasero a decorare l’appartamento abitato dalla famiglia.
L’appartamento del secondo piano così occupato non si affittò più, e Riccardo faceva il conto che in dieci anni erano da sei a settemila lire perdute per la famiglia.
Ora finalmente l’occasione di vendere tutta quella roba si presentava; e Leonardo capiva di non poter rifiutare quell’offerta, per meschinissima che fosse. La moglie, i figli, i parenti e lo stesso Faustino Belli, l’amico diletto, lo spingevano ad accettarla. Quel denaro avrebbe servito a saldare qualche debito, a ripigliare fiato. Soprattutto urgeva di pagare gl’interessi arretrati di sessantaduemila lire ipotecate sulla casa, perchè il creditore minacciava di far causa e mandare la casa all’asta; poi c’era qualche altro debito, non grosso ma seccante, col droghiere, col macellaio, col sarto, col farmacista, e due o tremila lire in cambiali.
Una volta rimaste libere le sei stanze, la famiglia poteva ritirarsi lassù e affittare l’appartamento del primo piano, che era doppio e poteva rendere millecinquecento lire e anche più. Riccardo batteva il chiodo, e Leonardo si sarebbe rassegnato anche a quel sacrificio, ma sua moglie strillava e l’Eugenia pestava i piedi.
— Tu dovresti importi — gli diceva il cavalier Belli, il quale desiderava ora vivamente che l’amico aggiustasse i propri affari, temendo forse per sè medesimo il contraccolpo d’una catastrofe. Nel tempo stesso però, l’amabile uomo diceva alle due signore di non inquietarsi, che Leonardo non sarebbe mai capace di scontentarle.
„— Impormi! — pensava Leonardo — sicuro, dovrei impormi; e quando mi risolvessi veramente, saprei farlo. Ma è tanto noioso sentir gridare le donne; e poi, hanno tante maniere di vendicarsi, loro! Quando devono obbedire, ed i loro desideri non sono soddisfatti, la vita in famiglia diventa un inferno.“
E, come sempre, egli allontanava da sè il fastidioso pensiero.
Aveva già tanti dispiaceri!
La morte di quella santa che non poteva dimenticare; Riccardo, che dopo il volontariato avrebbe voluto ripigliare gli studi, e invece doveva rassegnarsi agli impieghi di commercio; quella vendita forzata e quindi la separazione da tanti oggetti cari condannati alla inevitabile dispersione.
Come deplorava di trovarsi in quelle cattive condizioni finanziarie! Se fosse stato come una volta, o almeno se non avesse avuto tanti debiti, avrebbe regalato tutta la raccolta al comune che poteva benissimo collocarla nel museo civico onorando la memoria del raccoglitore. Sarebbe stato come averla in casa, poichè al museo si può sempre andare. Le cose piccole e di poco valore avrebbe potuto tenerle nelle stanze d’abitazione, come una volta, ora che i ragazzi da sorvegliare erano soltanto due.
Mah! vani sogni erano quelli.
Egli doveva sacrificare le sue reliquie, fare quasi un oltraggio al suo povero padre, per non perdere la casa e per ridurre al silenzio i più volgari creditori: un macellaio, un droghiere!
Come si era ridotto in quello stato? Per colpa di chi?... L’avevano derubato?...
Non poteva accusare nessuno; eppure si sentiva innocente.
Aveva speso sempre così poco per sè!... Quei pochi tentativi artistici e industriali, fatti sempre con lo scopo di aiutare la famiglia, che cosa gli costavano poi? Quindici o ventimila lire, divise sopra venticinque anni... Che cos’era alla fine? poco più di sei o settecento lire l’anno. Una miseria. I possidenti suoi pari spendevano ben altro in cavalli, donne, viaggi ed altri divertimenti, a cui egli non pensava neppure. La stessa Elisa, che lo rimproverava tante volte, non aveva speso di più in cappellini, in fronzoli, in gioielli, in abiti da ballo? Egli aveva fatto tutto per aiutare la famiglia, studiando, lavorando, logorandosi in ricerche; vestendosi così alla buona da parere quasi un povero vicino a sua moglie.
Che colpa ne aveva lui, se i suoi sforzi l’avevano deluso, se i suoi lavori non avevano la fortuna che meritavano? Il fucile inventato e fabbricato da lui era una meraviglia, lo dicevano tutti. Il generale Lamarmora, che aveva voluto vederlo, ne era ammiratissimo. E che promesse gli avevano fatte al ministero! Lo poteva dire anche Faustino Belli.
Poi tutto era andato in fumo! Perchè? Chi poteva saperlo? Intrighi, consorterie, la necessità di favorire certi elettori industriali potenti. Così, il suo fucile veniva messo da parte dopo avergliene rubato il modello.
E l’organo, la grande follia che faceva strillare l’avvocato Pagliardi? Non era una stupenda invenzione? Organo e orchestra insieme: non era il sogno di tutte le parrocchie, una grande economia anche per molti teatri? Non l’avevano ammirato nell’ottantuno alla grande Esposizione di Milano?
Quanto a comprarlo.... l’avrebbero anche comprato ma lo trovarono caro, e poi temevano che il macchinismo non fosse abbastanza solido perchè si era sparsa la voce che egli non era un fabbricante di professione. Congiure di fabbricanti! Pregiudizi della gente! L’avrebbe tuttavia venduto se avesse avuto i mezzi per farvi alcuni perfezionamenti. Ma i denari mancavano in casa quell’anno ed egli era malandato di salute. Si scoraggiò e non trovò più la lena di rimettersi a quel lavoro, «Uomo debole — diceva suo cognato Pagliardi. — Uomo debole e imprevidente.»
— Ma sì, tutto quello che vuole! — esclamava Leonardo tra sè. — Imprevidente perchè ho messo al mondo sei figli. Se mi fossi ammogliato a quarantacinque anni come lui, non ne avrei neppure io dei figliuoli, tanto vero che mi sono nati tutti tra i venticinque e i quarantaquattro.
Con questi pensieri che gli passavano per la testa a sbalzi, senza legame, come sciami di farfalle notturne, egli andava da una stanza all’altra, tenendo nella mano sinistra una lucerna a petrolio dalla campana di vetro bianco imitante la porcellana; nella destra, uno spazzolino di penna rosso e verde. Camminava lento, fermandosi ad ogni tratto, alzando la lampada per contemplare una volta di più certe figure, certe teste, mentre colla mano destra faceva correre il piumino sull’oro delle cornici. Così illuminate, le parti chiare dei dipinti, le carni, la biancheria e i veli delle vergini avevano improvvisi splendori, lampeggiamenti di vita, mentre i fondi un po’ cresciuti, in certi quadri neri addirittura, apparivano cupi e pieni di mistero. Le madonne coprivano le pareti in lunghe file. Ve ne erano di tutte le epoche, di tutti gli stili, d’ogni dimensione, col manto o senza manto, velate o non velate. Donzellette adolescenti dalle linee pure o stecchite: superbe matronali bellezze dai tratti larghi, dagli occhi grandi a fior di testa; quasi tutte di pittori mediocri o ignorati del quattrocento in poi: peggio ancora: imitazioni sfacciate, eseguite a un secolo o due di distanza e recanti firme apocrife. Abbondavano le tele nere del seicento: ritratti di personaggi sconosciuti; episodi di storia antica; martiri! di santi; paesaggi fantastici di qualche imitatore di Salvator Rosa. Una trentina d’opere di merito, alcune delle quali veramente belle, erano riunite in una saletta, che aveva le tende alla finestra e qualche mobile qua e là. Era il santuario quello. Leonardo vi entrò inchinandosi, i suoi occhi scintillarono di commozione.
Tutti i quadri ivi raccolti erano per lui capolavori. Avrebbe potuto venderli da gran tempo e a prezzi discreti, ma egli pretendeva prezzi favolosi, oppure voleva venderli insieme con gli altri.
E questa tattica, che in altri casi e in altre mani poteva avere il suo valore, non era servita che a fargli perdere qualche buona occasione. Più svelto, più intelligente, egli avrebbe potuto trarre largo profitto da quel nucleo di opere; la sua insipienza aveva guastato ogni cosa. La prima tela davanti alla quale si fermò, entrando nel santuario, era una robusta pittura di Antonio o di Vincenzo Campi, rappresentante un mercato con ceste di verdure e di frutta, e figure d’ortolani nei costumi del tempo; veniva poi un quadro di costumi romani di Lorenzo Costa, più in là alcune mezze figure del seicento, di scuola spagnola, rappresentavano dei pifferari laceri, zingareschi, pieni di vigore e di vita. Un Presepio attribuito a Leandro da Ponte, detto il Passano, era tanto caro al Valmeroni, che vi si fermò dinanzi più lungamente. Si ricordava di avere assistito, da giovane, a una lunga disputa tra suo padre e un pittore poco persuaso che quel dipinto fosse veramente del Bassano; e siccome suo padre aveva mostrato in quella occasione un profondo turbamento, egli ne soffriva ancora. Un’altra tela discussa era un bel bozzettone di uno dei Caracci. Lo stesso pittore critico che metteva in dubbio il Bassano aveva finito col riconoscere l’autenticità del bozzetto. Un ritratto d’uomo a mezza figura, del Prete genovese, aveva un giorno innamorato un forestiero che l’avrebbe pagato caro se Leonardo sapeva fare; ma egli non era riuscito che a disgustare quell’amatore.
Tra le cose più sicuramente autentiche e di importanza figurava un grande studio del Correggio: la testa colossale della Madonna che si vede nella cupola della cattedrale di Parma. Questo studio colossale rappresentava una forte somma. Leonardo ne era entusiasta e trovava ingiusto che il ministro dell’istruzione pubblica non lo acquistasse per conto dello Stato.
Venivano poi: un gran quadro del Subleyras, un martirio di non so qual santo; una tela del Malosso: un San Michele alla porta del paradiso; un San Giorgio nell’atto di uccidere il drago; una vergine del Luini o di un suo allievo; una buona tela del Ferramola con molte figure; un cartone del Diotti, rappresentante la disfida di Barletta, e un altro cartone del Bossi.
Quand’ebbe finito di levar la polvere dalle cornici intorno alle pareti, Leonardo si accostò a due cavalletti, nel mezzo della sala, sui quali erano collocati due quadri se non i più importanti della raccolta, certo i più cari a Leonardo. Egli sollevò con un senso di devozione i veli che li ricoprivano e alzò la lucerna per contemplarli in piena luce. Riccamente incorniciati, apparvero allora i due prediletti dipinti: un Breughel autentico e un Sassoferrato meno sicuro.
Il primo — un fondo di paese con pavoni, cani e vari altri animali, squisitamente finito — non era costato nulla ad Orlando Valmeroni, l’aveva vinto a una lotteria. Il Sassoferrato invece l’aveva pagato carissimo. Rappresentava la solita vergine col bambino addormentato, il viso bianco, la fronte velata, di una dolcezza inesprimibile. Leonardo andava in estasi davanti a questa tela, che suo padre aveva voluto baciare prima di morire. Sarebbe stato felice se gli avessero concesso di tenerla per sè. Ma Klein, il negoziante, l’aveva già veduta e ci teneva: impossibile farla sparire.
Leonardo depose la lampada e il piumino sopra una panchetta, poi s’accostò alla religiosa figura e la baciò sulla fronte, dove si ricordava che suo padre moribondo l’aveva baciata. Due lacrime inumidirono i suoi occhi stanchi, un singhiozzo gli serrò la gola. Ebbe un momento di rivolta: «Non voglio vendere, no, no, non voglio!».
Si ricordò subito che aveva promesso di esser forte, che la sua famiglia aspettava da lui quel sacrificio: che egli doveva compierlo.
Non era un fanciullo: sapeva rinunziare alle sue tenerezze per quanto gli costasse; non meritava che suo cognato lo guardasse con quell’aria di pietà quasi sprezzante.
Lasciò ricadere la garza che copriva il quadro; si asciugò gli occhi, riprese la lucerna e passò da quella sala in un’altra dove erano riuniti gli antichi istrumenti musicali, le ceramiche e gli altri oggetti di poca mole e di poco valore allineati negli scaffali. Si avvicinò a una spinetta che egli aveva reso servibile.
Posò la lucerna; si assise davanti alla spinetta, e vi lasciò scorrere le dita.
Giù nella sala da pranzo, Maria levò la testa dai suoi quaderni e guardò Riccardo.
— Tuo padre è alla spinetta.
— Povero babbo, sarebbe capace di passare tutta la notte tra quelle sue reliquie. Non sente neppure il freddo che fa lassù.
Scambiarono qualche altra parola; poi la fanciulla si rimise al lavoro e Riccardo riprese la sua lettura.
La voce vuota e oscillante del vecchio istrumento scendeva malinconicamente sulle loro teste.
Una carrozza che aveva atteso qualche tempo davanti al portone partì di corsa. Angelica entrò nella sala.
— Sei qui finalmente! — esclamò Riccardo. — Dove sei stata?
— Dove mi è piaciuto. Che c’entri tu a farmi il tutore?
— Va via.
La monella ebbe una risata.
— Me ne vado perchè sono le undici e giacchè non posso andare al veglione, voglio andare a letto.
Quando ella fu uscita, Riccardo tornò a levare gli occhi dal libro. Quella parola „veglione“ buttata là, così, lo aveva colpito. Si alzò, andò nel corridoio, e chiamò:
— Caterina!
Nessuno gli rispose: la cucina era buia.
— È andata a letto anche lei — mormorò rientrando. — Ma la mamma? ma Eugenia?
— Non hai sentito che sono andate dalla Zoe?
— Voglio andare a vedere.
Maria lo guardò sbigottita.
— Perchè?
— Temo che facciano qualche sciocchezza...
— C’è tua madre!... Se si accorge che la sorvegli, avrai dei fastidi... inutili.
— Hai ragione. Aspetterò che venga giù il babbo, poi andrò a dormire. Intanto tu finirai di correggere i tuoi quaderni.
Si guardarono nuovamente e scambiarono un sorriso. La voce agonizzante della spinetta si esalava in un lamento.