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tica; martiri! di santi; paesaggi fantastici di qualche imitatore di Salvator Rosa. Una trentina d’opere di merito, alcune delle quali veramente belle, erano riunite in una saletta, che aveva le tende alla finestra e qualche mobile qua e là. Era il santuario quello. Leonardo vi entrò inchinandosi, i suoi occhi scintillarono di commozione.
Tutti i quadri ivi raccolti erano per lui capolavori. Avrebbe potuto venderli da gran tempo e a prezzi discreti, ma egli pretendeva prezzi favolosi, oppure voleva venderli insieme con gli altri.
E questa tattica, che in altri casi e in altre mani poteva avere il suo valore, non era servita che a fargli perdere qualche buona occasione. Più svelto, più intelligente, egli avrebbe potuto trarre largo profitto da quel nucleo di opere; la sua insipienza aveva guastato ogni cosa. La prima tela davanti alla quale si fermò, entrando nel santuario, era una robusta pittura di Antonio o di Vincenzo Campi, rappresentante un mercato con ceste di verdure e di frutta, e figure d’ortolani nei costumi del tempo; veniva poi un quadro di costumi romani di Lorenzo Costa, più in là alcune mezze figure del seicento, di scuola spagnola, rappresentavano dei pifferari laceri, zingareschi, pieni di vigore e di vita. Un Presepio attribuito a Leandro da Ponte, detto il Passano, era tanto