Satire (Persio)/Note/Alla Satira V
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NOTE
Orazio alle fonti d’Epicuro e Aristippo aveva attinte le massime di una indulgente e cortigianesca filosofia, quale a’ suoi tempi si confaceva. Persio più austero d’Orazio, e vivente in tempi più contaminati e difficili, predicò ne’ suoi versi le stoiche discipline; parlò della virtù non per pompa ma per sistema, non derise il vizio, ma lo esecrò; non pattuì col delitto, ma apertamente il perseguitò, e fu spettacolo degno di maraviglia il vedere la severità di Zenone e l’onestà di Crisippo negli scritti e sul volto di nobilissimo e bellissimo giovinetto. Quindi la tanta disparità che s’incontra nelle opere di questi due ingegni, dico d’Orazio e di Persio, ognuno de’ quali dipingendo se stesso e il suo secolo adoprò colori sì opposti, quanto lo erano le dottrine che professavano, quanto differiva la galanteria della corte d’Augusto dalle atroci libidini di Nerone. Il giovine discepolo di Cornuto si alza dunque di molto pel rigore delle sentenze sopra il cinico amico di Mecenate, e la presente satira ne fa prova. Considerati ambidue come filosofi, l’uno è Senocrate, l’altro è Diogene, ma Diogene colla porpora di Aristippo. L’uno inculca, e ciò che più monta, mette in pratica i dogmi dell’onesto e del retto; l’altro li raccomanda colle parole, e li tradisce col fatto; l’uno è tutto pudore, l’altro lacera ad ogni passo il velo della verecondia con una disinvoltura tutta degna delle cene di Trimalcione; l’uno con angelica purità raccomanda composito jus fasque animo, sanctoque recessus Mentis, et incoctum generoso pectus onesto; l’altro, tument... cum inguina, num si Ancilla, aut verna est præsto puer, impetus in quem Continuo fiat, mali tentigine rumpi? Non ego. L’uno in somma è il catechismo della virtù, l’altro è l’apostolo della mollezza, e il breviario de’ cortigiani.
L’officio di Satirico, perchè bene si adempia, richiede una coscienza che non conosca rimorsi, e tal caratere che sicuro di sè medesimo non tema le grida nè gl’insulti del vizio perseguitato. Persio, Giovenale, e fra noi Parini ed Alfieri (onorate ed acerbissime ricordanze) furono uomini di questa tempra. ma Orazio domato dai benefici del dispotismo, nudrito della voluttà, ed uno egli stesso per confessione sua propria della mandra beatissima d’Epicuro, non poteva Orazio investirsi di quella limpida bile che bolliva nel petto di que’ severi.
Occorre tuttavolta al pensiero una riflessione, che torna in molta lode del Venosino. Augusto, spenta la libertà della patria, propostosi di estinguere pur anche le memorie delle inique sue proscrizioni, vide esser poco l’aver sopito colla clemenza il furore delle congiure, che contra lui rinascevano tutto di più ostinate e più fiere dal sangue stesso in cui le affogava; vide (e fu Mecenate che gliel fece vedere) che l’unico partito a cui appigliarsi, era quello di comprare co’ beneficj la benevolenza e il perdono degli scrittori; vide che l’opinione non dipendeva dalle aste che li circondavano, ma dalla penna taciturna e romita de’ letterati; vide esser questi, e non altri, che nel gran libro della fama registrano l’ignominia, o la gloria de’ correttori delle nazioni, e che la posterità, ricevendo come sacre le sentenze dello storico e del poeta, istituisce il suo rigoroso giudizio secondo il processo che da questi le vien consegnato. Assistito adunque nel maneggio delle cose politiche da quell’accorto Toscano, Augusto ebbe il buon senno di seguirne esattamente i consiglj. La corte si cangiò pressochè in un liceo, e Mecenate accarezzando i buoni poeti, precipui dispensatori della pubblica lode, e cacciando i cattivi, la cui lode è grandissimo vituperio, due buonissimi effetti ne conseguì; e il primo fu quello di mansuefare coll’incantesimo delle Muse l’indole sanguinaria d’Augusto; l’altro di tirare a poco a poco il velo della dimenticanza sulle passate carnificine.
In questo stato di cose l’epicureismo divenne il sistema meno pericoloso, che si potesse da’ poeti abbracciare. Quando non è più lecito il parlare di libertà, quando le profonde e calde commozioni dell’animo vengono considerate come attentati contro l’assoluto comando, non rimane ai talenti altro miglior partito che quello della prudente ed onnipotente necessità, tacere e godere. Si abbandona il sentimento d’una libertà divenuta impossibile, ma si conserva allo spirito (ragiona quì con molta finezza mad. de Staël) un qualche avanzo di dignità nel seno medesimo del servaggio, nobilitando le indolenze della vita, e dando alla stessa voluttà una cert’aria di filosofia, consolatrice de’ mali che incessantemente tormentano l’esistenza. Le riflessioni sulla brevità della vita, che Orazio mesce di continuo alle sue più ridenti pitture, l’immagine della morte ch’egli mai non resta di presentare al fianco medesimo della beatitudine, anche quando ragiona col dispotismo sul trono, queste verità coraggiose ristabiliscono tra lo schiavo ed il tiranno una qualche eguaglianza. Elle sono una specie di citazione che la filosofia produce al tribunale della natura contro la tirannía.
Altronde il monarca di Roma e del Mondo nel seno della pace recente di che godevano le provincie, aveva bisogno di essere divertito e lodato. I talenti poetici che procacciavano ad Orazio l’amicizia d’Augusto e la benevolenza de’ grandi, non sarebbono stati bastevoli a conservargliela senza il talento d’una consumata prudenza, al sola virtù di cui sia permessa la pratica quando si è perduta la libertà. Orazio possedeva eminentemente questo utile requisito. Ei sapeva a maraviglia e quando tacere e quando parlare, e portato, com’era, dalla natura alla satira, egli l’esercitò di maniera da non ingerire giammai il sospetto di bilioso misantropo, qualità abborrita in tutte le corti, qualità che avrebbe distrutta la sua fortuna. Prese quindi il partito di non armarsi del pungolo della satira, che per ridere e trastullarsi alle spese del vizio.
Tuttochè i versi d’Orazio sieno la storia fedele de’ suoi costumi, de’ suoi pensieri, di tutte le sue morali affezioni, egli è malagevole nondimeno il definirne il vero carattere, tanta n’è l’incostanza. Ora ei predica la mediocrità, ora le massime dell’ambizione; ora è avido del consorzio de’ grandi, ora li sfugge come un contagio, e sospira la solitudine. Settator moderato di tutte le opinioni quì lo trovi un Zenone, là un Epicuro. Tutta la sua vita è un sistema di voluttà mescolata di ragione e follìa; tutta la sua morale è condita di schietta onestà e del più basso libertinaggio. Per trovar grazia presso il fortunato oppressore della repubblica, dipinge se stesso un segnalato codardo, che nella battaglia di Filippi gitta lo scudo; un momento dopo fa il panegirico di Catone. Colmato di favori, egli trova di che lamentarsi in braccio della fortuna; patisce la malattìa della gente felice, il disgusto de’ beni. Per disannoiarsi si fa strappazzare dal proprio servo, e gli pone in bocca la satira di se stesso con tanta grazia, che il lettore non che assolverlo d’ogni colpa, gliene sa buon grado e gli applaude, perchè vi trova il suo conto, il perdono de’ suoi difetti. Persio assorbito nella ricerca del sommo bene morale, e fortemente penetrato de’ sentimenti d’una libertà più che romana, si fa scrupolo di alzar un dito senza il consenso della ragione. Ni tibi concessit ratio, digitum exere; peccas. Mai un sacrificio alle grazie, mai la bocca composta al riso. Egli il tenta bene qualche volta, e pare ancor persuaso di riuscirvi, rendendone certi egli stesso di essere un buffone che non può contenersi dal ridere: sum petulanti splene cachinno. Ma nessuno gli presta fede, nè il suo temperamento lo consentiva. Accade a Persio ciò che a Demostene, del quale fu osservato che mai tanto si allontanò dal suo ingegno, quanto allorchè si adoprò di comparire giocoso. Le facezie di Persio, qualunque volta ei le tenta, riescono goffe ed insipide: più cerca lo scherzo, più lo scherzo gli sfugge e svaporasi: è un orso col cappello in testa, che balla a suono di piffero.
Questo difetto, se pur tale vogliam chiamarlo, viene compensato da Persio co’ nervi dello stile, colla vibrazion delle idee, col peso de’ sentimenti, prerogativa tanto apprezzata dal critico d’Alicarnasso, che chiamò cadaveriche le orazioni d’Isocrate, perchè tutte eleganza ma prive affatto di gagliardìa.
Orazio rade volte adempisce nelle sue satire quell’ottimo precetto suo: denique sit, quod vis, simplex dumtaxat et unum. Perciocchè qual materia ei prenda a trattare, poco dopo te l’abbandona, e la più parte delle sue satire non è che una bella ed elegante congerie di nudi e sconnessi insegnamenti morali alla maniera di Teognide e di Focillide. Persio assai altrimenti. Tu nol vedi mai dimenticarsi della sua tesi, nè mai digredirne che per rinforzarla. Conserva costantemente il metodo filosofico, e procede di prova in prova, per modo che le sue satire (salvo la prima d’argomento tutto rettorico) sono, ciascuna nel loro genere, un breve trattato di ragionata e pretta morale, scevra di quei miscuglj eterogenei, che viziano la semplicità del soggetto. Non mi è nascoso, che molti anzi che biasimare trovano bello in Orazio questo stesso disordine filosofico, bello l’abbandono del suo primo proposito. Comunque sia, il simplex dumtaxat et unum nelle sue satire non si trova; e convien confessarlo, le leggi tornano inefficaci quando il primo a violarle è lo stesso legislatore. Lungi dal venire nella dura sentenza del Casaubono e dello Scaligero, che più tocchi dalla forza che dalla grazia dell’espressione, più ammiratori d’una certa metodica gravità vestita di splendido colorito, che sensitivi alla venustà dello stile e all’urbanità de’ concetti pospongono Orazio a Persio e a Giovenale, io mi sarò contento di porre per massima questa lode di Persio, di aver esso il primo nobilitata la satira, vestendola di Socratico paludamento, e di aver parlato della virtù non come cinico ed incoerente aretologo che morde il vizio per passatempo, ma come gravissimo Sofo che tende seriamente all’emendazione del vizio, meno sollecito di brillare che d’istruire. Egli ha spogliata la satira di quell’odiosa idea che seco porta il suo nome, sollevandola al nobilissimo officio di amica della virtù, e di rigida persecutrice del vizio solo; laddove Orazio coll’arme acutissima del ridicolo mette qualche volta in timore la virtù stessa, e le toglie la confidenza di se medesima per quei difetti, che inseparabili dalla mortal condizione accompagnano anche i caratteri più generosi. Il ridicolo non risparmia le stesse qualità più eccellenti; e Socrate, il più virtuoso tra gli uomini, diventa oggetto di riso sotto la sferza del buffone Aristofane. Si ha delle armi contro l’arroganza, contro la calunnia, contra l’insulto, ma nessuna contra il ridicolo. Concludo che al tribunale d’Orazio verun difetto è sicuro; e l’umana virtù, che mai n’è disgiunta, sta continuamente in sospetto di se medesima. Al tribunale di Persio non trema che il vizio.
Ciò dunque che cercasi da’ sapienti nello scrittore filosofo, indignazione col delitto, orgoglio colla fortuna, contumelia coll’ambizione, acrimonia colle turpi passioni, ciò tutto si è adempito da Persio rigorosamente, e la sua filosofia a petto dell’Oraziana è una vereconda matrona accanto ad una frizzante ed amabile cortigiana. E queste sono le precipue discrepanze che parmi di ravvisare fra il sistema morale de’ due satirici di cui parliamo. Quanto allo stile: castità di lingua, grazia di narrazione, attico sale, ed una certa inimitabile leggiadrìa che si diffonde perennemente per tutte le membra del suo discorso, sono le virtù eminenti e sentite dello stile Oraziano nel didascalico. Persio è grandemente al dissotto di tutte queste prerogative, ma più acre, più rapido, più unito. Orazio disegna con grandissima accuratezza, e non trascura un capello. Persio tira il pennello alla maniera del Caravaggio, e ti presenta una testa con un tratto di linea. A queste dissimiglianze aggiungi l’altra dell’artificio poetico. L’esametro d’Orazio somiglia bene spesso più al numero della prosa, che a quello d’un linguaggio soggetto a certe regole d’armonia. Questo troppo sprezzamento di verso a Persio non piacque punto, ed egli benchè perpetuo imitatore d’Orazio, preferì un genere di verseggiare più armonico, più rotondo, e sovente così magnifico che si accosta alla maestà virgiliana. Ben so che questo per alcuni è difetto, prescrivendosi che il verso didascalico debba serpeggiare per terra. Ed io amo ancor io di vederlo qualche volta per terra, ma non così spesso, nè in forma di rettile, nè stramazzato, nè privo di tutta poetica fisonomia. Chi più tenue di Virgilio nelle Georgiche, e chi più molle, più fluido, più sonante nel tempo stesso? E pazienza ai versi zoppi nel didascalico: ma nell’eroico? e senza effetto, senza bisogno, senza ragione? Un cotale mi voleva un giorno persuadere dell’armonia imitativa di quel pentametro Catulliano: Troja virum, et virtutum omnium acerba cinis. Io corsi a cercare una corda per legarlo e tradurlo nell’ospedale.
Se da Orazio s’impara a beffarsi del vizio, da Persio ad amar la virtù, da Giovenale impareremo a sdegnarci contra il delitto: e di lui adesso dirò, poichè nell’argomento, a cui posi mano, mi parrebbe fallo il tacerne.
La colpa sotto la penna dello storico, del poeta, dell’oratore è una fonte abbondante d’idee altissime e generose. Quante belle forme d’indignazione non ha somministrato all’eloquenza di Tullio la rapacità di Verre, il delitto di Catilina, e a quella di Tacito la crudele politica di Tiberio? Di quante belle opere non andiamo noi debitori alla bile? Ella è stata la Musa di Giovenale e di Dante. La natura non avevane posto ne’ loro petti che le scintille. L’acciajo che le fece scoppiare furono le atroci pazzie di Domiziano, e l’ingiusta persecuzione de’ Fiorentini. Dappertutto i sentimenti degli scrittori prendono qualità dal governo sotto cui vivono, e certe caratteristiche distintive le quali pajono impresse dalla natura, non sono sovente che puro effetto delle circostanze politiche. La temperata dominazione d’Augusto escludeva dagli scritti quella collera e virulenza che vediam regnare nelle opere posteriori, e Giovenale alla corte di quel munifico protettor de’ talenti sarebbe stato forse ancor esso nulla più che un polito e subdolo cortigiano. All’epoca di Augusto sendo succeduta quella di Nerone e poi l’altra di Domiziano, l’eccesso della miseria pubblica e la totale dissoluzion de’ costumi inferocì gl’intelletti, e dal seno medesimo della più orribile servitù nacque la libertà degl’ingegni, e il bisogno di esser fieri, onde non essere conculcati. Si rimprovera a Giovenale il menare con troppo sdegno la sferza, e pare che questi mansueti censori dimandino indulgenza pel vizio quasi timorosi dello stafile per sè medesimi. Ma una buona coscienza che vive tranquilla
si compiace a queste magnanime indignazioni, ed ama di veder il vizio fremere e impallidire sotto il flagello. Nocet bonis qui parcit pessimis, dice Seneca; e cessa di esser buono, aggiunge Plutarco, chi transige coll’uomo perverso. Considerando ie abbominazioni del secolo di Giovenale, è follia il desiderare nelle sue satire l’urbanità che distinse quelle di Orazio. Un imperadore Romano, l’arbitro della terra, che per le stanze cesaree si diverte a dar la caccia alle mosche, egli è spettacolo certamente degno di riso. Ma come si pensa che mentre Domiziano trastullasi con le mosche, si strascina al patibolo l’innocenza; che dalle segrete accuse d’un delatore dipende la vita e l’onore de’ cittadini; che le sostanze de’ vivi e de’ morti s’ingoiano dal fisco imperiale onde saziare l’avidità del soldato; che l’unica strada di non perire è il mestier del bardassa, del ruffiano, dell’adultero, della spia, come, io dico, il pensiero si arresta su queste scene d’orrore, la facezia muore sul labbro, e le ridenti immagini, i lepori, gli scherzi sono un insulto alla comune calamità. Il rimanervi insensibile e indifferente nel lutto pubblico, e dar opera allo studio senza mescolarvi gl’interessi del cuore non è privilegio che degl’ingegni unicamente consecrati alle scienze positive; i quali battendo una strada separata ed intatta dalle grandi burrasche delle passioni, reputano pensiero perduto ed inutile tutto quello che non è calcolo. Immersi profondamente nel contemplare le leggi del mondo fisico, poco assai li perturba lo strepito del mondo morale; e sia Caligola o Marc’Aurelio che governa l’imperio, ciò nulla monta per un Geometra, purchè lo si lasci descrivere delle curve. Siracusa va tutta a ferro ed a fuoco, e Archimede si sta a tirar linee sulla polvere. Lo scrittore al contrario, che intende alla meditazione de’ morali fenomeni, non si commove punto de’ fisici. Corre un domestico ad avvisare Pier Cornelio che la casa s’incendia; e discorretene con mia moglie, gli risponde il poeta senza muoversi dallo scrittojo.
Giovenale si compone, gli è vero, alcuna volta alla beffa: ma la sua buffoneria leva la pelle; è un riso che ti morde, e ti strazia. Fa conto di veder Diogene che sacrifica alle Grazie col bastone alla mano e maledicendo chi passa. Giovenale si avventa si fiero ai malvagi con cui se la piglia, che trucida di compagnia, ed infilza nel medesimo strale chiunque gli si para davanti contaminato di qualche vizio. Cosi ne’ suoi versi non frizzo, non parola, per cosi dire, che tutta non grondi di vivo sangue. Il suo stile è rovente, il suo pennello non disegna che grandi scelleratezze: egli considera la virtù come cosa morta del tutto, e pare ch’ei si reputi rimasto vivo egli solo per vendicarla. Ma v’è un punto di vista sotto il quale egli merita una peculiare attenzione. La poesia ha divinizzato sovente, pur troppo la tirannìa. Giovenale ha espiato questo delitto: egli ha saldato con la ragione il debito contratto da Virgilio ed Orazio.
Lo spirito umano che cerca irrequieto la novità, e si piace del paradosso, si è esercitato più volte nel panegirico dei mali che affliggono l’umanità. Non v’ha disastro oggimai nè morale nè fisico, che in tanta libidine di stravaganze non abbia trovato il suo lodatore. Si è deificata l’ignoranza, la pazzia, l’infedeltà. Sono state magnificamente encomiate la febbre, la guerra, la pestilenza; e acutissimi ingegni si sono seriamente occupati nel dimostrare analiticamente l’utilità delle pubbliche disavventure. Se ascoltiamo gli apologisti del lusso veruna cosa è più necessaria alla prosperità degli stati. Egli fa fiorire le arti, egli è l’anima del commercio, ei mette in circolo la ricchezza per tutte le classi de’ cittadini; il lusso in somma è la vita delle nazioni. Non è del mio istituto l’esaminare la solidità di questi principi; ma Giovenale che ci ha lasciata una viva e calda pittura delle orribili profusioni e scialacqui de’ suoi tempi infelici guardava certamente il lusso di altr’occhio che quello di Mandeville. Altronde il lusso di Domiziano e de’ potenti suoi schiavi, tutto sangue del popolo, e vicenda perpetua delle più nefande libidini, era ben altro che il lusso predicato da Stevart e da Hume, lusso circoscritto dalle leggi del pudore e dai sociali riguardi e dal rispetto dell’opinione. Perciò il dimandare nel caso di Giovenale moderazione di bile e atticismo di modi, egli è un pretendere ne’ lupanari della Suburra o nelle cene d’Atreo le Grazie d’Anacreonte.
Ma un’accusa gravissima si promuove da’ censori di Giovenale contro l’aperta oscenità di molti suoi versi. Cessi il cielo, ch’io di ciò prenda a scolparlo. Raccomanda male i costumi chi calpesta la verecondia. Mi sia però lecito d’osservare, che Giovenale ha comune questa colpa con altri molti, a’ quali si è cortesi di larga indulgenza, e comune con Orazio principalmente, colla cospicua differenza che in Orazio la disonestà è una galantería, un trastullo, e spesse volte un consiglio; ma in Giovenale una virtuosa e severa detestazione. Aggiungi che il secondo scriveva in secolo corrottissimo, in cui le leggi eran mute, e l’antica verecondia romana interamente disfatta. Per avvivare negli animi le scintille già spente della virtù era dunque mestieri presentare il quadro del vizio in tutta la sua turpitudine, onde farlo efficacemente odioso ed orribile. Del resto al v. 35 della quarta di queste satire, ho dichiarato schiettamente il mio animo su questo punto.
Dopo tutto (giacchè è pur tempo di terminare), che verremo noi a concludere? Qual terremo più in pregio de’ tre Satirici? Noi amiamo, noi stimiamo noi stessi ne’ libri che più ci contentano, e riveliamo senza badarvi i segreti del nostro cuore. Un letterario giudizio, ove soprattutto intervenga la parte morale, non è dunque assai volte, che una gratuita imprudente manifestazione di ciò che coviamo dentro di noi. Tuttavolta affinchè niuno m’incolpi d’aver voluto elevare o deprimere con passione, ove dal fin qui detto non apparisse chiaro abbastanza il mio pensamento, finirò d’aprirlo senza pretensione e timore.
L’Einsio incantato d’Orazio nulla vede in Giovenale ed in Persio che meriti l’onore del paragone. Il Casaubono aggiudica a Persio la palma su gli altri due. Salta in mezzo il Rigalzio con lo Scaligero, e dichiarano in principe de’ Satirici Giovenale. Un gran volgo di altri eruditi in qualità d’interpreti e traduttori si gettano chi di qua chi di là, anteponendo sempre l’autore che più fatica lor costa. Se le cure che ho perdute su Persio dovessero far norma del mio giudizio, ognun vede a chi s’andrebbe il mio voto. Ma in opere di soggetto morale due doveri io distinguo nello scrittore; l’istruzione e il diletto, i bisogni del cuore e quei dello spirito. Se contemplo questi tre ingegni puramente come satirici, la lite di primazia può agitarsi tra Giovenale ed Orazio. Il mio Persio è troppo modesto per non entrare di competenza: ma ricordiamci ch’egli scriveva colla prima lanugine sulla barba, e i suoi rivali colla canizie. Se muovesi disputa dell’artificio poetico e dello stile, sarebbe delirio il contendere con Orazio. Ma lo stile di Persio derivato perennemente dall’Oraziano è più castigato che quello di Giovenale, oltre una certa tutta sua propria velocità d’espressione che lo rende unico e solo tra i classici tutti quanti. Se ponderiamo finalmente il valore delle sentenze, giudico Orazio il più amabile, Giovenale il più splendido, Persio il più saggio. Confuso tra gl’infimi nelle lettere, non ligio nè ad un sol libro, nè ad un solo bello esclusivo, estimando tutti gli scritti secondo che mi commovono, nemico di tutte le parasite eleganze, e rapito di quelle uniche che mi portano qualche cosa nell’anima, con pace dell’Einsio, del Casaubono, e dello Scaligero, e di tutti i devoti d’un culto solo, io mi dono or all’uno or all’altro de’ tre Satirici, siccome il cor mi significa. Quando cerco norme di gusto, vado ad Orazio: quando ho bisogno di bile contra le umane ribalderìe, visito Giovenale: quando mi sforzo d’esser onesto, vivo con Persio; e omai provetto, qual sono, con infinito piacere mescolato di vergogna, bevo i dettati della ragione su le labbra di questo verecondo e santissimo giovanetto.
Son due le parti di questa eccellente satira v. La prima è una tenera significazione d’affetto e di gratitudine verso il suo precettore Cornuto. L’altra aggìrasi tutta su quella nota sentenza stoica, che niuno è libero, fuori che il saggio.
custos purpura. v. 30. — Ne’ romani costumi era grave delitto l’offendere di qualsivoglia maniera un fanciullo che portasse pretesta. Perciò Persio la chiama custode dell’adolescenza. Ebbe forse di mira questa bella espressione il Tasso in quei versi dell’Aminta
... il suo bel cinto |
bullaque succinctis laribus. v. 31. — La porpora pretestale, e la bolla d’oro in forma di cuore, che i fanciulli ingenui portavano al collo per ornamento, deponevasi dagli adolescenti nell’entrare dell’anno decimo settimo, e consecravasi agli Dei famigliari, a cui Persio dà l’aggiunto di succinti, perchè rappresentavansi in abito di viaggio. E perchè in tal abito? Per indicare, cred’io, che queste domestiche e fedeli divinità stavano sempre pronte a seguire la fortuna del padrone di casa, ovunque gli piacesse di trasportarsi. Ecco finalmente Iddii discreti, e dabbene.
candidus umbo. v. 33. — La toga virile. Umbo è propriamente il centro dello scudo. Qui significa il centro delle pieghe nella toga medesima, che corrugata aveva appunto sembianza di scudo. La gioventù, assunta questa toga, girava a suo senno per la città custode remoto. La Suburra, il quartiere delle bagasce.
publius. v. 74. — Allorchè davasi ad uno schiavo la libertà, se gli poneva pure un prenome qualunque di cittadino romano, di Publio p. e. , di Marco, di Quinto ec. Persio dunque avarissimo di parole pone qui un Publio assoluto, con che vuole s’intenda uno schiavo fatto libero col prenome di Publio. Velina è il nome della tribù, a cui si suppone ascritto il liberto. Tesserula diminutivo di tessera è la bulletta o contrassegno qualunque, mediante il quale si partecipava alla distribuzione di grano, che si dava gratuito ai poveri cittadini.
vertigo. v. 76. — La giravolta innanzi al pretore sedente, in virtù della quale lo schiavo acquistava la libertà, chiamavasi vertigo da vertere.
vindicta. v. 88. — Nella cerimonia della manomissione, fatta la giravolta, il pretore toccava lo schiavo con una verga, detta vindicta, eo quod vindicabat in libertatem, o da Vindicio, nome di quello schiavo di poi fatto libero, che scoperse la congiura dei Tarquini sotto il consolato del primo Bruto. E con questo toccare il dimetteva libero cittadino. Questo rito medesimo è stato abbracciato da Santa Chiesa nell’assolvere dai veniali. Il penitenziere si sta sedente nel suo confessionale. I penitenti gli si presentano inginocchiati in distanza di cinque o sei piedi, e il reverendo percotendoli dolcemente con una lunga bacchetta sopra la testa, li manda netti d’ogni macchia peccaminosa.
masuri rubrica. v. 90. — Il titolo delle leggi si scriveva in lettere rosse, con terra, o cera miniata, detta rubrica. Quindi il rubras leges di Giovenale. Masurio fu giurisprudente celebratissimo e poverissimo al tempo di Tiberio, e tiene quì luogo della stessa giurisprudenza.
veteres avias. v. 92. — Cioè gli errori istillati dalle nonne, o dalle nutrici: espressione arditissima e rapidissima, di cui non credo capace la nostra lingua, benchè il Salvini abbia giudicato diversamente traducendo al suo solito: Mentre dal tuo polmon nonnaje io svello. Cosi l’edizione milanese.
tenuta rerum officia. v 93. — Sono quei dilicati doveri sociali non contemplati dalla legge, che legano vicendevolmente il core de’ cittadini, donde scaturiscano le amicizie, le parentele, e i riguardi scambievoli, senza i quali sarebbe uno stato di violenza la società. Ecco adunque in che si risolve il discorso di Persio coll’ex-mulattiere cittadino Marco Dama: il pretore poteva bensi di schiavo farti libero, ma non di sciocco un sapiente, nè insegnarti creanza e procedere di galantuomo: senza di che tu rimani mai sempre nella condizione di schiavo. Di questi Dama io ne ho veduti e provati ben molti sei anni fa, imberettati, tosati, ciarpati, ma scopati nessuno.
fixum nummum. v. 111. — Il fanciullesco trastullo di conficcare una moneta in terra, o legarla ad un filo per uccellare l’avidità dei passanti, dura anche al dì d’oggi.
baro. v. 138. — In latino è parola di contumelia, e significa sciocco, ebete, gaglioffone ec. La lingua italiana le ha dato cittadinanza e carattere facendo di barone un briccone. I tedeschi han fatto il contrario usurpandola in significato di nobiltà e signorìa. La storia di questo vocabolo, prima un balordo, poi un birbone, poi un signore, darà nell’occhio, ne vò sicuro, a più d’uno.
contentus. v. 139. — Come può darsi interpreti e traduttori, che prendano questo contentus in significato di contentamento e soddisfazione? La miseria minacciata dall’avarizia non fa ella a calci con questo senso? Non è egli evidente, che contentus è qui participio non di contineo ma di contendo? Vale adunque forzato, stirato, ridotto al sottile.
solea rubra. v. 169. — La pianella sul viso è stata e sarà sempre un’arme commodissima per le donne in collera coll’amante. Giovenale consiglia di adoprarla sopra le natiche — et solea pulsare nates. Ma io sto per Terenzio che la crede di miglior effetto sul viso: Utinam tibi commitigari videam sandalio caput.
nec nunc. v. 174. — Quì pure gl’interpreti vanno d’accordo come un sacco di gatti. Eppure il senso mi par sì netto e visibile. Nè io voglio tacere l’inopinato e peregrino sentimento che ne vien dopo, poichè lo veggo a tutti sfuggito. Persio va trascorrendo le diverse classi degli uomini in cerca d’un libero, e non vede per tutto che schiavi. Gli capita finalmente un Davo, un miserabile servo, che pieno d’onore e di fedeltà si studia di svolgere da una tresca amorosa il padrone; ed ecco, esclama subito Persio, ecco l’uomo libero ch’io cercava. Questo trovare la libertà non fra lo splendore delle dovizie e del grado, ma fra i cenci della povertà virtuosa, mi sembra idea nobilissima e consolante. Ella solleva la condizione del misero, che la fortuna ha condannato a servire, e lo vendica degli oltraggi che fa l’orgoglio ricco e potente alla virtù bisognosa.
festuca. v. 175. — Vedi prima la nota al v. 88. Dopo che lo schiavo aveva ricevuta dal pretore la libertà col tocco della bacchetta, il littore anch’esso percotevalo sulla testa con una festuca, o fuscello di legno, o altro che fosse, e così finiva la manomissione. Di tutte tali cerimonie Persio ricorda la più ridicola, onde più giustamente beffarsi d’una libertà cosiffatta. Forse, e senza forse, questo frizzo gli è stato suggerito da Plauto. Quid ea? ingenua, an festuca facta? serva, an libera?
vigila. v. 177. — È l’ambizione che parla al suo candidato, esortandolo ad accattarsi con abbondante largizione di legumi al popolo una magistratura, e ciò nelle feste di Flora, feste carissime alla canaglia, perchè liberissime e indecentissime.
herodis. v. 180. — Derisa la libertà degli stolti, degli avari, dei dissoluti, degli ambiziosi, Persio attacca per ultimo i superstiziosi. E quantunque Roma si fosse ben ricca di superstizioni sue proprie, nondimeno il poeta a fine di sollazzarsi colle più insensate e ridicole, si ferma su le giudaiche ed egiziane, ereditate poscia dalle varie sette de’ cristiani, secondo il lamento de’ S. Padri.
grandes galli. v. 186. — Sacerdoti di Cibele, così chiamati dal fiume Gallo nella Frigia, le cui acque inducevano, dicesi, la pazzìa: di che fa prova la castratura, a cui si assoggettavano per degnamente servire quella vecchia divinità.
cum sistro lusca sacerdos. ibid. — Cioè, la losca sacerdotessa d’Iside. Ma perchè losca? Fra le varie opinioni mi soddisfa quella dello Scoliaste: lusca autem ideo quod nubiles deformes, cum maritos non inveniant, ad ministeria deorum se conferant.