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cert’aria di filosofia, consolatrice de’ mali che incessantemente tormentano l’esistenza. Le riflessioni sulla brevità della vita, che Orazio mesce di continuo alle sue più ridenti pitture, l’immagine della morte ch’egli mai non resta di presentare al fianco medesimo della beatitudine, anche quando ragiona col dispotismo sul trono, queste verità coraggiose ristabiliscono tra lo schiavo ed il tiranno una qualche eguaglianza. Elle sono una specie di citazione che la filosofia produce al tribunale della natura contro la tirannía.
Altronde il monarca di Roma e del Mondo nel seno della pace recente di che godevano le provincie, aveva bisogno di essere divertito e lodato. I talenti poetici che procacciavano ad Orazio l’amicizia d’Augusto e la benevolenza de’ grandi, non sarebbono stati bastevoli a conservargliela senza il talento d’una consumata prudenza, al sola virtù di cui sia permessa la pratica quando si è perduta la libertà. Orazio possedeva eminentemente questo utile requisito. Ei sapeva a maraviglia e quando tacere e quando parlare, e portato, com’era, dalla natura alla satira, egli l’esercitò di maniera da non ingerire giammai il sospetto di bilioso misantropo, qualità abborrita in tutte le corti, qualità che avrebbe distrutta la sua fortuna. Prese quindi il partito di non armarsi del pungolo della satira, che per ridere e trastullarsi alle spese del vizio.
Tuttochè i versi d’Orazio sieno la storia fedele de’ suoi costumi, de’ suoi pensieri, di tutte le sue morali affezioni, egli è malagevole nondimeno il definirne il vero carattere, tanta n’è l’incostanza. Ora ei predica la mediocrità, ora le massime dell’ambizione; ora è avido del consorzio de’ grandi, ora li sfugge come un contagio, e sospira la solitudine. Settator moderato di tutte le opinioni quì lo trovi un Zenone, là un Epicuro. Tutta la sua vita è un sistema di voluttà mescolata di ragione e follìa; tutta la sua morale è condita di schietta onestà e del più basso libertinaggio. Per trovar grazia presso il fortunato oppressore della repubblica, dipinge se stesso un segnalato codardo, che nella battaglia di Filippi gitta lo scudo; un momento dopo fa il panegirico di Catone. Colmato di favori, egli trova di che lamentarsi in braccio della fortuna; patisce la malattìa della gente felice, il disgusto de’ beni. Per disannoiarsi si fa strappazzare dal proprio servo, e gli pone in bocca la satira di se stesso con tanta grazia, che il lettore non che assolverlo d’ogni colpa, gliene sa buon grado e gli applaude, perchè vi trova il suo conto, il perdono de’ suoi difetti.