Scudo d'Ercole
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SCUDO D’ERCOLE.
Del prode Anfitrïone ita sull’orme,1
Abbandonando i lari e il patrio suolo,
In Tebe Alcmena ne venia, la figlia
D’Elettrïone salvator di genti.
Di maëstade e venustà ben tutte
Ella vincea le donne, e niuna in senno
Contendeva con lei. Tale l’incanto
Nelle nere pupille e nella fronte,
Quale nell’aurea Citerea, spirava.
Ella il suo sposo amava, e sì che mai
Nessuna donna al par di lei, sebbene
Vinto ed ucciso il genitor le avesse
In guerra per gli armenti. — Egli, lasciate
Le patrie rive, chiese a Tebe aita,
Di Cadmo ai figli imbracciator di scudi.
Coll’amata sua sposa ivi abitava
Non libando d’amore il dolce fiore
Chè vieto gli era colla sua diletta
Nel talamo giacersi, in fin che i prodi
Spenti fratelli vendicato avesse
Della sua cara, ed a vorace fiamma
Data ogni villa degli eroici duci
Dei Tafii e Telebòi:2 tal gli fu posta
Legge, e mallevador n’erano i numi.
E devoto al suo giuro a compier tosto
La grand’opra s’accinge, a lui commessa
Dalla mente di Giove. A lui s’uniro
I Bëoti di pugne avidi e stragi,
Calcator di puledri, e dagli scudi
Spiranti guerra; e i Locrii armati d’asta,
E i valenti Focei d’Alceo lo strenuo
Germe di tante genti è altero duce.
Intanto il padre dei mortali e numi
Ordisce altro disegno, onde agl’industri
Mortali e agl’immortali un forte sorga
Vendicator dei torti. Ansio d’amore
Di vaga donna, nella notte avvolto,
All’Olimpo s’invola. E presto giunto
Al Tifonio, ne va del Ficio ai gioghi
Il sapïente Giove, e ivi il divino
Suo disegno matura. In quella notte
Colla leggiadra Elettrïonia ei giacque
In dolce amplesso, e il suo desir fe’ pago.
Ma quella notte istessa il chiaro eroe,
Il prode Anfitrïon riedeva ai lari,
Compiuta già la grand’impresa. I servi
E gli agresti pastor veder non volle
Pria di salir della sua sposa il letto
Il condottier di popoli struggea
Cotanta brama! Qual’è quei che campa
Gioioso a fiero morbo, o a ferrei ceppi,
Tal dall’aspro cimento Anfitrïone
Tornava in sua magion festoso amante.
Colla sua cara tutta notte ei giacque,
Dell’alma Citerea gustando i doni.
Poich’ella dunque con un Dio corcossi,
E con un grande, illustre eroe, due figli
Nella Tebe settempila produsse,
D’impari cor benchè gemei: di spirti
Men generoso l’uno, Ificle; l’altro
Magnanimo mortal, prode e temuto,
Ercole il forte: questo ebbe dal nume
Che addensa i nembi, e quel dal valoroso
Anfitrïone: l’un di umano seme,
L’altro di Giove, che sui numi ha il seggio....
E anche Cigno, il magnanimo Aretide,
Per man d’Ercole cadde. Egli nel tempio
D’Apollo arciero lo scontrò col padre
Marte di pugne insazïato. Entrambi
Siccome fiamma rilucean nell’armi
Ritti sul cocchio. I corridor veloci
Scotean coll’ugne scalpitanti il suolo.
D’intorno al cocchio concitato un nembo
Sollevossi di polve, e i numi avvolse,
E i bei cocchi e le ruote intorno intorno
Fea risonar dei corridor la foga.
Il fiero Cigno in cor gioía sperando
Spogliar di Giove il figlio e in un l’auriga
Dell’armi rilucenti, e sè vestirne.
Ma Febo nol fe pago, anzi destogli
Contro l’Erculea forza. Il bosco tutto
Rifulse e il tempio del Pegasio Apollo
Dell’armi al lampio e del feroce nume,
Le cui luci rotavano faville.
Or qual mortale fargli fronte osava
Ercole tranne e il generoso Iola?
Chè grand’era lor forza, e invitte braccia
Sorgean loro dagli omeri su salde
Granate membra. Al suo valente auriga
Ercole allor favella: «Eroico Iola,
A me il più caro fra i mortali, assai
Offese Anfitrïon gli Dei beati,
Cittadini d’Olimpo, allorchè anciso
Elettrïon pel lati-fronte armento,
Abbandonò la nobile Tirinto,
E si recò nella turrita Tebe.
Da Crëonte ei recossi e dall’augusta
Enïoca, e d’ospizio a lui cortesi
Furo, ed uffici gli prestâr qual dêssi
A supplicanti, e l’onoraro appieno.
Colla sua sposa, colla bell’Alcmena
Ei visse lieto, e al volgere d’un anno
Noi ne nascemmo d’indole diversa
E di pensier, tuo padre ed io. Gli tolse
Giove il senno quel dì che, abbandonato
Il patrio tetto e i genitori, andonne
Ad onorar l’empio Euristeo: mal cauto!
Chè cara ei poscia ne pagò col pianto
L’irrevocabil pena. E a me pur anco
Un nume impose aspri cimenti. – Amico,
Togliti in man le redini lucenti
Dei rapidi corsier, doppia il coraggio,
E saldo il ratto cocchio e dei corsieri
L’impeto reggi, nè temer lo strepito
Dell’omicida Marte, il quale offende
Or tracotato dell’arciero Apollo
L’invïolabil luco: ei fia ben tosto,
Benchè di forte cor, sazio di pugna.»
E il buon Iola gli risponde: «Amato,
Certo dei numi e dei mortali al padre,
E al rimuggente Enosigeo, dell’alta
Tebe nume e difesa, è caro assai
Il tuo capo, poichè coi sì potente,
Magno mortale tenzonar ti è dato,
Perch’alta gloria te ne segua. Or via,
Vesti l’armi di guerra, e tosto il cocchio
Di Marte e il nostro affrontinsi in battaglia.
Atterrir ei non può di Giove il forte
Germe, nè l’Ificlide; anzi cred’io,
Che il volto ei fuggirà dei due nepoti
Del prode Alceo serrati in uno, e guerra,
Sangue anelanti più che lauta mensa.»
Disse, ed Ercole il forte a lui sorrise,
Lieto nel cor: chè acconci detti udia,
E brevemente gli rispose: «O prode
Iola alunno di Giove, omai vicina
È la terribil pugna: or qual già fosti
Valoroso ti mostra: il bruno, il baldo
Arïon destramente aggira e reggi,
E quanto puoi m’aïta.» E così detto,
Veste i gambier di fulgid’oricalco,
Insigne dono di Vulcano; il petto
Serra nella corazza aurata, e bella
Di squisito lavor, datagli in dono
Da Pallade Atenea figlia di Giove,
Quando in procinto d’affrontare egli era
Gli aspri perigli. Schermidore un brando
Agli omeri sospende il fiero eroe;
La faretra capace al tergo adatta,
Piena di molte rigide saëtte,
Del mortale silenzio apportatrici,
Ch’hanno in cima la morte, e stillan pianto;
Liscio, largo hanno il mezzo e il fondo ascoso
D’ala d’aquila fosca. Asta tremenda,
Onde di rame folgora la punta,
Egli brandisce; all’immortal sua testa
Adatta, e calca sulla fronte, un elmo
Robusto e a fregi, e ben temprato all’uopo,
Che d’Ercole divin protegga il capo.
Imbraccia quindi il ben fregiato scudo,
Non mai spezzato da rival, non mai
Solo contuso: maraviglia al guardo!
Tutt’intorno di marmo e bianco avorio,
D’ambra e di fulgid’or, spartiti in cerchi
Da lamine cerulee, ampio risplende.3
Un tremendo dragon con occhi accesi
Guata torvo dal mezzo, e fitta siepe
Mostra di bianchi, crudi, avidi denti
Di sopra al fronte orribile gli aleggia
La Dira che i mortali eccita all’armi;
Empia, che toglie il senno e il core acceca
Di chi al figlio di Giove osa far guerra,
E l’alma all’Orco ne travolve, e l’ossa
Entro la pelle putida ne secca
L’adusto Sirio della terra in grembo.
Effigiato v’è l’Urto ed il Rïurto,
Il Tumulto, il Terrore e l’Omicidio,
E v’infuria la Zuffa e la Contesa.
L’atra Chere un ferito ancor spirante,
Un che mozze ha le orecchie, ed un già spento
Pei piè si tragge infra la mischia rosso
Di sangue umano giù le pende un manto,
Guarda feroce e rabida fremisce.
Dodici teste d’orridi colúbri
Vi son, terrore a ogni mortale audace,
Che provochi a tenzon di Giove il figlio.
E quando questi pugna, odesi il croscio
Dei loro denti, e balenar le spire
Vedresti ai feri draghi, onde le macchie
Spiccano verdi al tergo e nere al collo.
Di cignali selvaggi e di lëoni
Evvi una torma: guatansi spiranti
Furor di caccia: vanno insieme a schiera
L’un dell’altro in sospetto, ed arruffata
Drizzan la giubba: chè già steso giacque
Un immane lëone, e due cignali
Nero sangue sul suolo ancor goccianti,
E colla giubba nella polve uccisi
Dai tremendi leon: pur gli uni e gli altri
Avidi son di rinovar la pugna.
Degli arcieri Lapiti evvi la lotta,4
E in mezzo il re Cenéa, Drïante, Opléa,
Essadio, Piritoo, Proloco, Mosso,
Ampicide, Faléro, Titaresio,
Germe di Marte, e simile ad un Dio,
Teseo l’Egíde; essi d’argento e d’oro
Le vestite armature. Incontro a questi
Dispiegansi i Centauri intorno al grande
Petréo, l’augure Asbólo, Arto ed Ureo,
Mimanto nero il crine, e i due Peucidi
Periméteo e Drïal, d’argento, ed auree
Clave impugnando; paion vivi, e all’urto
Volar coll’aste e colle lance in resta.
Sculti in oro vi son del truce Marte
I veloci corsieri, e il nume istesso
Di spoglie onusto palleggiando l’asta,
Infiammando i guerrier di sangue intriso
Ritto è sul cocchio, e par che vivi uccida.
Stannosi al fianco suo Fuga e Terrore
Fra i pugnanti di correre bramosi.
V’è scolpita Tritógene, di Giove
L’armipotente figlia, e qual se voglia
Accendere la mischia: in pugno ha l’asta,
In testa l’elmo d’or, l’egida al braccio,
E a fiera lotta istiga. – Il sacro stuolo
Evvi degl’immortali, e in mezzo il figlio
Di Giove e di Latona amabilmente
Temprando l’aurea cetra. Evvi l’Olimpo,
Sacra sede dei numi, evvi la sala
Conciliar degli Dei, cui fan corona
Infinite delizie. Il labbro al canto
Schiudon le dee Pïerie, e par davvero
Sciolgan canore note. – Evvi scolpito
In ben nitido stagno il fido seno
D’un mare imperversato, e par che ondeggi,
E alla caccia di pesci in ogni parte
Molti delfin che paiono natanti;
E due, d’argento, sbuffano, divorano
Pesci, di rame, palpitanti. Assiso
È un pescator sul lido, ha in man la rete,
E par che insidioso in mar la tuffi.
V’è della vaga Danae il figlio Pérseo
Calcator di puledri. O maraviglia!
È da presso allo scudo, e par nol tocchi,
Ma nell’aere si libri:5 o il chiaro Storpio
Tale in or lo facea: calzari alati
Ei porta; di ner elsa un ferreo brando
Agli omeri sospeso giù gli scende,
E ratto al pari del pensiero: a tergo
Dell’orrida Gorgòn gli pende il capo
D’argenteo velo avvolto: opra miranda!
E il lembo in oro ne rifulge: il diro,
Bruno al par della notte, elmo di Pluto
Calca la fronte al prence. Accapricciato
Sembra ratto fuggir di Danae il figlio
Dinanzi alle nefande empie Gorgòni,
Che l’incalzan d’attingerlo bramose.
Mentre su verde adamantino piano
Esse corrono, par ch’alto ne suoni
Intronato lo scudo, e due dragoni,
Che lor cingono il fianco, ergono in arco
Le teste, e si lambiscon colle lingue
Sogguardano feroci, e fan dei denti
Sentire il ringhio, e intanto alto terrore
Campeggia sui gorgonei orridi capi.
Due fronti di guerrier pugnano in campo,
Gli uni a svïare dalle patrie mura
E dai cari l’eccidio, avidi gli altri
Di stragi e prede. Caddero già molti,
Pur combattono i più. Dagli ardui spaldi
Par levino le donne acute strida
Laniandosi lo gote, e paion vive,
Opra del gran vulcano. I curvi vecchi
Fuor delle porte stannosi ristretti
Levando al ciel le palme, trepidanti
Dei figli lor che pugnano tenaci.
Dietro i guerrieri stridule rignando
Con gialli denti, crude, orride, truci
Fra lor le Cheri insanguinate han guerra
Sui caduti, di berne il cruor nero
Cupide tutte. Gli spietati artigli
Gettan sul primo in lor balia venuto
Spento o morente sanguinoso, e l’alma
Travolta è fra le nere ombre dell’Orco.
Inebriate d’uman sangue a tergo
Lanciansi i corpi emunti, e nel frastuono
Della battaglia irrompono di nuovo.
Vanno compagne lor Lachesi, Cloto,
E Atropo meno vigorosa e grande,
Benchè di quelle più distinta e annosa.
Tutte le Cheri ad un estinto intorno
Guatansi torte in fiera gara alzando
Le unghiate mani. Squallida, affannata,
Gialla, rïarsa e per fame cascante,
La Tristezza traëndosi a fatica
Va loro al fianco di lung’ugne armata
Moccio colan le nari, e sangue il volto,
Che il suol si beve: spaventosa, sozza,
Sparsa di molta cenere le spalle,
E madida di pianto. — Appresso sorge
Città turrita: sette aurate porte
Ai cardini sospese adito danno.
Altri v’esulta fra tripudi e danze,
Conducon altri su leggiadro carro
A marito una sposa, e molti attorno
Cantano l’imeneo. Splendon da lunge
Portate dalle ancelle ardenti tede.
Molli fanciulle vanno innanzi, e segue
Duplice coro. L’uno al suon di argute
Zampogne scioglie il dolce labbro al canto,
E intorno Eco risponde; ordisce l’altro
Vaghe carole della cetra al suono.
Viene d’incontro a questo un altro coro
Di garzoncei trescando a suon di flauto,
Altri intrecciando danze, altri cantando,
Altri vaghi di lazzi: ognun procede
Del flauto a tempo: di tripudi e balli
La città tutta è lieta. — In faccia a questa
V’ha chi inforcando a corridori il dorso
Prendon carriera, ed arator vi sono,
Che raccolta la tunica alla cinta,
Squarcian le opime zolle. Evvi d’ariste
Un ondeggiante campo, e colle falci
Aguzze i mietitor segan le colme
Spighe, di Cere sacro dono, in copia,
Altri ne fan covoni e apprestan l’aia
V’ha chi vendemia d’un falcetto armato,
E altri i grappoli accoglie or bianchi or neri
In canestri lunghesso un gran filare,
Che pompeggia di frondi e tralci attorti,
E ne li porta nei canestri. È in oro
Quel filar, che coi pali argentei e i tralci
Dei maturi racemi il pondo incurva.
E ognun del flauto al suon mena carole,
Altri pigia, altri svina: opra ingegnosa
Dell’industre Vulcan. — V’ha chi gareggia
Pugile e lottatore. Evvi chi anela
Prendere cacciator rapide lepri
Con due dinanzi a sè levrier sannuti
Ansanti per aggiungerle, ed ansanti
Quelle per isfuggir. Aurighi appresso
Si contendono il premio in animosa
Lena. Montati sovra i saldi cocchi
Danno carriera ai celeri cavalli
Lentando loro i freni. Rumorosi
Volano i cocchi, e l’asse alto ne stride;
Pari è la foga e la vittoria incerta,
Incerto ancora a chi fia dato il premio,
Ch’è un gran tripode d’oro entro la lizza,
Dell’industre Vulcano opera insigne.
Intorno intorno del dedaleo scudo
Lambe l’orlo Oceàn6 che gonfio appare,
Ove risonan7 alto agili cigni
A fior d’acqua nuotando, e lor d’accanto
Guizzano pesci a torme. — Opra miranda
Agli occhi stessi del tonante nume,
Per cui voler sì bello e forte scudo,
E adatto al braccio fabbricò Vulcano.
Se lo imbraccia di Giove il nobil figlio
Fieramente, e d’un balzo alacre ascende,
Pari al baleno dell’Egioco padre,
Il pieghevole cocchio, e il prode auriga
Monta pur esso, e lo governa e regge
A lor ne venne l’occhi-glauca Diva,
E brevemente l’incorò dicendo
«Salvete, o prole di Linceo divino.
Il monarca dei numi, il sommo Giove
Spegnere Cigno vi consente, e l’armi
Rinomate vestirne. E un altro detto,
O tu fra tutti il più valente, ascolta.
Quando a Cigno rapito avrai la dolce
Vita, il lascia coll’armi ove cadeo,
E che sorgiunga l’omicida Marte
Attendi non veduto; e dove il fianco
Avrà scoperto del dedaleo scudo,
Gli vibra un’acre punta, e tratti indietro
Chè a te non lece i corridor rapirgli
E le armi insigni.» – E così detto, il cocchio
Ratto ascende la Dea, l’egida avendo,
Eterno pegno di vittoria, al braccio.
Iola, germe divin, ferocemente
Allora grida ai corridor, che ratti
Divorando la via traggono il cocchio.
L’occhi-cerulea Diva alto agitando
L’egida doppia in lor la foga, e intorno
Ne rimbomba il terren. — Simili a fuoco
Ed a procella insiem vengono innanzi
Marte di pugne insazïato e Cigno
Domator di puledri: i corridori
Giunti a fronte nitrirono feroci,
E n’echeggiaro i clivi. Ercole il forte
Così primo favella: «O stolto Cigno,
Perchè i ratti corsier contro ne spingi,
Contro noi già temprati in duri rischi?
Il tuo lucente cocchio or via ritraggi
Da banda, e cedi il passo. Io drizzo il corso
Al re Cëice, che possente e giusto
Sovra Trechine impera: e tu lo sai;
Poi che la figlia sua cerula gli occhi,
Temistona impalmasti.... Or via ti dico
Chè se a tenzone scendiam noi, camparti
Vorrà Gradivo invan dal fato estremo.
Rammenta, ch’altra volta ei l’asta mia
Provò, quel dì che all’arenosa Pilo
Mi si fe’ contro insazïabilmente
Cupido di battaglia. Egli tre fiate
Colto dalla mia lancia a terra cadde
Collo scudo ammaccato. Furibondo
D’un quarto colpo gli ferii la coscia,
E molta carne gli stracciai: roverso
Dell’asta all’urto nella polve ei giacque;
E segno di ludibrio ai Divi eterni
Fatto lo avrei, se cedere ei potea
Al mio valor le insanguinate spoglie.»
Disse: ma Cigno squassator di lancia
Negò ritrarre i corridori e il cocchio.
Dai saldi cocchi allor rapidi a terra
Ambo balzâr, del sommo Giove il figlio,
E quel del Dio dell’armi: avean gli aurighi
I criniti corsier tratto vicini.
All’impeto dei passi rimbombonne
Alto la terra. Come due macigni
Divelti da montana erta giogaia
L’un sull’altro dirupansi, e nell’alta
Ruina traggon seco e pioppi e querce,
Finchè batton sul fondo; essi del pari
Ruinar fragorosi uno sull’altro.
Dei Mirmidón la città tutta echeggia
Al loro grido, e l’inclita Iaolco,
Elice ed Arna e la feconda Antia
Così sonanti s’avventâr. Profondo
Tuonò Giove possente, e giù dal cielo
Versò sanguigne stille, al prode figlio
Segnale della mischia. E qual zannuto
Fiero cignal,8 che di pugnare ha fermo
Col cacciator nelle montane selve,
Curva la giubba le sue zanne affila
Versando bava dal rignoso ceffo,
Ruote di fiamma sono gli occhi, ed irto
L’aspro dosso è per rabbia; iroso al pari
Giù dal cocchio balzò di Giove il germe.
Quando la bruna stridula cicala
D’intra le frondi col suo canto annunzia
All’uom l’estate, di rugiada molle
Pasciuta e abbeverata; essa dall’alba
Non cessa dal suo metro il giorno intero,
Mentre le facce adugge il Sirio, e molli
Di sudore ne fa; quando l’arista
Spunta prima del miglio seminato
Nell’ardente stagione, e l’uve acerbe
Tinge dubbio colore, allora avvenne
Fra i duo rivali la tremenda pugna.
E come due lïon per cerva uccisa
L’un contro l’altro rabidi s’avventano
D’infra i denti mettendo un truce rugghio;
O come du’ avoltoi dal rostro adunco,
Dai torti ugnoni, in alta rupe azzuffansi
Forte rombando per montana cerva,
O capriolo delle selve alunno,
Cui d’una freccia volata dall’arco
Spense un garzone, che del loco ignaro
Rinvenirlo non sa, ma quei ben tosto
Poser l’occhio alla preda, e a cruda guerra
Scesero intorno ad essa; i due rivali
Scontraronsi così. Cigno anelando
Spegner di Giove il figlio, avventò forte
Allo scudo di lui l’asta ferrata.
Ma nol contuse: chè d’invitta tempra
Era il dono divin. L’Anfitrionio,
Lo strenuo Ercole allor colla lung’asta
Al nemico passò tra scudo ed elmo,
Di sotto al mento, il nudo collo, ed ambi
I nervi gli squarciò l’arma funesta.9
Onde spense al rival l’immane forza,
Che ruinò qual quercia, e come un alto
Dirupo, che la folgore rovente
Di Giove abbia divelto; ei così cadde,
E le bell’armi gli tonaro intorno,
Di Giove il figlio che indomato ha il petto,
Steso al suolo lasciollo, e il truce Marte,
Che contro gli si fea, nascoso adocchia.
Qual tremendo lïon, che a caso incontri
Una fiera: l’è sopra, e cogli acuti
Unghion le straccia il vello e la gioconda
Vita le spegne, e il fero cor satolla;
Terribile rotando i glauchi lumi,
E colla coda si sferzando i fianchi
Le scava il tergo colle zampe, e niuno
Di fronte osa mirarlo e fargli guerra;
Tale di pugna cupido, e più baldo,
Di cor l’Anfitrïonio assalì Marte,
Che cruccioso di lui venia sull’orme;
E ambo ruggendo si scontrâr. Qual masso
Svelto d’alpestre cima ruinando
Per erta lunga romorosa scende,
E batte in alta rupe, e ivi s’arresta;
Tale irrüendo il gravator10 di cocchi,
Il crudo Marte si scagliò sonante
Contr’Ercole, che in men che non balena
Risponde a quel furor. Pallade allora,
Dell’Egioco figliola, innanzi a Marte
Venne imbracciando l’egida tremenda,
E con torv’occhio lo guatando, alati
Accenti gli drizzò: «Marte, raffrena
Il tuo furore e l’invincibil destra;
Poichè di Giove al generoso nato
Non ti lece dar morte, e l’inclite armi
Vestirne: dalla pugna or dunque tratti,
Nè opporti al voler mio.» Disse, ma il duro
Core di Marte non piegò. Tonante,
Orrendamente palleggiando l’armi
Qual fiamma folgoranti, Ercole assale
Cupido d’atterrarlo. A tutta forza
Vibra la ferrea lancia, corrucciato
Dello spento suo figlio, al grande scudo.
Ma dal suo cocchio l’occhi-glauca Diva
Svia dell’asta la punta. Acerbo duolo
N’ha Marte, che snudando il brando acuto
Addosso al generoso Ercole irrompe.
L’Anfitrïonio cupido del fero
Scontro gl’impiaga l’indifesa coscia
Sotto il dedaleo scudo, e molta carne
Girando l’asta gli dilania, e in mezzo
Dell’arena lo spiomba. A lui veloci
Fuga e Terrore trassero vicini
I corridori, e nel fregiato cocchio
Levatolo dal suolo il riposaro,
E incontamente i corridor sferzando
Il ferito portâr nell’alt’Olimpo.
D’Alcmena il figlio e il generoso Iola,
Tolte l’armi dagli omeri di Cigno,
Ripresero la via. Giunsero tosto
Coi corridori alipedi a Trechine
E al grand’Olimpo l’occhi-glauca Diva
Fece ritorno e alla magion del padre.
Ceïce quindi diè sepolcro a Cigno,
E i numerosi popoli vicini,
Anta, l’illustre Iolco, Elice ed Arna,
E la città dei Mirmidóni: tanti
Ne convenner devoti al re Ceïce,
Caro ai beati Dei. Ma pietra ed urna
Coll’alta sua fiumana Anauro11 ascose;
Così volendo di Latona il figlio
Chè Cigno insidïoso ognun predava,
Che a Pito gli adducea scelte ecatombi.
Note
- ↑ [p. 253 modifica]Le prime due parole del testo tradotte letteralmente danno: O quale, il che suppone, che qui si ha una continuazione, non un cominciamento di canto; di che si parlò già a pag. 72.
- ↑ [p. 253 modifica]L’eroe eponimo dei Tafii è Tafio, discendente di Perseo. Questo popolo abitava una delle isole Echinadi, rimpetto alla foce dell’Acheloo, a sud-ovest dell’Acarnania: di esse tocca Omero, Il., II, 625. I Teleboi abitavano le isole poste fra Leucade, a nord delle Echinadi, e la costa del continente, possedendo pur il lembo marittimo dell’Acarnania. Di essi parla Virgilio, En., VII, 735, quale colonia stanziatasi nell’isola di Capri.
- ↑ [p. 253 modifica]Da questa prima parte della descrizione dello Scudo rilevasi, come fosse nota agli antichissimi l’arte dell’intarsiatura dei metalli: su di che speriamo di legger presto un pregevole interessante lavoro del marchese Girolamo d’Adda, studiosissimo e felice investigatore di quanto le arti belle hanno di più squisito e peregrino.
- ↑ [p. 254 modifica]La guerra dei Lapiti coi Centauri accenna, come bene osserva il Göttling, al primo miglioramento recato nell’ordinare le schiere a battaglia e nella scelta delle armi, di fronte a torme imperite d’ogni arte guerresca.
- ↑ [p. 254 modifica]
- ↑ [p. 254 modifica]Lo scudo rendea dunque l’imagine della superficie terrestre, quale era concepita nel periodo epico, cioè una sfera terminata in giro dall’Oceano. Il qual concetto continua fino ad Ecateo (5oo av. C.), ed è Erodoto, che primo spezza quel cerchio.
- ↑ [p. 254 modifica]V’ha chi traduce cantavano: la voce del testo è ēpuon. Ma chi ne consideri il valore etimologico, vede tosto, che cantavano non le va a capello. Si ha infatti in quella parola la radice indiana vāk′, che vedesi pure in vōc di voce, la quale non implica certo idea di canto. Il poeta quindi intese dire, che il fabbro ingegnoso avea rappresentato i cigni col becco aperto, come in atto di metter fuori la garrula voce, e colle ali dispiegate in atto di volar a fior d’acqua, e di farle stridere,
- ↑ [p. 255 modifica]Imagine eguale occorre in Omero, Od., XIX, 446 e altrove.
- ↑ [p. 255 modifica]D’egual ferita muore Diope per mano del capitano dei Traci. OM., Il., IV, 519 e segg.; ed ugual ferita, ma non mortale, riceve Enea da Diomede, Il., V, 307. Diversa solo è l’arma feritrice e la parte offesa del corpo.
- ↑ [p. 255 modifica]La parola del testo è brisarmatos che dice gravator di cocchi. Credeasi che il corpo degli Dei fosse d’assai più ponderoso di quello degli uomini. Quando Pallade monta in cocchio al fianco di Diomede (omero, Il., V, 838 e segg.):
- L’asse al gran pondo cigolò: chè carco
- D’una gran Diva egli era e d’un gran prode.
Trad. di MONTI.
Così il pilota dei corsari, che rapiscono Bacco per averne il riscatto, dice ai compagni (omero, Inni, VI, 17 e segg.):
- O qual possente Iddio rapiste, o amici,
- Ed or legate voi! saldo naviglio
- Portar nol può: chè certo è Giove, o Apollo
- Dal fulgid’arco, ovver Nettuno....
- ↑ [p. 255 modifica]Fiume in Tessaglia.