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stravano la sua poca conoscenza in fatto di pittura, erano però documenti del suo buon cuore e della sua magnanimità.
In quegli anni di fervore patriottico, un negoziante che gli faceva l’amico andava a dirgli di tratto in tratto:
— Signor Valmeroni, c’è il tale che ha un magnifico quadro (un Guercino, o un Procaccino, un Daniele Crespi, o qualunque altro), ma deve venderlo perchè non ha da vivere — con la moglie c sei figli, una pietà! — e l’ha depositato nel mio negozio. Un tedesco, un impiegato del governo gli fa la corte, e lo comprerà perchè è ricco, lo conosco. Così sarà un altro capolavoro portato via... Se ella volesse vederlo...
Già commosso e conquiso, Orlando cadeva nel tranello.
Qualche volta il degno negoziante gli diceva:
— Quando i tempi saranno mutati — e strizzava l’occhio per farsi comprendere senz’altro dire — ella potrà vendere questi capolavori alle gallerie nazionali facendo affari d’oro.
Dopo il sessanta, essendo venuto a stabilirsi a Milano nella sua casa di via Monforte, e trovandosi in un imbarazzo di denaro, un amico e compagno d’armi gli fece vendere, a non so quale ministro, una figuretta di santa attribuita a Gaudenzio Ferrari, ma Orlando non vi guadagnò nulla; poichè trattandosi del Governo