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     Che ruinò qual quercia, e come un alto
     Dirupo, che la folgore rovente
     Di Giove abbia divelto; ei così cadde,
     E le bell’armi gli tonaro intorno,
Di Giove il figlio che indomato ha il petto,
     Steso al suolo lasciollo, e il truce Marte,
     Che contro gli si fea, nascoso adocchia.
Qual tremendo lïon, che a caso incontri
     Una fiera: l’è sopra, e cogli acuti
     Unghion le straccia il vello e la gioconda
     Vita le spegne, e il fero cor satolla;
     Terribile rotando i glauchi lumi,
     E colla coda si sferzando i fianchi
     Le scava il tergo colle zampe, e niuno
     Di fronte osa mirarlo e fargli guerra;
     Tale di pugna cupido, e più baldo,
     Di cor l’Anfitrïonio assalì Marte,
     Che cruccioso di lui venia sull’orme;
     E ambo ruggendo si scontrâr. Qual masso
     Svelto d’alpestre cima ruinando
     Per erta lunga romorosa scende,

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